Stai per sposarti, e ovviamente ho delle emozioni al riguardo. Credo che guarderò un po’ di televisione. Ho appena cominciato a conoscere il tuo uomo. Viene da un altro paese, è un falegname con due occhi vivaci sotto le palpebre assonnate. Mi piace come guarda di sbieco e pronuncia la prima sillaba, e la risatina tranquilla che gli scappa in momenti sconcertanti. Vi siete conosciuti durante la prima estate di covid, grazie all’amico da cui ti appoggiavi per evitare di stare da me. “Innamorati pazzi”, così me ne hai parlato qualche mese dopo, in piedi nella mia cucina. Ti ha costruito un letto. Dieci anni fa, quando mi sono sposata con N., mamma e papà mi hanno accompagnato all’altare insieme, ciascuno al mio fianco. Pensavo che avresti voluto lo stesso. Invece no: hai chiesto a me di accompagnarti.
Devo scrivere un discorso. Dev’essere semplice e fresco, dicono. Divertente, ma senza esagerare; sincero, ma non troppo pesante. All’inizio dell’anno ho tenuto un brindisi al matrimonio di una cara amica. Mi agitava l’idea di alzarmi in piedi davanti a tutti, ma la stesura del discorso in sé non è stata difficile: riuscivo a vedere con sufficiente chiarezza lei e la nostra storia, i suoi contorni, e le parole sono uscite fluidamente nelle ore che precedevano la cena di prova. Adesso invece, questo compito mi sta tormentando.
Ti sei accorta che, quando intoniamo un’armonia, una di noi di solito allunga la mano e la posa sul braccio, sul ginocchio o sul piede dell’altra, e la lascia lì fino alla fine della canzone?
Breve, contenuto, saldamente celebrativo, nella sua forma il discorso di matrimonio forse non è adatto alla relazione gemellare, che è al tempo stesso totalizzante e ambigua. Ma, a pensarci, quale forma potrebbe esserlo? Forse quella dell’oggetto “oblungo di terracotta con angoli smussati e due cavità agli estremi” che Alessandra Piontelli, psicoterapeuta italiana, ha visto nel 2000 in mano a due bambini di cinque anni, in un villaggio dell’Africa occidentale. Come afferma Piontelli, era tradizione che una coppia di gemelli portasse sempre con sé uno di questi oggetti, usandolo come guinzaglio l’uno per l’altro e consumando i pasti nelle sue cavità fino all’età di sette anni, quando l’oggetto veniva spezzato in due e ogni gemello poteva andare per la sua strada.
Piontelli ha anche notato il gesto significativo di un uomo papuano che teneva la sigaretta tra il pollice e l’anulare, perché l’indice e il medio li aveva recisi dopo la morte del gemello. Nella tradizione vodun dell’Africa occidentale, quando un gemello muore quello rimasto deve portare con sé una sua effigie, nutrirla, lavarla e metterla a letto ogni sera, per evitare che quello morto si arrabbi per essere stato escluso e induca il sopravvissuto a ricongiungersi a lui. In altre parole, qualcosa di rotto, tronco, surrogato. Una cosa un po’ triste. Innamorata pazza. Vedo che lo sei. L’ho visto quasi subito.
Ora tu e lui state costruendo una casa insieme, proprio come hanno fatto mamma e papà. Quando ci s’innamora di qualcuno, si crea un nuovo mondo e poi, se si è fortunati, lo si abita. Io e N. viviamo ancora nel mondo che abbiamo creato, anche se qualche anno fa ne abbiamo aperto i confini e abbiamo cominciato a frequentare altre persone. Perfino prima di allora, credo che ci fosse qualcosa di poroso nel nostro matrimonio, una stanza degli ospiti dove il letto era sempre pronto, un posto per te.
Di recente sono uscita con uno, il primo dopo tanto tempo. Ci siamo conosciuti su un’app, ma per una strana – o forse non tanto – coincidenza, lui aveva conosciuto te molti anni fa. Al nostro secondo appuntamento, in un anonimo hotel del centro, siamo usciti nudi sul piccolo balcone, con gli edifici marroni e le finestre gialle che incombevano su di noi, e lui ha cominciato a cantare Something’s coming da West Side story. Ho cantato con lui e mi ha ricordato come cantavamo insieme da giovani. È passato un po’ di tempo, ma ti sei accorta che, quando intoniamo un’armonia, una di noi di solito allunga la mano e la posa sul braccio, sulla spalla, sul ginocchio o sul piede dell’altra, e la lascia lì fino alla fine della canzone? A uno sguardo esterno, il tocco deve sembrare affettuoso, e lo è, ma è anche pratico, un modo per accordare lo strumento e mantenerlo intonato.
Ho letto Cassandra al matrimonio, il romanzo di Dorothy Baker del 1962, in cui Cassandra va al matrimonio della sua gemella sperando di “organizzare un salvataggio dell’ultimo minuto”. Se riuscisse a ritrovare la strada verso quella perfetta intesa che a volte condividono “sapremmo di nuovo chi siamo e come dovrebbero andare le cose e che cercare di dividerci è roba da pazzi”. Cassandra immagina una vita con la sorella, loro due sole, da qualche parte all’estero; lei scriverà mentre Judith suonerà il pianoforte. “Nient’altro sembra avere senso”, conclude, e come potrebbe esserlo, se Cassandra si considera “la metà di ciò che siamo”?
Judith, invece, vuole uscire da questo “noi” divorante, e il matrimonio è tanto la recisione rituale di un legame quanto la consacrazione di un altro. Una volta sposata, Judith guarda Cassandra e pensa: “Ciò che Dio ha diviso, nulla lo riunisca. Mai”. Nella sua mente – come, forse, nell’immaginario culturale occidentale – la codipendenza della gemellarità (contrapposta a quella del matrimonio) è incompatibile con la vita adulta. Condizione contingente, informe e senza futuro, non dissimile dall’infanzia stessa, l’identità gemellare deve essere messa da parte insieme alle cose per bambini. Altrimenti, teme Judith, “quelle come noi non possono davvero diventare persone e vivere vite felici”.
Questa lettura della gemellarità come svantaggio potenzialmente fatale riecheggia nel ristretto ma straordinariamente compatto genere degli psicodrammi gemellari, in cui i protagonisti gemelli adulti non riescono a sopravvivere come coppia. La gemella povera (Bette Davis) uccide quella ricca (Bette Davis) e ne prende il posto (Chi giace nella mia bara, 1964). Una infida gemella (ancora Bette Davis) muore in un incidente in barca dopo aver sedotto un uomo che appartiene di diritto alla gemella meritevole (sempre Bette Davis, L’anima e il volto, 1946). La gemella buona (Olivia de Havilland) trova l’amore con uno psicologo che scopre, attraverso il test di Rorschach, che la gemella cattiva (Olivia de Havilland) è cattiva e deve andare in prigione (Lo specchio scuro, di nuovo nel 1946). Questi film dividono una bellissima stella del cinema in due e poi raccontano una storia che la ricompone, sbarazzandosi del doppio. Una gemella deve risorgere dalle ceneri dell’altra, o entrambe andranno a fondo.
I due ginecologi gemelli identici interpretati da Jeremy Irons in Inseparabili (1988) di David Cronenberg non si sono mai separati veramente: condividono vite e amanti, entrando e uscendo l’uno dal nome dell’altro come fossero giacche appese all’ingresso. Finché uno dei due non si innamora della donna che hanno scopato entrambi e lei ricambia quel gemello in particolare. Il loro sesso, che prevede strumenti chirurgici come tubi di lattice e forcipe, è una sorta di parto singolo. Il gemello innamorato alla fine si “separa” dal fratello uccidendolo con una cerimonia chirurgica violenta ma consensuale, eppure l’operazione non lo libera; non riesce a sopportare la singolarità e l’inquadratura finale del film mostra i loro due corpi senza vita e intrecciati.
I gemelli ricorrono nell’horror perché ci mettono di fronte a ciò che già, con un po’ di disagio, sappiamo: nessuno di noi è separato. Ma se la prossimità dei gemelli evoca paura e confusione, è anche un’aspirazione, una fantasia frequente nei figli unici. In Il cowboy con il velo da sposa (1961), due ragazze si ricongiungono come gemelle, una narrazione del distacco al contrario, e, con il potere della gemellarità (“Pensi anche tu quello che penso io?”), riuniscono pure i genitori, scongiurando il divorzio.
“Il gemello immaginario rappresenta un rapporto che non è minacciato dalla separazione”, ha scritto la psicologa Dorothy Burlingham. Il gemello reale, ovviamente, non offre simili garanzie, ma è un’idea confortante. Un’unione non minacciata dalla separazione: è ciò che chiediamo a un matrimonio.
Il matrimonio è domani e non riesci a scegliere tra due abiti. Uno è squadrato e diafano, bianco con un motivo a fiori rossi; l’altro è di lino nero. Ora indossi quello bianco, la tua prima scelta. “Non capisco cosa ci ho visto in questo vestito”, dici, allungando il collo. Sembravi così sicura quando sei tornata a casa dopo averlo comprato, e io ero sicura perché lo eri tu. La mamma teme che tu possa avere caldo con quello nero. “Il bianco è più estivo”, dice, guardandomi.
La sera, quando arrivo alla cena di prova, un vecchio amico del tuo uomo che non ho mai conosciuto mi augura tanta felicità, scambiandomi per te. Tu sembri davvero felice. Quando il gazebo è pieno e il banchetto è servito, ti alzi e ringrazi tutti noi che ti stiamo accompagnando in questa traversata. Mi piace questa parola; mi fa pensare a una gita in gommone in acque agitate, al giorno in cui mi hanno fatto l’induzione del parto e oscillavo su quella palla blu per la gravidanza, come un ubriaco su una zattera. Tu eri lì, mi hai chiesto com’era il dolore, la tua mano fresca sul mio collo. Un coltello nell’ano, ho grugnito e tu hai annuito, respirando con me. Ore dopo, proprio mentre il medico mi diceva di andare avanti e cagarmi addosso, N. che mi reggeva una gamba e il medico l’altra, sei arrivata di corsa con una busta di plastica bianca che dondolava sul braccio, senza fiato, gridando “Sono la doula!” al personale che aveva cercato di fermarti. Hanno inserito una mano e tirato fuori mia figlia, tu hai infilato una mano nel sacchetto e hai tirato fuori una confezione di ghiaccioli al lime. Mi stavano dando quella medicina che fa venire sete, e non dimenticherò mai la sensazione di quel ghiacciolo pallido sulla lingua, la pungente dolcezza del lime sulle labbra e sui denti dopo tutta quella carneficina negli altri buchi; mi è venuta voglia di metterne uno lì sotto, e ho chiesto un po’ di ghiaccio su cui sedermi.
Ora, mentre cala l’oscurità e il prato diventa blu, mia figlia scompare e riemerge, un’apparizione che sfreccia tra i corpi in piedi, i bordi delle tende, i tavoli con la torta. È la prima volta che partecipa a una festa come persona abbastanza autonoma, un essere che cammina con qualche tipo di scopo. Mi tengo in disparte dalle forme in ombra, il chiacchiericcio si diffonde nel crepuscolo, mi ricorda il mio matrimonio. Ripensandoci, mi chiedo se in parte sia stato un segnale per te o, forse, proprio per me: ora mi legherò a un altro. Vedi come faccio? Io faccio così.
Senti questa e dimmi cosa ne pensi. Ho mandato un messaggio all’uomo che frequento: “Buongiorno” e poi una mia foto mezza nuda. È successo più di un’ora fa. Pensi che stia ancora dormendo o che si stia godendo il vantaggio, facendomi aspettare? Questa “apertura” dovrebbe liberarmi, invece continua a trattenermi, mentre mi domando cosa stia provando lui. Ci si sposa anche per lasciarsi dietro per sempre questo tipo di incognita, questa prolungata incomprensione.
È presto e lo conosco appena, ma sto lottando con un impulso familiare. Forse l’hai provato anche tu? È il desiderio di concedermi completamente, subito e senza riserve. Una cosa come: “Eccomi, prendimi”.
“Non perdere il tuo potere”, dice N. mentre pieghiamo il bucato, come se il mio potere fossero le chiavi della macchina o la spazzola o qualche altro oggetto che tendo a smarrire. O forse quello che dice è “Non rinunciare al tuo potere”. Ultimamente N. è diffidente nei miei confronti, turbato dalla trance in cui mi trovo, dal fatto che l’altra sera ho dimenticato di dare le medicine a nostra figlia, dal fatto che sono, come dice lui, “su di giri”. Anch’io diffido di me stessa e di quell’uomo, che sembra il tipo pronto a sparire al primo soffio di vento, uno che mi guarda in profondità negli occhi e, quando chiedo con timida speranza “cosa?” sussurra solennemente: “La cacca rosa”.
“Andrà bene”, dice N., “devi solo farti coraggio”. “Come?”, domando, e lui risponde: “Contieniti”.
È un buon consiglio. Mi conterrò e razionerò la mia disponibilità, per quanto mi sembri innaturale. Da quando lo conosco, rido in momenti strani, una risata pericolosa e senza ritegno. L’altra sera, per strada, si è avvicinato come per baciarmi in bocca, poi mi ha fatto una gigantesca pernacchia sulla guancia, e io sono stata colta da una risata silenziosa così feroce che mi sembrava di brancolare nel buio lungo un muro vacillante. Sono abituata a corpi leggibili, a corpi familiari. Per me, lui non ha senso.
Non ha senso innamorarsi così rapidamente di questo sconosciuto, e anche il modo in cui m’innamoro mi sembra legato a te, a come vorrei mescolarmi a lui, sporgermi e tuffarmi dentro di lui, premere la mia parte ferita contro di lui.
“Vuoi sempre rimanere in piedi”, mi ha detto una volta un terapeuta. “Entri in una stanza e, qualunque cosa accada, qualunque cosa entri o esca, qualunque cosa faccia qualcuno, tu rimani in piedi”.
Mantieni la calma, penso. Rimani in piedi! Ma è come quello che ha detto un gemello di nome Toni nel libro di Ricardo Ainslie, The psychology of twinship (La psicologia dei gemelli): “Essere una sola persona fa davvero paura”.
Parigi, 2002: una donna statunitense che vive da sola in una stanza in affitto si mette in contatto con l’agenzia che ha gestito la sua adozione trentacinque anni prima, cercando informazioni sui genitori. Un responsabile dell’agenzia la informa che ha una gemella identica. La sorella è sposata, ha un figlio e vive a Brooklyn. Una gemella chiama l’altra e rimane scioccata nel sentire la propria voce. Si mettono d’accordo per incontrarsi. Quasi subito, una si trova a toccare i lobi delle orecchie dell’altra. Scoprono di aver succhiato le stesse due dita da bambine e che entrambe a volte mimano di scrivere parole nell’aria mentre le pensano. È una specie di storia d’amore travolgente, ma tormentata: chi sarebbero potute diventare crescendo insieme? Una gemella chiama il responsabile dell’agenzia. Perché, chiede, è stata separata dalla sorella?
Si tratta di un caso ormai tristemente noto: durante gli anni sessanta e settanta, l’affermata agenzia di adozioni Louise Wise services di New York divise almeno otto coppie di gemelli (oltre che almeno tre gemelli identici), facendoli allevare in famiglie diverse, senza informare i genitori adottivi. La famosa psichiatra Viola Bernard, che incoraggiò questa prassi, disse anni dopo: “Eravamo convinti che il collocamento di gemelli identici in case separate fosse vantaggioso per i bambini”, permettendo a ciascuno di loro “di sviluppare maggiormente la sua identità invece di una condivisa”.
Ovviamente, questa prassi era anche il sogno erotico di ogni genetista comportamentale: “Un’opportunità straordinaria”, come ha detto un ricercatore, “per porre fine una volta per tutte al dilemma ‘natura contro cultura’”. Il collega di Viola Bernard, Peter Neubauer, uno psicoanalista la cui famiglia era fuggita dall’Austria nazista, colse l’opportunità di studiare i gemelli separati raccogliendo dati su alcuni di loro per anni.
Forse Neubauer e Bernard pensavano che il fine di questo studio giustificasse i mezzi, un’ipotesi che non possiamo però avvalorare poiché la ricerca di Neubauer si trova negli archivi dell’università di Yale, inaccessibile al pubblico fino al 2065. Quello che sappiamo è che negli anni novanta, quando le circostanze dello studio vennero alla luce e suscitarono indignazione, Neubauer si limitò a dire che erano altri tempi. Bernard disse di aver agito sulla base “dei dati disponibili”, che dimostravano che “la gemellarità era un fardello”. Sarei tentata di liquidare questa difesa come una comoda scusa. Secondo la ricercatrice Nancy Segal, non esisteva alcuna letteratura sullo sviluppo infantile che raccomandasse la separazione permanente dei gemelli. Ma è anche vero che Bernard non è stata la prima nel suo campo a sollevare dubbi sulla codipendenza nei gemelli.
Un testo che quasi certamente ha influenzato il lavoro di Bernard è stato lo studio Twins (Gemelli) di Dorothy Burlingham del 1952, che osservò tre coppie di gemelli identici in un asilo nido di guerra in una tranquilla zona di Londra durante e dopo i bombardamenti tedeschi (Burlingham aveva fondato l’asilo con la compagna, Anna Freud).
Celebrato da D.W. Winnicott come “forse il lavoro più completo del suo genere in circolazione”, allo studio è stato attribuito il merito di aver aiutato a demistificare la relazione gemellare, in parte smentendo l’idea che sia “serena e immutabile”, come scrisse Burlingham.
In istituto, sotto osservazione e vedendo i genitori di rado, i gemelli di Burlingham a volte si rivoltano l’uno contro l’altro. Bill maltratta Bert. Jessie deride Bessie. Mary chiama Madge “culo sporco di cacca”. L’inevitabile conflitto e la rivalità non suscitano troppo allarme, ma altri comportamenti sì. Per esempio, “quando Jessie gioca a fare il cane, Bessie smette di fare quello che sta facendo e fa il cane anche lei”. Secondo Burlingham, questa imitazione è disadattiva e suggerisce un “contagio emotivo” che può deviare il naturale destino di un gemello. “Separata da Jessie”, scrive Burlingham, “Bessie avrebbe potuto sviluppare le proprie caratteristiche, che erano quelle di una bambina attiva, originale e concentrata”.
Burlingham, lei stessa sorella di gemelle più grandi, non sostenne mai la necessità di crescere i gemelli separati, anzi lo giudicò “un metodo inadeguato per risolvere la situazione”. Ma in tutti i casi suggerì che i suoi soggetti sarebbero cresciuti meglio da soli. È una scelta sorprendente, considerando quanto le sue osservazioni catturino con nitidezza l’angoscia e lo smarrimento dei gemelli separati. Durante i mesi in cui Madge, di quattro anni, era ricoverata in ospedale per la tigna, Mary a volte “si sedeva sul pavimento, si dondolava e piangeva, ripetendo in continuazione: ‘La mia Madge, la mia Madge’”. Quando Bert, di un anno e mezzo, fu separato per breve tempo da Bill a causa di una malattia, cominciò a dire “tutto finito”, anche se aveva un vocabolario di sole cinque parole. Una notte Bill disse “tutto finito” ininterrottamente dalle 22 alle 3.30 del mattino.
La mamma ora è preoccupata per gli insetti. Ha fatto spruzzare l’area vicino al laghetto, ma non è una garanzia. Forse i ventagli saranno d’aiuto. La nipote di otto anni del tuo uomo ha trascorso la mattinata sul divano circondata da fogli di carta color crema, piegando ventagli e legandoli con nastri d’oro o d’argento. Da quando siamo arrivati, mia figlia si è attaccata a questa nipote, seguendola ovunque vada. Anch’io mi sento attratta da lei. C’è qualcosa nella sua presenza, nel suo interesse per ogni dettaglio e nella sua incrollabile fiducia in ogni iniziativa che le conferisce una sorta di autorità tra gli adulti smarriti.
I barilotti di birra sono arrivati, il catering sarà qui tr a poco. Io e la nipote stiamo raccogliendo per strada i fiori di carota selvatica per i bouquet, seguite da N., che porta nostra figlia sulle spalle. Mamma e papà sono al gazebo con il tuo uomo e i suoi fratelli, allestiscono il bar. Smettiamo tutti di fare quello che stiamo facendo per dare il via alla prova.
Partendo dalla grande roccia grigia vicino al laghetto, le ragazze cammineranno per prime, mano nella mano. Poi, quando la musica cambierà, io ti accompagnerò all’altare. Faremo una ventina di passi superando le file di sedie bianche fino al bordo del laghetto, dove il tuo uomo ti aspetterà con suo fratello e un officiante di nome Bob. Una volta raggiunto Bob, ci separeremo.
Finché non arriva il momento di acconciarti i capelli, continuo a defilarmi per borbottare tra me e me, per sperimentare frasi ed enfasi diverse. Voglio conquistare il tuo uomo, impressionare la sua e la nostra famiglia e renderti orgogliosa di me. Voglio che tutti pensino: “La sorella è vulnerabile, ma integra”. Conosco il discorso a memoria, ma c’è ancora qualcosa che non va. Forse il problema è proprio saperlo a memoria. “Rivolgiti a lei”, ripete la mamma.
Mi rivolgo a te. Potrei parlarti dell’infatuazione appena sbocciata, di quei dolci, goffi sintomi che devono essere ancora freschi nella tua memoria, come restare sveglia nel letto accanto al suo corpo addormentato, fare rumore inghiottendo nel buio, vestirsi in silenzio la mattina per uscire e farsi scappare un’enorme scoreggia.
Ho avuto paura di chiamarti, paura della distanza che ci separa, della diversa definizione che abbiamo di “matrimonio”, di “amore” e di tutto il resto. Soprattutto ho paura di quando non sei disponibile, del suono della tua voce, di come mi faccia venire voglia di rompere qualcosa, di entrare a forza da qualche parte. A volte, quando voglio raggiungerti, mi costringo a sedermi al computer e a scrivere, dandomi un comando, come un mantra: “Se devi sfogarti, sfogati qui, non su un’altra persona”. Riversa te stessa in qualcosa che è almeno in parte tuo, in qualcosa che almeno in parte conservi.
Forse è quello che sto facendo ora, creando una tua effigie da portare con me. Non sono pronta, non lo sono mai stata, a consegnarti a qualcuno.
Il che è buffo, perché l’abbiamo provato così tante volte, da quell’evento di fissione originale con cui siamo state create, alla prima volta che ti ho chiamato con il tuo nome invece che con il mio, fino a questa prova. Oggi si parla tanto di “stile di attaccamento” di una persona, un’espressione angosciante, dato che lo stile è inesplicabile. Non si sente invece parlare di “stile di separazione”. Forse sono la stessa cosa.
Grazie a te ultimamente ho notato quanto possa essere intimo il linguaggio della separazione, il candore della nostra distanza, il modo in cui ci sorridiamo e sospiriamo a vicenda. L’ho notato anche con N.; infatti, non appena io e lui abbiamo cominciato a considerare la possibilità di una “separazione”, siamo passati a una nuova, disarmante vicinanza. Oggi la nostra terapeuta condivide con noi un diagramma che ha disegnato del nostro “ciclo distruttivo”, e quando lo vediamo ci attraversa una scarica di familiarità, ridiamo. È come se fossimo per un momento in combutta per la nostra stessa rovina, come se tutto quanto – il sesso, le lacrime, le promesse, la colazione, il parto, le suppliche e la chiusura, la casa, il tavolo con il suo disordine di fatture e briciole e giocattoli, lo stare in piedi a cullarci abbracciati per minuti interi – fosse un mucchio di esilaranti birichinate che abbiamo combinato in passato e che ora stiamo osservando insieme dal “dopo”. Forse questo ciclo andrà avanti a oltranza, la separazione acquisirà una qualità comica attraverso la ripetizione: questi due corpi continuano a cercare di separarsi, ma, scherzetto, sono attaccati!
La nostra terapeuta ci ha spiegato l’attaccamento descrivendo un bambino piccolo che vede un oggetto luccicante dall’altra parte della stanza. Sapendo che la madre non sparirà quando le volterà le spalle, il bambino attaccato in modo sicuro – e quindi separabile in modo sicuro – può avventurarsi verso ciò che brilla. Il nuovo uomo è ciò che brilla davanti a me ora: posso esplorare in sicurezza? Se è così, forse N. lo rende possibile, il nostro attaccamento serve da palcoscenico per quello nuovo, basato sul presupposto di restare separato dal resto della mia vita. So che non vuoi che ti chieda cosa dovrei fare, come dovrei procedere, e ho cercato di trattenermi. Ma una sera, seduta al tavolo della cucina dopo che hai disegnato con mia figlia, te lo chiedo, a modo mio. Rimani in silenzio, mi guardi e quando parli lo fai lentamente, da molto lontano. “Penso che tu. Debba trovare un modo. Per prendere questa decisione. Dentro di te”.
Mi viene in mente un capitolo di The lone twin (Il gemello solitario), lo studio di Joan Woodward sui gemelli in lutto, che contiene testimonianze di persone i cui gemelli sono morti da piccoli. Una donna che ha perso la gemella alla nascita ha detto che sentiva “come se mi mancasse qualcosa lungo tutto il corpo”; un altro, che all’età di undici anni ha scoperto di avere un gemello morto in tenera età, ha raccontato che “finalmente ho cominciato a capire il motivo per cui mi sentivo così solo”. Queste persone stanno facendo un uso narcisistico del gemello perduto, oppure i loro corpi ricordano e portano davvero il lutto? Ho la sensazione di credere a entrambe le cose. Non riesco a liberarmi della fantasia romantica che il nostro legame sia “speciale”, che precede e sopravvive a tutto, e che io sono qualcosa che ti riguarda.
È ora di vestirsi. Papà, che parlerà prima di me, è in piedi davanti al computer, un po’ agitato. “Perché non stampa su entrambi i lati?”. Alla fine si porta le tre pagine di testo a caratteri grandi in camera da letto e chiude la porta. La nipote del tuo uomo entra con una borsetta piena di boccette di smalto per unghie di diverse tonalità, e tu ti siedi in salotto sotto il suo sguardo serio, cercando di tenere la mano ferma mentre passi il pennello. La mamma si chiede se il suo top stoni con la sciarpa di seta che si sta legando al collo. Papà esce con la camicia sbottonata e si aggira per le stanze silenziose. “Dovrei andare a socializzare adesso?”, si domanda.
In fondo alla collina, le prime auto stanno parcheggiando. Il tuo chignon continua a sfuggire al fermaglio marrone, così ti metto anche un elastico. La mamma ti passa un filo di trucco sotto gli occhi e tu provi il mio rossetto. Ti applichiamo sul braccio uno degli adesivi azzurri brillantinati di mia figlia.
Siamo in piedi davanti allo specchio, io dietro, gli occhi puntati su di te. Ha senso che tu sia ricoperta di enormi fiori scarlatti: un abito interamente bianco si addice al vuoto della giovinezza, ma così mi sembri più tu, un’opera complessa. Lo sono anch’io, con il mio vestito nero e le scarpe da ginnastica bianche (più tardi scherzerai sul fatto che sembravamo pronte a sposarci una con l’altra). In questo momento ti trovo straordinariamente coraggiosa.
Siamo in anticipo e non possiamo che aspettare. I nostri bouquet sono in frigorifero. Ci prende una vitrea, vertiginosa sensazione di “e adesso?”. Gli ospiti arrivano sempre più numerosi, si accalcano intorno al bar e si aggirano per il gazebo. Scenderemo appena si dirigeranno verso le file di sedie bianche.
Nostro cugino arriva di corsa dal vialetto con la macchina fotografica per dirci che è il momento. Restiamo in piedi per qualche scatto, la nipote del tuo uomo sorride, mia figlia comincia a irrigidirsi davanti alle macchine fotografiche. Tu sospiri, ti raddrizzi e dici “Bene” e io dico “Bene” e diciamo qualche altra variazione di “Bene”. Poi mia figlia parte di corsa e la nipote la insegue e nostro cugino le insegue entrambe, e noi ci guardiamo, ci prendiamo a braccetto e cominciamo, a passi uguali, sorridendo al nulla, a scendere giù per la collina. ◆ svb
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Jean Garnett è un’editor della casa editrice statunitense Little, Brown and Company. Questo articolo è uscito sul settimanale The New Yorker con il titolo Giving away my twin.
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Questo articolo è uscito sul numero 1567 di Internazionale, a pagina 116. Compra questo numero | Abbonati