Binyavanga Wainaina diventò una celebrità della letteratura africana nel 2005, quando la rivista britannica Granta pubblicò la sua serie di istruzioni per scrittori di viaggio, giornalisti e operatori umanitari nell’articolo “Come scrivere d’Africa” (Internazionale 630). “Assicuratevi di dare l’impressione che senza il vostro intervento l’Africa sarebbe spacciata”, scriveva. “Non dimenticatevi d’inserire nel libro la donna africana denutrita che vaga seminuda nel campo dei rifugiati aspettando la carità dell’occidente”. I personaggi africani “dovrebbero essere pittoreschi, esotici, eccessivi, ma vuoti dentro”; gli animali “devono essere ritratti in modo complesso e articolato. Gli elefanti sono… femministe convinte e dignitosi patriarchi. E lo stesso i gorilla”. Il testo era divertente ma allo stesso tempo era una doccia gelata per gli stranieri che raccontavano l’Africa. Come potevano non riconoscersi nella pomposità riflessa dallo specchio che Wainaina gli metteva davanti? L’antropologia è l’unica disciplina che lo scrittore non ebbe il tempo di prendere in giro prima di morire nel 2019 per l’ultimo di una serie di ictus, anni dopo che gli era stato diagnosticato l’aids. Resta uno dei grandi autori satirici di lingua inglese dell’Africa post­coloniale.

Wainaina nacque in Kenya nel 1971. Nel 1991 partì per il Sudafrica per laurearsi in economia aziendale, ma poi abbandonò il corso e si stabilì a Città del Capo. Tirò avanti lavorando come giornalista gastronomico e nel catering (era un cuoco eccellente), ma poi a un certo punto si allontanò dalla nazione arcobaleno, dove infuriavano amare dispute, e all’inizio degli anni duemila tornò in Kenya. In Sudafrica aveva già pubblicato qualcosa ed era entrato in contatto con altri scrittori africani, tra cui Chimamanda Ngozi Adichie, attraverso una comunità digitale in cui romanzieri, poeti e saggisti si scambiavano i loro lavori. Nel 2002 si candidò al Caine prize – il più importante premio letterario africano in lingua inglese – tirando fuori dal cassetto Scoprire casa, un esuberante racconto del ritorno nel suo paese natale che era rimasto fermo per mesi sulla scrivania di un redattore di una rivista statunitense e che alla fine era stato pubblicato senza le modifiche che Wainaina aveva richiesto. Ne mandò una nuova versione al giornale online G21 e la sottopose ai giurati del Caine. La respinsero con la motivazione che G21 non era una pubblicazione seria (cioè di carta). Per Wainaina la decisione del Caine di non accettare pubblicazioni digitali fu la goccia che fece traboccare il vaso di anni di frustrazioni per lo stato dell’editoria africana. Negli anni sessanta i curatori della collana dedicata agli scrittori africani della casa editrice londinese Heinemann sognavano di spedire i libri dai magazzini ai negozi e ai lettori di tutto il continente, ma furono sconfitti dalla logistica. Le case editrici africane erano pochissime e le infrastrutture molto carenti. Il cinema africano doveva affrontare le stesse difficoltà e in breve tempo diventò un fenomeno di nicchia per un pubblico nordamericano ed europeo. Mancavano i finanziamenti e una rete di distributori locali, perciò i grandi registi africani diventarono famosi solo fuori dal continente. Durante la guerra fredda, era raro trovare in Africa dei cinema dove si proiettasse qualcosa di diverso dai film di kung-fu o dagli avanzi di Holly­wood o del blocco sovietico. I principali successi africani dell’era analogica furono i film di Nollywood, prodotti dall’inizio degli anni novanta per essere distribuiti direttamente in videocassetta, e la musica (africana e non) che dagli anni settanta circolava di mano in mano sulle audiocassette, in barba al copyright.

La decisione del Caine prize di non accettare pubblicazioni digitali fu la goccia che fece traboccare il vaso di anni di frustrazioni per lo stato dell’editoria africana

Ma quando Wainaina decise di contestare la decisione dei giudici del Caine non fu per attirare l’attenzione sul problema della pirateria. “Se negli ultimi dodici mesi in Africa non è uscita neanche una raccolta di saggi o di racconti, da dove pensate che vi arriveranno le candidature?”, chiedeva Wainaina.

Nel suo racconto Scoprire casa si trovano le tipiche frasi altisonanti che piacciono a chi assegna i premi letterari (“L’economia del Kenya è sull’orlo del collasso, ma noi continuiamo a marciare come formiche scacciatrici”) e passaggi lirici (“L’erba kikuyu a bordo strada piange lacrime argentate che brillano della luce del ricordo”). I giudici, perciò, ci ripensarono e gli diedero il primo premio. Wainaina investì quel denaro fondando a Nairobi la rivista letteraria Kwani? (E allora?, in sheng). Fu lanciata in edizione cartacea e rimase sempre fedele al formato originale. Sul primo numero figuravano lo scrittore keniano Muthoni Garland, il vignettista tanzaniano Gado e il sudafricano Njabulo Ndebele, con un articolo sulla cantante Brenda Fassie. Il racconto Weight of whispers (Il peso dei sussurri) di Yvonne Adhiambo Owuor vinse il Caine prize l’anno successivo, nel 2003.

Il saggio pubblicato su Granta proiettò Wainaina nel firmamento della letteratura come un astronauta solitario. Era passato parecchio tempo dal periodo delle prime indipendenze africane quando gli scrittori del continente erano apparsi al resto del mondo come una grande squadra: Wole Soyinka, Chinua Achebe, Ngũgĩ wa Thiong’o, Bessie Head, Mongo Beti, Es’kia Mphahlele e tanti altri. Lo stesso Wainaina minimizzava il suo successo: si considerava uno dei tanti giovani scrittori che stavano creando una lingua letteraria panafricana per il ventunesimo secolo.

“Come scrivere d’Africa” ha fatto emergere un senso di stanchezza e scetticismo per come si comportano o parlano i non africani quando arrivano nel continente. Per l’autore anglonigeriano Dipo Faloyin gli interventi umanitari sono raramente migliori dei disastri che propongono di affrontare, e spesso sono usati come copertura per altri scopi. Sotto questo aspetto i personaggi famosi sono particolarmente opportunisti. Nel saggio di Faloyin “The birth of white saviour imagery” (La nascita dell’immaginario del salvatore bianco) il “come” di Wainaina diventa un caustico “come non”: “Dovreste evitare di prendere a caso bambini che non conoscete per una foto che poi pubblicherete online… Non importa quanto sono poveri o carini”. In “Why do western media get Africa wrong?” (Perché i mezzi d’informazione occidentali non capiscono l’Africa?) la scrittrice keniana Nanjala Nyabola sostiene che spesso il primo giornalista occidentale a presentarsi sulla scena e a consegnare un articolo (di solito su un disastro) è considerato una fonte più attendibile dei blogger o dei cronisti africani. Il risultato, sostiene Nyabola, è una descrizione involontaria di “quello che l’occidente non è” – un mondo caotico, dilaniato da tensioni etniche, povertà e conflitti – anche se un giornalista di un paese africano non avrebbe difficoltà a notare le stesse fratture in Europa o negli Stati Uniti.

Oggi nel giornalismo occidentale non sono più così frequenti le tracce delle rappresentazioni parodistiche descritte da Wainaina: da un’analisi degli articoli sull’Africa pubblicati da mezzi d’informazione francesi e britannici tra il 2007 e il 2012 non emergevano elementi che facessero pensare a una prevalenza di termini come “oscurità” o “tribalismo”, o a un continente presentato come “un’entità omogenea”. In quegli anni, però, Wainaina era convinto che quella visione dell’Africa non fosse del tutto scomparsa.

La sua bestia “bianca” era il giornalista polacco Ryszard Kapuściński. Tra tutti quelli che scrivevano di Africa, spiegò Wainaina in una column sul settimanale sudafricano Mail & Guardian, era il più bravo a farlo passare per un “nero arrabbiato”. Nell’articolo Wainaina raccontava di aver partecipato a una festa a New York a cui era atteso anche Kapuściński. Lui voleva approfittare dell’occasione per un confronto, ma Kapuściński non si presentò. Per consolarsi Wainaina si scolò un martini e si avvicinò a Salman Rushdie. “Ero in piedi davanti a Rushdie in persona, parecchio nervoso. Allora gli ho chiesto perché avesse invitato alla conferenza uno scrittore razzista come Kapuściński”. Rushdie fu evasivo e si allontanò, ma Wainaina tracannò un altro martini ed elencò le sue frasi preferite scritte dal polacco sull’Africa, “dei veri e propri classici”: “Ricordiamoci che il timore della vendetta è profondamente radicato nella mentalità africana”; “gli africani credono che il mondo sia impregnato di una misteriosa energia che scorre segretamente”; “gli africani mangiano solo una volta al giorno, la sera”; “l’oscurità spaventa gli africani. Ne hanno talmente paura che spesso rifiutano di partire dopo il tramonto”. In tono sprezzante definì quello di Kapuściński “un mondo sinistroide, alla Rider Haggard (autore britannico di libri d’avventura), strano, senza voce, fatto di gente dalla pelle scura che fa cose strane, senza voce e oscure”.

Il bersaglio di Wainaina era il cliché razzista. “Come scrivere d’Africa” non era una critica a posteriori del colonialismo perché secondo lui era troppo tardi. Non gli si può neanche rimproverare di conoscere poco le lotte di classe africane, il neocolonialismo o il passato coloniale. Wainaina era nato nel 1971, un anno prima della pubblicazione del libro How Europe underdeveloped Africa (Come l’Europa ha sottosviluppato l’Africa) dello storico Walter Rodney, ed era un adolescente quando Nelson Mandela fu scarcerato o quando il Kenya invocò a furor di popolo il “multipartitismo”. Wainaina apparteneva a una seconda ondata di intellettuali post-indipendenze che poteva lasciarsi il passato – e la guerra fredda – alle spalle senza paura di perdere traccia della storia: era il momento dell’Africa e, dal punto di vista dello scrittore keniano, solo i pensatori più pigri e ostinati continuavano a insistere sull’eredità del colonialismo. Questa tesi è sviluppata nel libro Un giorno scriverò di questo posto (66thand2nd 2013).

Nel 2013, intervistato da Al Jazeera, Wainaina disse che i donatori stranieri danneggiavano le iniziative locali in Kenya e coprivano i politici corrotti. La giornalista Folly Bah Thibault, francoguineana, gli chiese: “Ma la corruzione non è una conseguenza, un effetto, del colonialismo?”.

“In che modo?”, rispose lui garbatamente. “Il colonialismo è finito da cinquant’anni. Viviamo in nazioni sovrane, autodeterminate, che hanno il destino nelle loro mani. Perciò, guardare indietro vuol dire crogiolarsi inutilmente nel vittimismo. Prendiamo chi ha rubato dalla cassa e arrestiamolo”. Wainaina immaginava che, come in occidente, anche i governi africani dovessero rispondere delle loro azioni, senza tenere conto del fatto però che i sistemi giudiziari del continente, a differenza di quelli di Stati Uniti ed Europa, non avevano le risorse o l’autorità per perseguire i politici corrotti. Aveva poco più di quarant’anni, e l’ottimismo della sua generazione non era ancora svanito.

In quel periodo usò la formula del famoso articolo su Granta per prendere in giro i dittatori africani. Regola 1 di “Come diventare un dittatore”: “Sii l’uomo più ricco del paese”. Regola 11: “Non mandare in Svizzera tutti i soldi che rubi e non darli a tua moglie”. Regola 16: “Ama la Cina”. Invece in “Come diventare africano” accusava la diaspora nordamericana di rivendicare un ruolo sproporzionato per l’Africa come origine di tutte le civiltà: “I tutsi erano gli antichi fenici e greci. Gesù era africano. Abbiamo inventato noi il caffè. Ognuno di noi discende da re e regine. Il bisnonno di Puškin veniva dal Camerun. Diciamo insieme mamaaaa… Africaaaaaaaaaa”. A quel punto la formula dava risultati altalenanti.

Gabriella Giandelli

Uno dei migliori è “How to write about Africa II: the revenge” (Come scrivere d’Africa II: la vendetta). In questo breve articolo del 2010 uscito sul sito Bidoun Wainaina spiegava com’era nato quello originale: era indignato per lo speciale Africa pubblicato da Granta nel 1994, che gli era capitato tra le mani all’inizio degli anni duemila. Lo descriveva come un “greatest hits di Cuori di tenebra del cazzo”: “Non era tanto la cupezza che m’infastidiva, ma la stupidità. Non c’era niente di nuovo, nessun approfondimento ma un sacco di ‘reportage’ – oddio, guarda, oh, perbacco – come se l’Africa e gli africani non facessero parte della conversazione, come se in realtà non vivessero anche loro a Londra, nel palazzo di fronte agli uffici di Granta”. Wainaina scrisse di getto un’email sconclusionata al direttore dell’epoca, Ian Jack, che gli commissionò un articolo per un nuovo speciale sull’Africa con cui fare ammenda per quello precedente. Lui accettò ma non riusciva a scrivere nulla, così Jack gli propose di “pubblicare la sua lunga, folle email”. In questo modo, spiegava nell’articolo, era diventato l’arbitro di quello che i visitatori stranieri nei paesi africani potevano dire. “Sono diventato virale, sono diventato spam. Ora sono ‘quello là’, la coscienza dell’Africa: io vi ammonirò e io vi darò l’assoluzione. Vaffanculo, Granta. Grazie, Granta”.

In un numero precedente – non quello che aveva fatto arrabbiare Wainaina – la rivista aveva pubblicato un mio reportage sui conflitti scoppiati nelle township del Sudafrica dopo la scarcerazione di Mandela nel 1990. Non m’interessa tornarci: Wainaina aveva ragione quando diceva che le testimonianze come la mia erano spesso la negazione di quello che va considerato “approfondimento”. William Buford, all’epoca direttore del giornale, voleva che i suoi collaboratori mostrassero senza raccontare, come un insegnante di scrittura creativa avrebbe potuto chiedere ai suoi studenti. Quell’estetica dell’ellissi è proprio ciò che Wainaina gli contestava di più. Pochi anni dopo la stampa internazionale spostò l’attenzione sulle guerre nell’ex Jugoslavia, su cui c’era parecchio da scrivere. Nel 1995 Michael Holman – un dissidente dell’ex Rhodesia di Ian Smith che sarebbe poi diventato responsabile dell’Africa per il Financial Times – confessò privatamente di aver provato un senso perverso di sollievo perché la copertura giornalistica del “conflitto etnico” non riguardava più solo l’Africa. All’epoca Wainaina era troppo giovane per dare la sua assoluzione ai giornalisti occidentali che lavoravano in Africa, ma i migliori tra loro la stavano già cercando. A metà degli anni novanta i lettori europei che compativano la barbarie del Ruanda furono costretti a fare i conti con Srebrenica.

Wainaina sapeva da tempo di essere gay. Fece coming out nel 2014 con un articolo pubblicato sul sito Africa is a Country. Nel paragrafo iniziale immagina di essere al capezzale della madre morente, pronto a dirle quello che avrebbe voluto rivelarle da quando era bambino. Nella sezione successiva “La versione giusta degli eventi”, l’autore è in Sudafrica, pronto a partire per andarla a trovare, quando lo zio gli dice che è troppo tardi. “Ho 29 anni”, scriveva. “È l’11 luglio 2000. Io, Binyavanga Wainaina, molto onestamente giuro che so di essere omosessuale da quando avevo cinque anni”.

Non voleva ripetere le solite cose che si dicono sulla condizione dei gay in Africa. Secondo alcune statistiche scoraggianti ci sono più di sessanta paesi che criminalizzano i rapporti tra omosessuali e per la metà sono africani. La discriminazione contro la comunità lgbt è una delle poche questioni su cui cittadini e governi sono allineati, tra episodi spontanei di violenza omofoba e una legislazione molto restrittiva. Wainaina, però, sapeva che se fosse uscito allo scoperto parlando dell’omofobia in Africa avrebbe dato il via a un nuovo fuoco di fila di censure occidentali sull’“arretratezza” dei keniani (e di tutti gli africani). In un’intervista alla National Public Radio statunitense, aveva ironizzato – anche se era terribilmente serio – su come sarebbe stata presentata la sua decisione di fare coming out: “‘Nel cuore di tenebra dell’Africa omofoba, Binyavanga scrive di pace. Binyavanga spiega come funziona l’omofobia in Africa’… Ho la sensazione che non vedano l’ora di dire: ‘Oddio, quanto siete omofobi voi africani, ora vado a raccontarlo all’occidente’”.

In quegli anni la formula del “Come diventare” era usata da chiunque volesse cimentarsi con essa. Nel primo paragrafo di “How NOT to write about queer South Africa” (Come NON scrivere sul Sudafrica queer) la sociologa Zethu Matebeni riprende Wainaina: “Per aiutare il lettore, sostituite lgbt con gay. Nei testi successivi, mettete la parola queer nel titolo. Come gay, queer ha la stessa funzione, ma suona meglio. Non fa niente se la maggior parte dei sudafricani non lo usa, presto lo farà”. Matebeni prosegue facendo un inventario dei luoghi comuni più triti sulle persone lgbt. Alcuni sottendono buone intenzioni, altri no, ma lei è spietatamente imparziale: né gli omofobi né i progressisti compassionevoli ne escono bene. Lo scopo del saggio, che gioca sporco e pulito sia con gli alleati sia con gli avversari, è lanciare un attacco preventivo al paternalismo occidentale già descritto da Wainaina.

Pochi mesi dopo aver rivelato di essere gay Binyavanga Wainaina partì per il Senegal per intervistare il musicista Youssou N’Dour. Aveva già pubblicato ottimi reportage dal Senegal, dal Sud Sudan e dal Ghana. Molti sono raccolti nel libro Come scrivere dell’Africa (66thand2nd 2024) e possono essere considerati delle docufiction: Wainaina aveva la forza descrittiva di un romanziere e la volontà di penetrare con l’immaginazione le persone che incontrava. Non come Kapuściński, che partiva da un articolo preconfezionato nella sua mente e creava il dettaglio incidentale che più lo rafforzava. Il repertorio di voci di Wainaina è vasto, a volte frastornante. Oltre alla sua, di narratore, e a quelle dei suoi interlocutori, ci sono voci estranee, senza nome – altre versioni di Wainaina – che emergono dai suoi dialoghi interiori. Sembra che non abbiano nulla a che fare con l’articolo, ma alla fine ci si rende conto di non poterne fare a meno. Nell’intervista con Youssou N’Dour questo montaggio è talmente ricco che sembra un dj-set. Lo scrittore nigeriano Akin Adesokan vede nella prosa di Wainaina un elaborato “campionamento” e lo descrive come un maestro del remix africano: agile, stratificato, caratterizzato da una promiscuità di generi. Sulla politica sessuale, però, Wainaina aveva le idee chiare: “Non c’è nulla di prioritario nel fatto di essere omosessuale e africano”, disse nel 2015 a una conferenza TedX. “Vivo alla luce del sole. Non vivo in un continente oscuro. Sarò libero come devo essere e nessuno m’impedirà di andare dove voglio”.

Il titolo dell’articolo su Youssou N’Dour, “Ora è solo una questione di accelerazione” (Internazionale 1071), contiene un avvertimento sul ritmo che Wainaina vuole imprimere alla narrazione del suo arrivo a Dakar. Poi inverte bruscamente rotta e fa partire una lunga storia sull’incontro casuale tra Youssou N’Dour e Neneh Cherry in aeroporto a Parigi negli anni ottanta. O piuttosto è il racconto di uno scontro tra i due, con lui che aiuta lei a rialzarsi con il labbro sanguinante. Non si capisce se sia frutto della fantasia, ma sappiamo che N’Dour e Cherry sono amici e collaboratori: il singolo 7 seconds fu un enorme successo nel 1994. Nel passaggio successivo, Wainaina prepara la sua intervista con il grande artista ubriacandosi in un locale notturno di Dakar, dove si rende ridicolo, sospetta, facendo roteare le braccia sulla pista da ballo come un qualsiasi turista europeo. Pieno di rimorsi, la mattina dopo va a fare il bagno alla corniche e, più tardi, incontra un musicologo per documentarsi sulla genealogia ibrida della musica di N’Dour. Butta qua e là alcune riflessioni sui postumi della sbornia e sulla sua tecnica natatoria.

N’Dour dice a Wainaina che le tradizioni musicali resistono in Africa occidentale “proprio perché non sono la priorità per l’élite politica e per il governo”, ma che questa è anche “una ricetta per la frustrazione”. Continua elogiando il settore informale in Senegal, dove un commerciante in abito tradizionale africano può presentarsi in banca con la sua Mercedes e depositare più contanti di un politico. Wainaina lascia passare l’osservazione senza commenti. Nel paragrafo seguente è di nuovo in mare: “Cinque, sei, sette bracciate e trovo un ritmo”. Il pezzo è strutturato come un viaggio circolare. Comincia con una domanda rivolta a Wainaina dal suo autista senegalese: “Sei pronto per l’intervista?”. Nell’ultima frase, lui riprende la domanda e si chiede: “Sei pronto a intervistare Youssou N’Dour?”.

Nel 2023 il compositore statunitense Lamin Fofana (originario di Sierra Leone e Guinea) ha preso in prestito il titolo di questo articolo per un mini album dedicato “al grande Binyavanga Wainaina”. Fofana ce la mette tutta per catturare la sua esuberanza, ma il meglio resta sulla pagina. ◆ fas

Jeremy Harding è uno scrittore e giornalista britannico. Questo articolo, uscito sulla London Review of Books con il titolo “That guy”, è una recensione della raccolta di saggi e articoli dello scrittore e giornalista keniano Binyavanga Wainaina intitolata Come scrivere dell’Africa (66thand2nd 2024).

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1590 di Internazionale, a pagina 100. Compra questo numero | Abbonati