In un’umida mattina del marzo 2024 i poliziotti sono entrati nel pittoresco quartiere di Hill Station a Freetown, in Sierra Leone, per sfrattare i dipendenti pubblici che vivevano nelle case storiche di legno. Mesi prima il governo aveva annunciato che i residenti sarebbero stati trasferiti e le abitazioni demolite per fare posto alle nuove ambasciate di Turchia e Arabia Saudita.

I sierraleonesi hanno opinioni contrastanti su questa vicenda: da un lato, alcuni fanno notare che lo stato può disporre come vuole delle proprietà pubbliche e che molte persone avevano già ricevuto un risarcimento, ma siccome non se n’era­no ancora andate era arrivato il momento di farlo. Dall’altro gli abitanti delle board houses, o _bod ose _nella lingua locale krio, hanno dichiarato di essere devastati dagli sfratti e che il denaro non era stato distribuito equamente. Le case in cui vivevano erano state costruite alla fine del settecento dagli schiavi liberati arrivati nel paese dai Caraibi, dal Regno Unito e dal Nordamerica. Per questo dovevano essere preservate.

“Ero orgogliosa di vivere in una casa di legno”, racconta Amira (nome di fantasia), ex residente di una bod ose. Dice di essere stata sfrattata all’inizio del 2024 senza ricevere risarcimenti. “Le case di Hill Station hanno una storia che dovrebbe essere tramandata di generazione in generazione”.

Queste particolari costruzioni facevano parte del quartiere amministrativo dei coloni britannici e sono sempre state di proprietà dello stato. Per la Sierra Leone demolirle significa superare il passato coloniale, però vuol dire anche lasciare il terreno libero a interessi stranieri. I residenti e in generale i sierraleonesi sono coinvolti in un dibattito tra identità nazionale e futuro. Nel frattempo, con ogni probabilità, lo stato continuerà ad abbattere gli edifici.

Alcuni dipendenti pubblici che vivono in queste case hanno preferito non farsi intervistare per paura di ritorsioni. Alcuni affermano di averne già subite dopo aver rilasciato dichiarazioni in merito: per esempio, alcuni loro familiari impiegati nella pubblica amministrazione sono stati costretti a dimettersi. Altri dicono che gli sono stati negati sussidi, borse di studio o l’accesso a servizi pubblici.

Il crescente interesse dall’estero per il paese è presentato come un segno positivo per il futuro, indice della sua importanza strategica in Africa occidentale. Ma la storia delle bod ose evidenzia le tensioni tra gli obiettivi di sviluppo, le esigenze locali e l’identità nazionale.

Colonia di ex schiavi

Quando i primi navigatori portoghesi arrivarono in Africa occidentale verso il 1460, la vista dal mare delle colline verdi e lussureggianti gli ispirò il nome Sierra Leone, “montagne del leone”.

Freetown fu fondata dagli abolizionisti britannici nel 1787, come insediamento dove rimpatriare gli schiavi liberati. Il progetto era stato finanziato dal tesoro britannico, ma il sostegno della corona aveva a che fare più con il desiderio razzista di sbarazzarsi dei neri che con le aspirazioni degli abolizionisti. I primi coloni di Freetown furono 380 ex schiavi provenienti da Londra, seguiti da altri dalla Nuova Scozia, in Canada.

Nel 1808 la Sierra Leone diventò una colonia del Regno Unito, da dove partivano le operazioni marittime contro il traffico di schiavi in direzione degli Stati Uniti. Nel 1855 a Free­town si erano insediati più di cinquantamila ex schiavi. Questi gruppi si mischiarono dando vita alla comunità krio. Con il legname delle foreste circostanti, costruirono case che somigliavano a quelle che avevano visto in Nordamerica. Poggiavano su pali per proteggerle dalle inondazioni, con ampie verande e balconi, tetti spioventi e decorazioni intagliate nel legno.

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Così diverse dagli edifici di cemento e vetro della moderna Freetown, le bod ose sono diventate un simbolo dell’identità krio, non solo in quanto abitazioni collettive, ma anche come emblema di indipendenza e autosufficienza. “Per gli schiavi liberati, Freetown rappresentava l’autogoverno, la proprietà e la dignità, tutte cose che gli erano state negate quando vivevano in catene”, scrisse Akintola J.G. Wyse, docente di storia al Fourah Bay college di Freetown nel suo libro del 1989 The krio of Sierra Leone.

Oggi l’Arabia Saudita e la Turchia si sono aggiunte alla lunga lista di paesi che vogliono aprire un’ambasciata in Sierra Leone, cercando di accaparrarsi i terreni migliori della capitale, cioè quelli di Hill Station. Il quartiere è sopraelevato di 250 metri rispetto al resto della città, ed è considerato di pregio per la vista panoramica, la tranquillità, l’aria fresca e l’esclusività. Lì sorge la residenza presidenziale, circondata da decine di bod ose dai tetti rinforzati con lamiere di metallo, che rimandano l’eco delle prime gocce di pioggia che cadono a Freetown.

Inizialmente le case in legno di questo quartiere ospitarono gli uffici dell’amministrazione coloniale, i dipendenti pubblici e le loro famiglie. Nel 1961 il terreno e gli edifici furono ceduti al governo della Sierra Leone diventata indipendente e ancora oggi sono usati come alloggi dei funzionari pubblici. Altri sono di proprietà privata.

Molti erano già in rovina prima che sauditi e turchi mettessero gli occhi sulla zona. La manutenzione delle vecchie abitazioni in legno richiede parecchio denaro. Durante la guerra civile degli anni novanta, si bloccarono i fondi per la conservazione e la manutenzione delle case e tanti edifici nella parte orientale della città non superarono indenni il conflitto.

Oggi molte case di legno sono in abbandono ed estremamente vulnerabili alle intemperie e alle fiamme. Nel 2010 una donna di novant’anni morì nell’incendio di una bod ose nella parte est di Freetown. Un’altra abitazione è stata rasa al suolo nel 2022 da un incendio scoppiato in una cucina.

Organizzazioni come il Cultural heritage project, il World monuments fund e la British high commission sono state coinvolte in attività saltuarie per raccogliere donazioni a favore delle famiglie residenti nelle _bod ose _private per aiutarle con la manutenzione delle assi di legno o il rinforzo delle pareti con l’alluminio.

Ma questi sforzi di conservazione incontrano molti ostacoli. I finanziamenti sono insufficienti, lo sviluppo urbano è rapido e tra l’opinione pubblica c’è una scarsa consapevolezza del valore culturale delle case in legno. Allo stesso tempo, le normative non sono sempre rispettate e le infrastrutture moderne hanno spesso la priorità. Le difficoltà nel mantenere in buono stato le abitazioni storiche sono aggravate anche dalle sfide ambientali e da complesse questioni legate alla proprietà dei terreni.

Inoltre, tanti sierraleonesi oggi preferiscono le strutture in cemento, simbolo di sviluppo, modernità e investimenti stranieri. “Dopo che in Sierra Leone è arrivata la tv abbiamo visto programmi nigeriani con persone che vivevano in grandi case moderne di cemento, e allora tutti hanno pensato: ‘Oh no, quanto siamo arretrati! Dobbiamo recuperare’”, osserva Zainab Beah, operatrice di un’ong a Freetown, cresciuta in una bod ose. “Tutti vogliono costruire abitazioni moderne invece di spendere soldi per preservare un edificio storico”, continua Beah.

Architettura a Freetown

◆ “Le rare foto di Freetown tra ottocento e novecento sembrano uscire dal delta del Mississippi”, scrive l’architetto italiano **Federico Monica **nel libro Freetow n (Ogzero 2022), in cui ha raccolto le testimonianze di alcuni abitanti della capitale della Sierra Leone. Le case in legno costruite dai krio avevano, sopra la base, “pareti fatte con assi di legno orizzontali verniciate di rosso, bianco o verde. Le case potevano avere forme diverse a seconda della posizione, della ricchezza dei proprietari, del numero di abitanti. La maggioranza era suddivisa su due piani, quello superiore era ricavato sotto il tetto, molto spiovente per sopportare le piogge torrenziali dei mesi estivi, e illuminato da grandi abbaini chiamati okiaja. Le scandole di legno duro che ricoprivano i tetti invece hanno lasciato il posto dagli inizi del novecento alla lamiera ondulata, molto più resistente e duratura”.


Non si sa con esattezza quante _bod ose _siano scomparse a Freetown, perché i registri sono incompleti e il ministero delle terre sierraleonese non ha risposto alle nostre richieste. Stando alle stime e ai rapporti degli enti locali per la tutela del patrimonio, una buona parte di quegli edifici è andata perduta nel corso degli anni a causa dello sviluppo urbano, dell’incuria e di altri fattori ambientali.

Voltare pagina?

A soli cinque chilometri da Freetown si trova Gloucester, una roccaforte creola tra le montagne. Fondata nel 1814, ospita molte _bod ose _originali, tra cui quella di Frederick Hanciles, discendente dai primi schiavi arrivati nel paese. La sua famiglia vive in quella casa da generazioni.

“Alcuni pensano che sia un bene voltare pagina e demolirle”, osserva. “Non sono confortevoli. Spesso non hanno servizi igienici moderni e camere da letto grandi. La gente le guarda come se dovessero sparire”.

Secondo Hanciles, però, altri le considerano preziose e ne ammirano la storia. “Spesso sono venute a trovarmi persone interessate a sapere come facciamo a gestire la casa e quanto ci vuole per mantenerla”.

In questi vecchi insediamenti, gli abitanti sono stanchi ed esasperati dalle diatribe sulle iniziative per la tutela del patrimonio e per promuovere la storia krio. Senza grandi campagne di sensibilizzazione e con sempre meno risorse per la manutenzione, gli anziani non ce la fanno più. Ma costruire una struttura in cemento è costoso, loro non possono permetterselo e così restano seduti nei loro portici, intrappolati in un limbo tra storia e “progresso”.

A York, un altro villaggio krio, Ade Turner è il custode di alcune delle _bod ose _più antiche del paese. “I proprietari stavano per distruggerla”, dice indicando una casa. “Ma gli abbiamo chiesto di affittarla e cerchiamo di fare il possibile per sistemarla. Non vogliamo che spariscano: hanno un enorme significato”.

Nella capitale i funzionari governativi ricevono pressioni dalle organizzazioni internazionali, dalle agenzie di sviluppo, dai donatori e dagli investitori privati, nonché dai cittadini, affinché modernizzino rapidamente il paese.

La Sierra Leone attira gli interessi stranieri per le abbondanti riserve di diamanti, oro, bauxite e ferro, e per la sua posizione strategica al centro delle rotte commerciali di tutta l’Africa occidentale. Il paese oggi è relativamente stabile e ha una popolazione giovane, in maggioranza musulmana.

La Turchia e l’Arabia Saudita, le cui ambasciate sorgeranno sui terreni un tempo occupati dalle bod ose, si presentano come potenze emergenti – e per alcuni versi in competizione – nel mondo musulmano. Il governo di Ankara ha avviato degli importanti progetti di edilizia civile in Sierra Leone, mentre quello saudita ha fatto sapere di voler reclutare centinaia di sierraleonesi come lavoratori domestici oppure operai non qualificati.

“Il panorama geopolitico dell’Africa occidentale sta cambiando dietro la spinta di paesi come Cina, Russia, Turchia e gli stati del Golfo, decisi a prendere il posto delle potenze occidentali che hanno a lungo considerato la regione come parte della loro sfera di influenza”, afferma Christopher O. Ogunmodede, esperto di politica, sicurezza e affari internazionali dell’Africa occidentale. “I governi africani in genere accolgono con favore – o addirittura incoraggiano – la concorrenza, convinti che per loro sia preferibile diversificare i partner internazionali”.

Mentre gli investimenti cinesi in Sierra Leone sono inferiori a quelli destinati altrove in Africa (dal 2010 Pechino ha investito sei miliardi di dollari in Sierra Leone, contro i 40 miliardi in Etiopia), altri governi intravedono delle opportunità. Ankara e Riyadh aspirano alle ricchezze minerarie e alla manodopera a basso costo della Sierra Leone, che il paese è ben felice di fornire nel suo cammino inesorabile verso il progresso. Nel frattempo le poche _bod ose _rimaste sono finite nel mirino della modernità, della diplomazia e dello sviluppo.

Secondo Beah, l’operatrice della ong, un pezzo di storia della Sierra Leone potrebbe presto andare perduto: “Tra vent’anni temo che saranno tutte sparite”. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1601 di Internazionale, a pagina 66. Compra questo numero | Abbonati