Febbraio a Santiago, la capitale del Cile, è come agosto a Parigi: segna la fine dell’estate e chi può permettersi una vacanza fugge per approfittare di un ultimo spiraglio di libertà. Molti santiaguinos vanno sulle vicine spiagge del Pacifico o sui laghi freddi del sud.

Dopo due mesi di frenetica attività seguiti alle presidenziali del 19 dicembre 2021, anche Gabriel Boric, vincitore delle elezioni, progetta di prendersi una pausa. Durante una grigliata in giardino, poche settimane prima del suo insediamento, dice che lui e la sua compagna andranno nell’arcipelago di Juan Fernández, a più di seicento chilometri dalla costa. Boric vuole nuotare, pescare e leggere un po’ di libri: Daniel Defoe, le biografie dei presidenti cileni, la storia dell’Europa orientale di Timothy Snyder. Deve aggiornarsi sulla geopolitica, perché è già corteggiato dalle superpotenze.

Il presidente statunitense Joe Biden lo ha chiamato per congratularsi della vittoria e invitarlo al vertice delle Americhe a Los Angeles (che si è svolto dal 6 al 10 giugno). Con i suoi 6.500 chilometri di costa, il Cile è un avamposto strategico in America Latina, una regione in cui Biden ha cercato, a fasi alterne, di estendere il suo raggio d’azione.

L’ambasciata cinese ha consegnato a mano una lettera di Xi Jinping: per ricordargli che la Repubblica popolare cinese è il più grande partner commerciale del Cile. Il paese sudamericano è il maggior produttore mondiale di rame e il secondo di litio. Le fabbriche cinesi di batterie e telefoni cellulari dipendono molto da questi metalli. Boric ha anche saputo che Vladimir Putin vuole andare in Argentina e si chiede se aggiungerà il Cile al suo itinerario. Fa una smorfia all’idea. Alcuni suoi alleati di estrema sinistra considerano la Russia un baluardo contro “l’egemonia” statunitense, ma lui non vuole Putin nel suo paese.

Boric ha 36 anni, la corporatura tozza, il viso tondo, la barba e una massa di capelli castani. Parla di questi ultimi sviluppi con un’aria di entusiastica complicità: sono i momenti più importanti della sua vita. Ancora prima di essere ufficialmente presidente, gli sono state assegnate un’auto e delle guardie del corpo, e l’amministrazione uscente lo informa ogni giorno. Ha detto che il suo sarà un governo femminista e, per la prima volta in l’America Latina, sarà formato in maggioranza da donne, anche alla difesa e all’interno. Due ministri sono gay dichiarati. Molti funzionari di Boric sono giovani di sinistra, come lui.

Anche la compagna Irina Karamanos, 32 anni, segna una rottura con il passato. Di origine greca e tedesca, parla cinque lingue, è laureata in antropologia ed è considerata una leader femminista. Ha già stupito alcuni cileni dichiarando che “rivedrà” il ruolo della first lady, perché non si sente “né prima né signora”.

In fondo alla classifica

L’avversario di Boric alle elezioni è stato José Antonio Kast, un cattolico ultraconservatore con nove figli. Ammiratore del presidente brasiliano Jair Bolsonaro, Kast aveva detto che in caso di vittoria avrebbe formato un governo favorevole al mondo delle imprese, garantito la legalità, impedito l’arrivo di migranti e si sarebbe opposto all’aborto e al matrimonio omosessuale. Boric lo ha battuto di dodici punti percentuali, raccogliendo il maggior numero di voti mai espressi per un candidato in Cile. Il suo è il governo più di sinistra dai tempi di Salvador Allende, il leader socialista eletto nel 1970 e deposto tre anni dopo con un sanguinoso colpo di stato condotto dal generale Augusto Pinochet.

Per gestire l’economia, Pinochet portò con sé i cosiddetti Chicago boys, un gruppo di economisti che avevano studiato all’università di Chicago, negli Stati Uniti, con i liberisti Milton Friedman e Arnold Harberger. Il paese diventò il laboratorio del neoliberismo latinoamericano, con la totale deregolamentazione e la privatizzazione delle aziende controllate dallo stato, dell’istruzione, dell’assistenza sanitaria e delle pensioni.

Dopo il ritorno della democrazia, nel 1990, gli elettori cileni hanno evitato qualsiasi estremismo. Per due decenni, nei vari governi, è rimasta al potere una coalizione di centrosinistra chiamata Concertación; per altri dodici anni, al governo si sono alternate alleanze di centrodestra e centrosinistra. In tutto questo tempo il Cile si è trasformato in un paese stabile dove la mobilità verso l’alto era possibile, circondato da vicini con istituzioni instabili e più poveri. Ma le politiche economiche introdotte da Pinochet non sono cambiate con la democrazia e le disuguaglianze sono aumentate.

Nel 2019 il World inequality report, che analizza le disuguaglianze globali, ha inserito il Cile in fondo alla sua classifica, al livello della Repubblica Centrafricana e del Mozambico: l’1 per cento della popolazione possiede il 27 per cento della sua ricchezza.

A ottobre di quell’anno sono cominciate le rivolte. Gli studenti delle scuole superiori sono scesi in piazza per protestare contro l’aumento del costo del biglietto della metropolitana deciso dal governo, ma era solo il culmine di frustrazioni più profonde. Le proteste sono diventate manifestazioni di massa: un milione di cileni ha chiesto cambiamenti di ogni tipo. È stato un periodo in parte catartico, in parte violento. In Cile è stato chiamato estallido social, esplosione sociale.

Nel novembre del 2019 i partiti cileni hanno stretto un patto con un nome altisonante: accordo per la pace sociale e la nuova costituzione. Chiedevano un processo costituente in cui doveva essere ascoltata la voce di tutti. A sinistra il firmatario più importante è stato Gabriel Boric.

Slogan rivoluzionario

Gli sforzi di Boric per fermare i disordini hanno contribuito a renderlo un possibile candidato alla presidenza. In campagna elettorale ha promesso ai cileni “una vita migliore”. Istituzione di un sistema sanitario nazionale, pensioni sovvenzionate dal governo e cancellazione del debito studentesco. Ha promesso anche di ridurre la povertà creando mezzo milione di nuovi posti di lavoro e di finanziare le sue proposte aumentando le tasse sulle società minerarie. Ha adottato uno slogan rivoluzionario: “Se il Cile è stato la culla del neoliberismo, sarà anche la sua tomba”.

Il giorno prima del mio arrivo in Cile, Boric ha festeggiato il suo compleanno con Karamanos e alcuni amici intimi. Li ho raggiunti il giorno dopo mentre scherzavano su vino e piscola, un intruglio che fa girare la testa a base di pisco (un distillato di vino) e Coca-Cola.

La conversazione, per lo più spensierata, si è fatta seria quando abbiamo parlato dei capricci della sinistra cilena. Anche se Boric è la figura principale dell’alleanza, alcuni lo definiscono amarillo, giallo, perché vuole impegnarsi in un dialogo con gli avversari. Per l’estrema sinistra amarillo è sinonimo di traditore.

Durante le rivolte sociali del 2019 ci sono stati scontri tra la polizia e gli estremisti di sinistra e alcune chiese ed edifici pubblici sono stati dati alle fiamme. Il governo conservatore del miliardario Sebastián Piñera ha schierato agenti antisommossa, che hanno attaccato i manifestanti provocando almeno trenta morti. I gas lacrimogeni e i proiettili di gomma sparati dalla polizia hanno ferito agli occhi più di trecento persone, e si è diffusa la voce che gli agenti di Piñera mirassero proprio agli occhi. La polizia è stata anche accusata di aver commesso stupri e altri abusi sessuali. Quando le proteste si sono placate, a marzo del 2020, i danni ammontavano ad almeno tre miliardi di dollari e avevano fatto rallentare l’economia. Piñera è stato costretto a scusarsi per le sue scelte politiche e a licenziare vari ministri. Ma molti cileni hanno continuato a biasimare le forze dell’ordine e le istituzioni.

Sincero e schietto

Oggi Boric deve affrontare sfide enormi. Il suo partito e gli alleati di coalizione sono in minoranza in parlamento. Per far approvare nuove leggi dovrà negoziare con gli avversari. La sua stessa coalizione, Apruebo dignidad, è lacerata da dispute interne. Andrés Scherman, un giornalista cileno, mi ha detto: “Uno dei rischi di guidare una coalizione così frammentata ed eterogenea è che Boric diventi un generale senza truppe”.

Boric ha vari tatuaggi, un omaggio al suo luogo di nascita in Patagonia, la regione più remota del Cile, nota con il nome romantico di Magallanes o di Antartide cilena. Durante uno dei nostri primi incontri si rimbocca le maniche per mostrarmeli. Uno, sull’avambraccio, raffigura un faro sopra un mare in tempesta. Un altro è un’intricata mappa in cui c’è il canale di Beagle, dove il suo bisnonno, un emigrato croato, passò nel 1887 per cercare l’oro. Poi Boric si sbottona la camicia per scoprire la spalla destra, su cui è rappresentato un albero di lenga, simbolo della Patagonia. Sorride e dice: “Sarò il primo presidente del Magallanes in duecento anni d’indipendenza cilena”.

Manifestanti al corteo per la giornata della donna. Santiago, 8 marzo 2020 (Tomás Munita)

La provincia di Magallanes è l’Alaska del Cile, con circa 170mila abitanti sparsi nella natura selvaggia. Tre quarti di loro vivono a Punta Arenas, una città battuta dal vento con un forte spirito di frontiera. C’è anche la famiglia di Boric. Il padre, Luis Javier Boric Scarpa, della parte croata della famiglia, è un ingegnere chimico che per tutta la vita ha lavorato per la compagnia petrolifera statale. La madre, María Soledad Font, di origine catalana, è un’ex bibliotecaria e seguace di una setta cattolica, il Movimiento apostólico de Schön­statt. Boric, il più grande di tre figli maschi, ha studiato alla British school di Punta Arenas prima di trasferirsi a Santiago per frequentare la facoltà di legge all’università del Cile. Si è laureato nel 2009, ma non ha mai praticato la professione. La politica è diventata presto il suo interesse principale.

Si è affermato come leader nel cosiddetto “inverno cileno”, le manifestazioni studentesche cominciate nel 2011, durante il primo governo Piñera. Le proteste erano guidate dagli studenti universitari che volevano un maggiore sostegno dello stato all’istruzione e la fine dei sussidi alle scuole private, un’eredità della dittatura che aveva affossato l’istruzione pubblica. Tra loro c’erano Boric e un gruppo di attivisti che poi sono diventati punti di riferimento: Giorgio Jackson, Camila Vallejo e Karol Cariola.

Nel 2009 Boric era stato eletto presidente del sindacato studentesco di giurisprudenza. Due anni dopo è diventato presidente del sindacato studentesco dell’università del Cile, battendo di stretta misura Vallejo. Ambiziosi, brillanti e sinceri, i quattro sono da sempre amici con qualche differenza: Vallejo e Cariola sono comuniste, Jackson e Boric sono più vicini ai socialdemocratici. Alle elezioni del 2013 tutti e quattro hanno conquistato un seggio in parlamento.

Nel 2018 Boric si è allontanato dai suoi doveri parlamentari per curare il suo disturbo ossessivo-compulsivo. Lo ha annunciato su Instagram, dove aveva un milione e mezzo di follower, pubblicando una sua foto con l’aria accigliata. “Ciao a tutti”, ha scritto. “Volevo dirvi che mi sto prendendo una pausa per un paio di settimane. Come ho già detto, soffro del disturbo ossessivo-compulsivo da quando ero bambino, e sulla base delle raccomandazioni mediche, ora ho deciso di essere responsabile e cercare di curarmi”.

Il disturbo di Boric è emerso per la prima volta quando aveva otto anni. A scuola era spesso in difficoltà: non riuscì a finire Il diario di Anna Frank nel tempo assegnato perché doveva tornare indietro di due righe ogni volta che saltava una parola. Parlare del suo disturbo era rischioso. In un dibattito elettorale, per esempio, Kast ha insinuato che Boric non fosse adatto a essere presidente. Ma con la sua sincerità Boric si è conquistato le simpatie dei cittadini. Nel discorso d’insediamento ha affermato che in Cile bisogna fare di più per le malattie mentali e il pubblico ha risposto con un applauso fragoroso.

Lo scrittore Gabriel García Márquez una volta disse scherzando che il Cile era l’unico paese dell’America Latina in cui si vendevano copie delle leggi per strada. La democrazia e la stabilità sono la norma. Dopo aver conquistato l’indipendenza dalla Spagna, nell’ottocento, il Cile ebbe sessant’anni di relativa tranquillità politica, un periodo molto più lungo della maggior parte dei suoi vicini. In seguito sviluppò un sistema multipartitico e visse altri cinquant’anni di democrazia fino al golpe di Pinochet.

Ma accanto al senso delle istituzioni scorre una vena anarchica e anticonformista. Prima del colpo di stato il paese fu scosso da scontri tra opposti estremismi. Quando Allende fu eletto, nel 1970, la guerra fredda era al culmine, e sia gli Stati Uniti sia l’Unione Sovietica consideravano il Cile un campo di battaglia strategico. Anche se Allende aveva conquistato il potere in modo legittimo a capo di una coalizione di sinistra, aveva vinto con un margine di voti molto stretto.

Una volta al governo, Allende istituì un programma che chiamò il “percorso cileno verso il socialismo”, nazionalizzando miniere di rame e banche, confiscando proprietà terriere e aumentando le protezioni sociali per i poveri. Estremisti e rivoluzionari arrivarono da tutta la regione. La sinistra più militante premeva per una radicale trasformazione della società. La destra lanciava attacchi terroristici. Il leader cubano Fidel Castro si fermò nel paese tre settimane, dicendo ai cileni che dovevano prepararsi a combattere per difendere la loro “rivoluzione”.

Le riforme di Allende erano non violente, in contrasto con la teoria di Castro della rivolta armata. Il nuovo presidente incarnava la possibilità di un socialismo latinoamericano diverso, più vicino a quello scandinavo che a quello sovietico. Ma l’establishment conservatore cileno – i politici, le forze armate e il settore privato – era preoccupato. Lo erano anche le aziende statunitensi, che chiedevano alla Casa Bianca di fare qualcosa. L’amministrazione Nixon ideò vari piani segreti per spodestare Allende con l’aiuto della Cia, senza riuscirci.

Alla fine Pinochet e i suoi alleati delle forze armate lo fecero al suo posto. L’aviazione bombardò il palazzo presidenziale e l’11 settembre 1973 Allende si suicidò con un AK-47 che gli aveva regalato Castro. Seguì un’ondata di repressione: più di tremila persone furono uccise e molte altre torturate e imprigionate. Oggi il Cile non si è ancora completamente ripreso.

Per quanto dispotico fosse, paradossalmente anche Pinochet condivideva in parte il senso delle istituzioni cileno. Dopo essere stato sette anni al governo, cercò di legittimare il suo mandato scrivendo una nuova costituzione. Una volta mi spiegò che la vecchiaia era stata un freno al suo potere. “Devi essere in grado di fissare gli obiettivi per poter agire”, mi disse. “Perciò ho fissato gli obiettivi”.

Boric e Camila Vallejo a un corteo studentesco. Santiago, 16 maggio 2012 (Juan Carlos Caceres, Archivolatin/Contrasto)

Nel 1988 Pinochet convocò un referendum, sperando di assicurarsi altri otto anni al potere. Perse, ma non si ritirò del tutto. Mantenne il comando delle forze armate e fece in modo di essere nominato senatore a vita, insieme a nove suoi fedelissimi accuratamente scelti. Godeva dell’immunità parlamentare e, grazie all’alleanza con i partiti di destra, aveva il controllo effettivo del parlamento.

Pinochet allentò la presa sul Cile solo nel 1998, a causa di un evento non previsto. Mentre era in visita nel Regno Unito, il giudice spagnolo Baltasar Garzón lo fece arrestare con l’accusa di genocidio, tortura e terrorismo. Alla fine fu autorizzato a tornare a casa, ma ormai aveva perso ogni prestigio e trascorse il resto della sua vita a combattere l’accusa. Nel 2005 si scoprì che aveva accumulato milioni di dollari di fondi governativi rubati in più di centoventi conti bancari segreti, con l’aiuto della statunitense Riggs bank. Quando morì, l’anno dopo, pochi cileni piansero la sua scomparsa.

Spirito pragmatico

La sera prima della partenza di Boric, ci incontriamo a casa dello scrittore Patricio Fernández, nel quartiere di Providencia. Fernández, 52 anni, è un commentatore politico e il fondatore di The Clinic, il giornale satirico nato per prendere in giro Pinochet. Boric indossa i soliti jeans, un paio di stivali malconci e una camicia di flanella a quadri. Manda le guardie del corpo a comprare della carne di manzo e comincia a trafficare in giardino intorno al barbecue.

Avevo già trascorso una serata con Fernández e Boric nel 2015, in un bar di Punta Arenas. Boric, che era diventato parlamentare da poco, era brillante e ambizioso, ma nuovo alla politica e in cerca di una guida. Essendo nato nel 1986, ricordava a malapena gli anni di Pinochet e, come altri della sua generazione, era stanco di riforme moderate. Fernández è cresciuto sotto la dittatura e ha imparato ad apprezzare le libertà introdotte dai vari governi della Concertación. Poteva raccontare a Boric cose che non avrebbe sentito altrove. Da allora i due hanno stretto una solida amicizia. E durante le manifestazioni del 2019 sono stati coinvolti nel dibattito nazionale su come mettere fine alle proteste. Nel libro Sobre la marcha, scritto nei mesi delle manifestazioni, Fernández si dice a favore dell’accordo per la pace sociale e una nuova costituzione. Potrebbe contribuire a calmare il conflitto civile e ad affrontare le disuguaglianze radicate nel paese, “in modo che quando ci saremo lasciati alle spalle il tempo del lancio delle pietre, come dice l’Ecclesiaste, possa arrivare il tempo di raccoglierle insieme”.

Il partito di Boric, Convergencia social, si opponeva all’accordo, che considerava un ostacolo a riforme più radicali. Ma Fernández era fortemente a favore: “Anche se non era proprio quello che chiedeva la gente in piazza, sembrava che la maggior parte delle richieste potesse trovare una base comune in una nuova costituzione”.

Boric incontra i suoi sostenitori. Santiago, 9 marzo 2022 (Tomás Munita)

Alla fine Boric ha firmato a suo nome e non come rappresentante del suo partito, che l’ha sospeso. L’accordo è andato in porto. Come dice lui stesso, ha messo in gioco il suo capitale politico per sbarazzarsi della “costituzione di Pinochet una volta per tutte”. Il partito alla fine lo ha riaccolto, ma gli sono rimasti alcuni nemici. Il 25 ottobre 2020 la proposta di una nuova costituzione è stata sottoposta a referendum ed è stata approvata dal 78 per cento dei votanti. A maggio del 2021 è stata eletta un’assemblea costituente formata da 155 persone, in maggioranza di sinistra o indipendenti. Tra loro c’è anche Patricio Fernández. I convencionales, come sono chiamati, hanno tempo fino a luglio per scrivere la nuova costituzione, che sarà sottoposta a referendum in autunno.

In un articolo pubblicato dopo le elezioni, Fernández ha scritto: “Boric sa perfettamente che il destino della sua presidenza è inestricabilmente legato a quello del processo costituzionale”. Ma quando è cominciata la discussione dell’assemblea costituente, lo spirito pragmatico di Boric sembrava spesso assente. Le idee più impraticabili sono state respinte. Ma i mezzi d’informazione, soprattutto quelli di destra, hanno pubblicato un flusso continuo di notizie sulle proposte più bizzarre. Un’eventuale bocciatura della costituzione sarebbe un disastro per il governo di Boric, perché potrebbe ridare slancio ai suoi avversari di destra e di sinistra. Fernán­dez ha scritto: “Il successo richiederà la costruzione di nuove forme di fiducia, di una coesione ottenuta attraverso nuove scelte di civiltà e la collaborazione di vari settori della società cilena”.

Voleva dire che Boric deve unire un
paese diviso prima che cada a pezzi.

In continua evoluzione

Il Cile è noto come uno dei “paesi poetici” dell’America Latina, la patria di Pablo Neruda, Gabriela Mistral e Nicanor Parra. Un altro paese poetico è il Nicaragua, luogo d’origine di Rubén Darío e di Gioconda Belli, una poeta e scrittrice che è stata mandata in esilio per aver criticato il governo autoritario del presidente sandinista Daniel Ortega. Boric ha invitato Belli a rappresentare il Nicaragua al suo giuramento. Il giorno dopo la cerimonia, è stato organizzato un pranzo in suo onore nell’elegante appartamento della scrittrice Carla Guelfenbein.

Tra gli ospiti c’era il poeta cileno Raúl Zurita, 72 anni. Durante la campagna presidenziale, ha presentato un manifesto di sostegno a Boric, firmato da più di cinquecento scrittori cileni, in cui esprimeva il timore che una vittoria di Kast “ci avrebbe riportato ai momenti più bui della nostra storia”.

A pranzo, Zurita era in vena di festeggiare, come la maggior parte degli ospiti. I discorsi erano interrotti frequentemente da brindisi a base di champagne. L’atmosfera è diventata più calma quando Gioconda Belli ha parlato della sua nuova vita a Madrid, in Spagna, e ha ricordato la morte di un vecchio amico che era stato imprigionato per ordine di Ortega. La presenza di Belli al giuramento è stata un messaggio in codice: Ortega e la moglie e vicepresidente Rosario Murillo non erano stati invitati.

Boric può sfruttare i vantaggi di una maggiore libertà dall’ideologia

Per Boric situazioni come questa sono solo un indicatore dei problemi geopolitici che incontrerà durante il suo mandato. In una delle nostre conversazioni, ha confessato che avrebbe voluto girare di più il mondo prima di diventare presidente. Ha fatto il suo primo viaggio fuori dell’America Latina a 13 anni, per andare con la famiglia a Disney World, negli Stati Uniti, mi ha detto allargando le braccia e ridendo con imbarazzo. A 17 anni ha vissuto quattro mesi in un villaggio vicino a Nancy, in Francia, ma ha visto poco del paese. Qualche anno dopo, ha fatto un giro del Mediterraneo con i genitori: “Roma, Praga, Il Cairo, Atene, un giorno in ogni città”, ha ammesso alzando le spalle.

Più tardi è andato in Israele e Palestina. “È stata la cosa più atroce che abbia mai visto”, ha ricordato a proposito del muro che divide la Cisgiordania da Israele e di quella che considera una politica “umiliante” per i palestinesi.

Durante la campagna elettorale Boric ha definito Israele uno “stato genocida e omicida”. In un’intervista successiva, ha confermato la sua opinione, ma ha aggiunto che avrebbe potuto dire lo stesso del trattamento dei curdi da parte della Turchia e degli uiguri da parte della Cina. Il Cile ha una fetta significativa di popolazione di origine palestinese – cinquecentomila persone in un paese di 19 milioni di abitanti – e le parole di Boric non hanno suscitato molte polemiche. Ma la popolazione ebraica, circa 18mila persone, è rimasta turbata. Dopo le elezioni Gerardo Gorodischer, a capo di un’organizzazione chiamata Comunità ebraica del Cile, mi ha detto che non vedeva l’ora di presentare a Boric “il punto di vista della comunità ebraica, nella speranza che possa attenuare alcune delle sue dichiarazioni passate”.

Dopo il primo turno delle elezioni il 21 novembre 2021, in cui Kast aveva ottenuto più voti, Boric si è avvicinato al centro. Mentre i suoi compagni di coalizione comunisti sostengono i governi autoritari di Cuba, Nicaragua e Venezuela, Boric ha assunto la posizione opposta: “Non importa a chi può dare fastidio, il nostro governo sarà impegnato con tutte le sue forze a difendere la democrazia e i diritti umani, senza appoggiare alcun tipo di dittatura o governo autoritario”, ha scritto su Twitter.

Al ritorno dalle vacanze, il suo amico Emiliano Salvo organizza un’altra grigliata. Boric arriva con una camicia hawaiana e un berretto da baseball con il nome della band punk spagnola Siniestro Total. L’appartamento di Salvo è in un edificio degli anni sessanta affacciato sulle Ande. Suo padre era un socialista e fu imprigionato e torturato dal regime di Pinochet. In esilio incontrò la madre di Emiliano, una comunista tedesca, e si stabilirono in una casa vicino ad Alexanderplatz, a Berlino.

Boric e Salvo parlano con un po’ di malinconia della loro ammirazione giovanile per la rivoluzione bolivariana in Venezuela. Quando morì Hugo Chá­vez, nel 2013, Boric twittò: “Coraggio venezuelani. Molti cileni sono con voi. Portate avanti la rivoluzione bolivariana”. Ora Boric cerca sul suo telefono una poesia: Costernados, rabiosos (Costernati, arrabbiati), la risposta del poeta uruguaiano Mario Benedetti all’uccisione di Che Guevara nel 1967. In piedi, tra amici e collaboratori, ha letto con un dito alzato per sottolineare l’enfasi: “Un dito è / abbastanza per mostrarci la strada / per accusare il mostro e le sue ceneri / per premere di nuovo il grilletto”.

Nonostante il gusto per il linguaggio altisonante, Boric diffida della retorica dell’estrema sinistra. Pensa che il discorso a somma zero degli ultimi decenni sia “servito più come veleno che come fertilizzante”. Prima che lui nascesse, Fidel Castro esercitò un’influenza smisurata sulla sinistra latinoamericana, incoraggiando un approccio assolutista al potere e alla politica. I leader che hanno seguito più da vicino l’esempio di Castro non hanno ottenuto buoni risultati: Hugo Chávez e Nicolás Maduro in Venezuela, e Daniel Ortega in Nicaragua. Ci sono altri presidenti di sinistra nella regione, tra cui Andrés Manuel López Obrador in Messico, e Alberto Fernández in Argentina. I loro governi sono spesso più preoccupati di preservare il potere.

Dei leoni sopravvissuti della sinistra, solo due hanno mantenuto il proprio impegno: José “Pepe” Mujica, l’ex guerrigliero che è stato presidente dell’Uruguay dal 2010 al 2015, e il brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, che potrebbe tornare al potere il prossimo ottobre.

“Abbiamo l’opportunità d’immaginare una nuova sinistra”, mi dice Boric. Ma sa che la frattura fondamentale della regione non è tra sinistra e destra, ma tra democrazia e autoritarismo populista. Boric – giovane e non appesantito dal passato – sembra il politico che meglio può sfruttare i vantaggi di una maggiore libertà dall’ideologia. Ha nominato ministro delle finanze Mario Marcel, un economista di 62 anni molto stimato, tranquillizzando i mercati e il mondo degli imprenditori.

Quando gli chiedo se ha un modello di riferimento, Boric mi dice, un po’ titubante, che ha sempre ammirato Allende ma non ha “modelli statici”. Non perché sia un camaleonte, sottolinea, ma perché è “in continua evoluzione”.

Il suo posto nel mondo

La giornata internazionale della donna è un grande evento a Santiago, e quest’anno circa 300mila donne hanno sfilato lungo uno dei viali principali verso il centro della città. Mi sono accodato alla folla di donne e bambine con i vestiti e i volti dipinti nei colori simbolo del femminismo: il viola e il verde. Centinaia di donne si sono riunite in plaza de la Dignidad con slogan carichi d’indignazione: “È solo un vestito, non un sì”; “Quello che chiamate amore è solo lavoro non retribuito”; “Morte al macho”. Uno striscione dice: “Siamo le nipoti delle streghe che non siete stati in grado di bruciare”. Non lontano, Karamanos sfila con molte ministre del governo, tenendo uno striscione con la scritta: “Democrazia nel paese, a casa e a letto”. Quando cito la manifestazione femminista a Ricardo Lagos, che è stato presidente dal 2000 al 2006, sembra contento. “Questo era un paese di doppiopetti grigi”, dice. “Ma negli ultimi trent’anni c’è stata un’enorme apertura culturale”.

Manifestanti lungo il viale dell’Alameda. Santiago, 8 marzo 2020 (Tomás Munita)

Lagos, ormai un anziano di 84 anni, mi riceve nel suo ufficio. Da giovane è stato ambasciatore di Allende in Unione Sovietica, ed è andato in esilio dopo il golpe. Tornato a casa pochi anni dopo, è stato il primo cileno importante a parlare contro il dittatore in diretta televisiva. Come presidente, ha guidato la coalizione di centrosinistra Concertación. “Abbiamo aperto noi questo paese”, afferma. “Il Cile era diverso, non c’era neanche una legge sul divorzio. Nel 1993, quando mi sono candidato per la prima volta alla presidenza, ho promesso che l’avrei fatta approvare, e non mi hanno eletto. Ci siamo riusciti dieci anni dopo”. Poi ricorda che solo durante la presidenza di Michelle Bachelet è stato legalizzato l’aborto in caso di stupro.

Molti esponenti della sinistra sostengono che i problemi del Cile sono una conseguenza dell’incapacità dei governi passati di creare una società più giusta. Lagos per loro è un neoliberista. Secondo Lagos, quest’insistenza sulla purezza ideologica è parte del problema. Lui e i suoi alleati hanno offerto ai poveri opportunità d’istruzione e alloggi pubblici. “Non è stato abbastanza”, ammette. Ma non avevano i voti per fare di più, dice.

Fernández ha presentato Boric a Lagos durante la campagna elettorale. “Non posso dire che siamo amici, la differenza d’età è troppa. Ma mi piace”, dice Lagos. Ha apprezzato il discorso d’insediamento. “Capisce che dovrà essere uno statista”. Soprattutto ha apprezzato la posizione sull’invasione russa dell’Ucraina. Il primo giorno di guerra, mentre era ancora in vacanza, Boric ha twittato: “Dal Cile condanniamo l’invasione dell’Ucraina, la violazione della sua sovranità e l’uso illegittimo della forza. La nostra solidarietà sarà per le vittime e i nostri umili sforzi saranno a favore della pace”.

“Mi piace che abbia usato la parola ‘umile’. Dimostra che capisce il suo posto nel mondo”, afferma Lagos.

La Moneda, il palazzo presidenziale, è stato restaurato dopo il bombardamento ordinato da Pinochet, ma tutti gli ultimi presidenti cileni hanno vissuto a casa propria. Pochi giorni prima dell’insediamento Boric e Karamanos si sono trasferiti in una nuova casa: un’ex clinica in un vecchio quartiere del centro. Boric è entusiasta di avere tredici stanze, finalmente c’è spazio per i suoi libri.

Il quartiere Yungay è fatto di case a due o tre piani dell’inizio del novecento. Trovo Boric al secondo piano di un basso edificio art déco, solo davanti a un’enorme pila di scatoloni aperti. Dalla finestra si vedono i poliziotti alla fine dell’isolato che cercano di tenere a bada un gruppo di curiosi dietro le transenne. La zona è un po’ fatiscente, famosa per lo spaccio di droga e la criminalità diffusa, ma Boric e Karamanos non volevano vivere in uno dei barrios altos, i quartieri eleganti di Santiago. Boric spera che la loro presenza a Yungay aiuterà a migliorare le cose.

Da sapere
Le prime decisioni

◆ Il 15 marzo 2022 una delegazione guidata dalla ministra dell’interno cilena Izkia Siches è stata attaccata durante la prima visita nella regione dell’Araucanía, dove vivono le comunità mapuche e dove dallo scorso settembre è in vigore lo stato d’emergenza (proclamato dal precedente governo di centrodestra), a causa di una serie di attentati incendiari. Il 16 maggio il presidente Gabriel Boric ha annunciato il prolungamento dello stato d’emergenza nell’Araucanía e in altre zone del sud del paese. La decisione, ha detto rispondendo alle critiche dei suoi sostenitori che lo accusano di aver tradito una promessa elettorale, serve a garantire la sicurezza, l’approvvigionamento e il libero transito in tutto il paese. Nel primo discorso alla nazione, il 1 giugno, Boric ha annunciato che presto presenterà in parlamento una riforma fiscale e previdenziale per distribuire la ricchezza in modo equo e rendere il Cile un paese più giusto, ugualitario e inclusivo. Afp, El País


In una stanza c’è il suo unico mobile, una vecchia scrivania con la ribalta, comprato usato. Il portatile è aperto, sta lavorando al discorso d’insediamento. È “un po’ nervoso”, confessa. Vuole salutare i curiosi che sono fuori, così ci andiamo a piedi insieme, accompagnati dalle guardie del corpo in borghese. Si ferma davanti a una porta e un ragazzo gli regala la bandiera di una squadra di calcio del Magallanes. Si abbracciano e Boric accetta di fare una foto con lui. Dietro le transenne ci sono una cinquantina di persone che lo chiamano agitando i telefonini. Per dieci minuti Boric si sposta lungo la fila, posando per le foto, stringendo mani, baciando donne anziane e ascoltando i suoi nuovi elettori. Tornati nell’appartamento, indica una cyclette dicendo che si sente fuori forma. Dalla finestra vedo una donna che lo saluta entusiasta dall’altra parte della strada. Boric sorride e fa un cenno con la mano, ma sembra sopraffatto. “È tutto un po’ un Truman show, non crede?”, mi dice.

Questioni delicate

L’11 marzo c’è la cerimonia di insediamento a Valparaíso, a un’ora di auto da Santiago. Si svolge nel palazzo del parlamento, un colosso di cemento eretto da Pinochet vicino alla casa della sua infanzia. Boric si mette alle spalle di Piñera, il suo predecessore, ed esegue una curiosa manovra con una piroetta, il suo disturbo ossessivo-compulsivo sta riemergendo. Ma la cerimonia va liscia e alla fine tutti si alzano per applaudire. Incerto su quale gesto lo rappresenti meglio, Boric ringrazia mettendosi una mano sul cuore, alzando il pugno e avvicinando i palmi delle mani: namasté.

È arrivato alla Moneda quasi al tramonto. Si è rivolto alla nazione dal balcone dell’ufficio in cui Allende registrò il suo ultimo discorso, nel 1973.

Tra i suoi obblighi c’era anche un ricevimento per salutare i leader stranieri. Qualche giorno prima mi ha detto che stava arrivando il re di Spagna. Con aria irritata ha aggiunto: “Che cazzo devo dire a un re?”.

In Cile i nativi mapuche hanno resistito a lungo ai conquistatori spagnoli. Oggi subiscono l’emarginazione politica, la povertà endemica e l’occupazione delle terre e sono ancora una forza sociale irrequieta. Nella loro terra d’origine, l’Araucanía, a sud di Santiago, un conflitto irrisolto arde sotto le ceneri. Ultimamente le violenze si sono intensificate, con occupazioni di terreni, incendi dolosi e occasionali omicidi. Piñera aveva inviato lì l’esercito in una serie di missioni di “pacificazione” brutali e inefficaci. Boric ha criticato questa strategia e ha vagamente promesso un nuovo approccio (ma a metà maggio il governo ha decretato lo stato d’emergenza nelle regioni del sud).

Il conflitto con i mapuche è una delle questioni più delicate che deve affrontare da presidente. Poi c’è il crescente malcontento per la presenza e l’arrivo dei migranti che fuggono dal Venezuela, dalla Colombia e da Haiti.

Quando è uscito sul balcone, Boric ha citato le bombe che avevano colpito l’edificio in cui si trovava. Mai più, ha detto, lo stato cileno avrebbe represso il suo popolo. Ha parlato dei contadini senz’accesso all’acqua, degli studenti pieni di debiti, degli anziani senza pensioni adeguate, dei parenti delle persone scomparse ancora in attesa dei loro cari. Ha pronunciato molte volte le parole: “Mai più”, ripetendole come un mantra.

Mentre si alzava uno spicchio di luna, la folla ha intonato uno slogan: “Boric, amigo, el pueblo está con tigo”; Boric, amico, il popolo è con te. “Dobbiamo abbracciarci l’un l’altro come società, amarci e sorridere di nuovo”, ha detto. Poi ha accennato alla “violenza nel mondo e alla guerra”, alludendo all’Ucraina. E ha aggiunto: “Il Cile si schiererà sempre dalla parte dei diritti umani, non importa dove, non importa quale sia il colore del governo coinvolto”. Quando ha detto: “Dobbiamo curare le ferite dell’estallido social”, dalla folla è salito un boato di approvazione.

Quando tutto è finito, la gente a poco a poco si allontana dalla Moneda. In città c’è un’atmosfera festosa, come se fosse appena terminato un concerto. Mentre mi avvicino a plaza de la Dignidad, però, le strade sono meno affollate, e subito capisco perché. Pochi isolati più avanti i manifestanti hanno eretto delle barricate e le hanno incendiate. Su una c’è ancora uno striscione con un messaggio per Boric: “Non dimenticheremo che hai fatto un patto con il nemico, e non lasceremo le strade fino a quando la liberazione non sarà completa”. ◆ bt

Jon Lee Anderson è un giornalista statunitense. Dal 1999 scrive per il New Yorker. In Italia ha pubblicato vari libri tra cui Che. Una vita rivoluzionaria (Feltrinelli 2020). Il 30 settembre parteciperà al festival di Internazionale a Ferrara per parlare della sinistra in America Latina.

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Questo articolo è uscito sul numero 1465 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati