L’elezione di Donald Trump – e la sua promessa di ritirare ancora una volta gli Stati Uniti dagli accordi di Parigi – rappresenta una seria minaccia alla lotta al cambiamento climatico. La vittoria di Trump è arrivata a pochi giorni dall’inizio della Cop29 in Azerbaigian, la conferenza annuale delle Nazioni Unite sul clima che dall’11 al 22 novembre riunisce i rappresentanti di quasi duecento paesi

Stavolta l’uscita della prima economia mondiale e del secondo paese per emissioni di gas serra rischia di avere ripercussioni più durature di quella decisa da Trump durante il suo primo mandato. Il prossimo presidente ha la possibilità d’indebolire la già traballante fiducia nella cooperazione climatica che ha segnato lo scorso decennio. Il suo ritorno promette di destabilizzare la delicata opera di diplomazia che ha favorito gli interventi per ridurre le emissioni di gas serra e passare all’uso di energie rinnovabili. Nel prossimo decennio, che sarà cruciale per limitare l’aumento delle temperature, questi sforzi potrebbero arenarsi senza l’impegno statunitense.

Anche se Trump entrerà in carica solo a gennaio, la sua elezione riduce la credibilità della delegazione statunitense alla Cop29, complica enormemente i negoziati sulla quota di fondi pubblici che i paesi ricchi possono destinare a quelli meno industrializzati per aiutarli ad affrontare il cambiamento climatico, e rischia di limitare la portata dei nuovi impegni sulla riduzione delle emissioni che dovranno essere presentati entro febbraio.

Oltre alle ricadute sulla Cop29 potrebbero esserci conseguenze ben più vaste. Un nuovo ritiro degli Stati Uniti dalla cooperazione sul clima rischia di cancellare ogni speranza residua di mantenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto di un grado e mezzo rispetto al periodo preindustriale, un obiettivo previsto dall’accordo di Parigi. “Per avere qualche possibilità di rispettare gli obiettivi di Parigi bisogna puntare molto più in alto”, ha detto Alden Meyer del gruppo di esperti sul clima E3g.

Washington è da tempo considerata un partner inaffidabile eppure necessario ai dialoghi annuali sul clima: non ha aderito al protocollo di Kyoto e ha in parte rinnegato il suo impegno a versare miliardi di dollari in un fondo delle Nazioni Unite per il clima. Nel 2017 l’inaffidabilità statunitense era culminata nella decisione di Trump di ritirarsi dall’accordo di Parigi. Anche se gli altri paesi non hanno seguito il suo esempio e nel 2021 il suo successore Joe Biden è rientrato nell’accordo, l’uscita aveva marginalizzato un paese che è stato determinante per stimolare gli interventi contro il cambiamento climatico. Gli Stati Uniti, infatti, sono i principali azionisti della Banca mondiale, un’istituzione fondamentale per finanziare la transizione energetica, e i loro negoziati con la Cina hanno contribuito a siglare un patto bilaterale, a stimolare l’impegno di Pechino e a gettare le basi per importanti accordi globali come quello del 2023 per abbandonare gradualmente i combustibili fossili. Washington ha anche fatto valere la sua forza diplomatica per garantire accordi internazionali più ampi e un maggior impegno a tagliare le emissioni. “L’assenza degli Stati Uniti si farà sicuramente sentire”, dice Jake Schmidt del Natural Resources Defense Council.

Secondo Schmidt altri paesi saranno spinti a fare un passo avanti per colmare il vuoto, ma è difficile che qualcuno sia in grado di esercitare lo stesso peso. Questi effetti saranno evidenti alla Cop29. Già prima della vittoria di Trump il vertice in Azerbaigian sembrava segnato dalle divisioni su chi dovrà contribuire al fondo per aiutare i paesi in via di sviluppo e dalla sfiducia verso gli stati ricchi, che non hanno mai onorato gli impegni.

In passato i paesi europei sono già intervenuti per compensare gli insufficienti contributi degli Stati Uniti, e molti diplomatici avevano già cominciato a fare i conti senza ulteriori impegni americani alla Cop29. Secondo alcuni, però, la vittoria di Trump ridurrà ulteriormente il contributo statunitense e potrebbe influenzare l’impegno economico di altri paesi.

L’elezione di Trump potrebbe spostare gli equilibri di potere in favore di altri paesi e blocchi, rafforzando il ruolo dell’Unione europea e spingendola a collaborare con la Cina. L’Unione, tuttavia, si presenta indebolita a Baku, perché alcuni dei suoi leader più importanti salteranno il vertice per questioni politiche interne. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha cancellato la sua partecipazione dopo la crisi di governo in Germania, e saranno assenti anche la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e il presidente francese Emmanuel Macron.

Effetto domino

Gli ambientalisti e i diplomatici lavorano da mesi per mettere la cooperazione globale al riparo da Trump. Questo tipo di coordinamento non c’era stato nel 2016, quando la vittoria di Trump aveva colto molti di sorpresa. Alcuni stati e città degli Stati Uniti stanno cercando di aumentare il loro impegno sul clima e di collaborare con partner stranieri.

Le azioni intraprese nel settore privato e nei livelli più bassi dell’amministrazione possono compensare una parte dei mancati impegni statunitensi, ma non sono paragonabili alla spinta del governo federale. In base all’accordo di Parigi, Washing­ton si era impegnata a ridurre le sue emissioni di gas serra di almeno il 50 per cento entro il 2030. Anche con le misure già approvate, tra cui alcune che Trump ha promesso di cancellare, quell’obiettivo sembra ancora fuori portata.

L’amministrazione Biden aveva preparato un nuovo piano di riduzione delle emissioni in vista della scadenza di febbraio. Gli attivisti e gli scienziati avevano chiesto di ridurre le emissioni di almeno il 65 per cento entro il 2035. Il piano potrebbe essere presentato comunque entro la fine dell’anno, ma sarà basato su misure presenti e future che non sopravvivranno a Trump.

Ora gli ambientalisti temono che altri paesi reagiscano al ritiro statunitense ridimensionando i loro impegni sulle emissioni. Gli effetti potrebbero essere più evidenti tra gli stati meno ambiziosi e tra quelli produttori di idrocarburi. Ma alcuni attivisti sperano che questa sia un’opportunità per dimostrare che l’azione contro il cambiamento climatico non dipende da un solo paese. Come dice Meyer, “la nostra speranza è che il resto del mondo faccia un passo avanti e decida di volere un successo a Baku”. ◆ sdf

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Questo articolo è uscito sul numero 1589 di Internazionale, a pagina 103. Compra questo numero | Abbonati