La Bibbia è un testo fondamentale della letteratura occidentale, e se un aspirante scrittore la ignora lo fa a suo rischio e pericolo. Da giovane ambivo a leggerla da cima a fondo. Dopo aver superato facilmente le prime storie e continuato a fatica con le leggi religiose, che almeno avevano un interesse sociologico, decisi di concedermi una tregua saltando i libri dei re e delle cronache, le cui liste dei patriarchi e dei loro numerosi figli mi sembravano una lettura necessaria quanto quella di un elenco telefonico. Con una sapiente scrematura riuscii ad arrivare alla fine di Giobbe. Ma poi c’erano i salmi, e lì la mia ambizione naufragò. Anche se alcuni sono memorabili (“Il Signore è il mio pastore”), nel complesso sono estremamente ripetitivi. Il ritornello è sempre lo stesso: la vita è difficile, ma Dio è buono. Per apprezzare i salmi, per cogliere le sfumature di devozione che esprimono, bisognava essere credenti. Bisognava amare Dio, e non era il mio caso. Così lasciai perdere la Bibbia.
Solo più tardi, quando ho imparato ad amare gli uccelli, ho capito che il mio problema con i salmi non era solo la mancanza di fede. C’era un problema più profondo: il modo in cui sono scritti. Se penso alla gioia che provo ogni giorno nel vedere i cardellini che fanno il bagno nella vaschetta per gli uccelli o nel sentire uno scricciolo agitato dietro la recinzione del giardino, posso immaginare la gioia che un credente trova in Dio. La gioia può essere forte come il distillato Everclear o leggera come una birra Coors Light, ma non è mai qualcosa di diverso dalla gioia: un aprirsi del cuore, un sì al mondo e all’essere vivi al suo interno. Così mi aspetterei che un salmo dedicato agli uccelli, una celebrazione scritta della loro gloria, avesse su di me lo stesso effetto che un salmo biblico ha su un credente. Dopotutto io e l’autore del salmo condividiamo la stessa gioia, e tanti appassionati di uccelli sono entusiasti del lirismo ornitologico di libri come Il falco pellegrino di J. A. Baker (Mondadori 1969). Molte persone che stimo mi hanno consigliato il testo di Baker, ma ogni volta che cerco di leggerlo rimango impantanato nei dettagli del paesaggio in cui l’autore ha studiato i falchi pellegrini. Lo stesso Baker riconosce che è un ostacolo, infatti scrive: “Le descrizioni dettagliate del paesaggio sono noiose”. Ma fornisce pagine e pagine di descrizioni noiosamente dettagliate. Il libro diventa più leggibile quando Baker esalta le capacità del falco pellegrino e cerca d’immaginare le sue sensazioni. Anche allora, però, l’effetto principale di queste osservazioni è farmi venire voglia di uscire a vedere i falchi.
Uno scrittore guidato dalla gioia per la natura, e che spera di comunicare questa emozione agli altri, desidera comprensibilmente raccontare in dettaglio cosa l’ha suscitata
A volte il fatto di trarre molta più gioia dall’osservazione degli uccelli, e della natura in generale, che dalla lettura di un libro scritto da qualcun altro sulla natura mi sembra una mancanza, un segno della mia competitività come scrittore. Ma sono anche consapevole, come scrittore, che viviamo in un mondo in cui la natura si sta rapidamente allontanando dalle nostre vite quotidiane. È urgente spingere i non credenti a interessarsi alla natura e a preoccuparsi per ciò che resta del mondo non umano. E ho il forte sospetto che anche i non credenti, come me, siano allergici agli inni di adorazione. La forza di un testo come la Bibbia deriva dalle sue storie. Se fossi un predicatore che va di casa in casa, mi terrei alla larga dai salmi. Comincerei da quelli che considero fatti: Dio ha creato l’universo, noi umani pecchiamo contro le sue leggi e Gesù è stato mandato per redimerci, con conseguenze epocali. Una bella storia piace a tutti, credenti e non. Perciò mi sembra che la prima regola di una scrittura naturalistica che voglia fare proseliti dovrebbe essere: racconta una storia.
Quasi tutti i testi sulla natura raccontano una storia. Uno scrittore si avventura in una bella zona umida o in una foresta incontaminata, ne scopre la bellezza, sente scorrere il tempo in maniera diversa, avverte un legame con una storia più profonda o con una rete vitale più ampia, continua lungo il sentiero, vede un’aquila, ascolta una strolaga: questa è, tecnicamente, una narrazione. Se poi lo scrittore si rompe una gamba o è minacciato da una mamma grizzly, la storia può anche diventare interessante. In genere, però, la narrazione resta poco più di una formalità, un’occasione per riflettere e descrivere. Uno scrittore guidato dalla gioia per la natura, e che spera di comunicare questa emozione agli altri, desidera comprensibilmente raccontare in dettaglio cosa l’ha suscitata. Le sue descrizioni possono anche essere suggestive, ma purtroppo lo scrittore deve competere con altri mezzi di comunicazione che il lettore potrebbe preferire al libro, come quelli audiovisivi, che ti permettono effettivamente di vedere l’aquila o sentire la strolaga. Dall’avvento della fotografia a colori e della registrazione sonora, le lunghe descrizioni sono diventate problematiche per tutti i generi di scrittura, e lo sono ancora di più per uno scrittore naturalistico che vuole fare proseliti: per descrivere bene una scena di natura dovrebbe evitare termini incomprensibili per i lettori che non hanno già visto qualcosa di simile. Io che sono appassionato di uccelli conosco bene il canto di un regolo americano; se leggo che un regolo cinguetta su un salice, posso sentire chiaramente quel suono. Per me le parole “regolo americano” sono già di per sé evocative ed esaltanti. Posso leggere con passione un nudo elenco di specie – beccogrosso testanera, zigolo lapislazzuli, zanzariere blu-grigio – che un’amica ha visto durante una passeggiata mattutina. Per me quell’elenco è già una narrazione. Per il lettore non convertito, però, sarebbe come leggere: Ira, figlio di Ikkes di Tekòa, Abièzer di Anatòt, Mebunnài di Cusa…
Se lo scrittore vuole parlare di uccelli, esistono ottime storie su particolari esemplari (le poiane codarossa di Central park, a New York) e su particolari specie (il volo transpacifico ininterrotto delle pittime minori) e, a giudicare dagli articoli che gli amici non appassionati di uccelli m’inoltrano in continuazione, posso affermare che i resoconti d’imprese aviarie sorprendenti possono vincere, almeno temporaneamente, l’indifferenza del pubblico. È meno chiaro se queste storie possono convertire chi le legge. E lo dico apertamente: il mio interesse è convertire. La scienza degli uccelli e la loro conservazione dovrebbero interessare chiunque abbia un minimo di curiosità intellettuale, ma il mondo abbonda di cose di cui essere curiosi. Chi scrive di ornitologia è dolorosamente consapevole di avere a disposizione solo qualche centinaio di parole per agganciare un lettore profano. Un modo allettante di affrontare questa sfida potrebbe essere cominciare in medias res, accanto a un falò in qualche luogo pittoresco o desolato, e presentarci il Ricercatore. Sarà un uomo dalla folta barba che suona il mandolino. O una donna che si è innamorata degli uccelli nella fattoria del nonno in Kentucky. Sarà una persona tenace e ossessiva, a volte bizzarra, sempre ammirevole. Il pericolo di questo approccio è che, a meno che il Ricercatore non emerga come il vero soggetto della storia, noi lettori potremmo sentirci ingannati, cioè indotti a credere che stiamo leggendo la storia di una persona mentre in realtà si parla di un uccello. E allora è lecito chiedere perché dovremmo prenderci la briga di conoscere il Ricercatore.
Il paradosso della scrittura naturalistica è che per fare proseliti non può parlare solo di natura. E. O. Wilson poteva anche avere ragione quando sosteneva che la biofilia – l’amore per la natura – era una caratteristica universale degli esseri umani. A giudicare dallo stato del pianeta, tuttavia, è una caratteristica che rimane troppo spesso inespressa. Di solito, affinché si attivi, occorre entrare in contatto con qualcuno in cui si è già manifestata. In base alla mia esperienza, se chiedete a un gruppo di birdwatcher cosa li abbia spinti ad appassionarsi agli uccelli, quattro su cinque citeranno un genitore, un insegnante, un amico intimo, o un’altra persona con cui avevano un legame intenso. Ma i fedeli sono pochi e gli scettici molti. Per raggiungere lettori completamente immersi nella loro condizione umana, inconsapevoli del mondo naturale, non basta che gli scrittori esibiscano la loro biofilia. La scrittura deve anche riprodurre l’intensità di una relazione.
Una delle forme che questa intensità può assumere è quella retorica. Io, per esempio, sarei molto più propenso a leggere un saggio che comincia con la frase “Odio la natura” di uno che esordisce con “Amo la natura”. Naturalmente spererei che lo scrittore non odiasse davvero la natura, almeno non del tutto. Ma guardate che risultato ottiene quella provocazione iniziale. Anche se rischia di allontanare i lettori già convinti, apre la porta agli scettici e crea un legame con loro. Se poi il saggio si rivela un’argomentazione a favore della natura, l’incipit gli avrà conferito un notevole dinamismo, con un movimento che da un punto A arriva a un punto B completamente diverso. Un movimento del genere piace ai lettori. Un’altra cosa che piace, anche in assenza di movimento, sono le posizioni battagliere. Prendiamo la prosa feroce di Joy Williams nel saggio “The killing game”, un’invettiva contro i cacciatori e la loro cultura, o “The case against babies”, la più violenta dichiarazione contro le nascite che possiate mai leggere, entrambi contenuti nella raccolta Ill nature (Vintage books 2001), “cattiva natura”: un titolo perfetto. La più grande minaccia per il mondo naturale è l’indifferenza, non l’ostilità attiva. Si può considerare Williams spassosa o squilibrata, eroica o ingiusta, ma è impossibile rimanere indifferenti a quello che scrive. Oppure prendiamo Deserto solitario di Edward Abbey (Franco Muzzio 1993), un resoconto degli anni trascorsi nel deserto dello Utah, in cui l’autore attizza le braci di una misantropia alla Thoreau per trasformarle in un fuoco incandescente da brandire contro il capitalismo e il consumismo statunitense. Anche in questo caso, si può non essere d’accordo con lo scrittore. Si può storcere il naso davanti alle sue supposizioni sulla “natura selvaggia”, ai suoi inconfessati privilegi di statunitense bianco. Ma non si può negare l’intensità della sua posizione, che rende incisive le descrizioni del paesaggio desertico conferendogli una forza retorica e un’energia particolari.
Un buon modo per dare un senso di finalità, di un movimento deciso dal punto A al punto B, è avere una tesi da sostenere. Quando ci troviamo davanti a un testo tendiamo automaticamente ad aspettarci che sostenga qualcosa, se non altro una tesi implicita che ne giustifichi l’esistenza. Ma se non viene offerta una tesi esplicita, i lettori potrebbero decidere di riempire quel vuoto attribuendogliene una loro. Leggendo il racconto di un viaggio in un luogo esotico come il Borneo, confesso di aver pensato, un po’ stizzito, che la conclusione da trarre era che lo scrittore aveva una grande sensibilità nei confronti della natura o una grande fortuna, perché era riuscito ad andare là. Ma non era certo questa la tesi di fondo. Per evitare il sottinteso “ammiratemi” o “invidiatemi”, bisogna fare più attenzione di quanto s’immagini al tono della scrittura. A differenza del predicatore che va di casa in casa a dichiarare estaticamente di essere stato salvato, lo scrittore naturalista che non ha il tono giusto non vede le porte che gli vengono chiuse in faccia. Ma le porte ci sono, e i lettori non convertiti le chiudono.
Sostenere una tesi permette spesso di aggirare il problema del tono. Una raccolta di saggi a me cara, Tropical nature di Adrian Forsyth e Ken Miyata (Scribners 1984), comincia elencando una serie di fatti sulle foreste pluviali tropicali. Sono fatti apparentemente neutri, ma messi in fila creano un assunto: la foresta pluviale è più varia, meno fertile, meno costantemente piovosa, più insidiosamente ostile della “giungla” fradicia e brulicante dell’immaginario popolare. È un’affermazione semplicissima. Eppure da lì si parte per sostenere un’idea, per capovolgere aspettative, per svelare nuove meraviglie. I fatti scientifici, inseriti in una tesi, illustrano lo splendore della natura tropicale in modo molto più convincente dell’impressionismo lirico. E Forsyth e Miyata, in quanto comunicatori neutrali di fatti, sono immuni dal sospetto di cercare ammirazione. La premessa del best seller di Jennifer Ackerman Il genio degli uccelli (La nave di Teseo 2021) è altrettanto semplice e solida: “cervello di gallina” dovrebbe essere un complimento, non un insulto. Il libro di Richard Prum L’evoluzione della bellezza (Adelphi 2020) ha raggiunto un vasto pubblico sostenendo che la teoria della selezione sessuale di Darwin, che la maggioranza dei biologi evoluzionisti ha ignorato o denigrato per più di un secolo, può spiegare ogni tipo di tratto e comportamento non adattivo negli animali. Il libro di Prum ha dei difetti – la prosa è vischiosa, e forse la teoria di Darwin non era così dimenticata come lui la descrive, ma questo per me è irrilevante. La teoria della selezione sessuale è stata una rivelazione, e in più ho imparato un sacco di cose fantastiche su un gruppo di uccelli tropicali, i pipridi, che altrimenti non avrei mai saputo. Questo è il potere di una tesi convincente.
Per lo scrittore naturalista che non è un provocatore né uno scienziato, una terza via per l’intensità consiste nel raccontare una storia in cui l’argomento centrale è la natura, ma la posta in gioco è decisamente umana. Un libro esemplare in questo senso è Kingbird highway di Kenn Kaufman (Houghton Mifflin Harcourt 1997). Kaufman è cresciuto nei sobborghi del Kansas negli anni sessanta, è diventato un birdwatcher ossessivo (da cui il soprannome Kingbird), e dopo aver abbandonato le superiori ha deciso di battere il record del maggior numero di specie di uccelli americani osservate in un anno solare. Il record si afferma immediatamente come l’obiettivo della narrazione. E subito dopo ci viene presentato un ostacolo: il giovane Kaufman è squattrinato. Per visitare ogni angolo del paese nel periodo giusto dell’anno, deve coprire grandi distanze e allora lui decide di fare l’autostop. Così, oltre a un obiettivo e a un ostacolo, abbiamo la promessa di una classica avventura on the road. È importante osservare che, così come non dobbiamo essere pedofili per immedesimarci nella passione di Humbert per Lolita, non dobbiamo neppure essere appassionati di uccelli per incuriosirci della vicenda di Kaufman. Un forte desiderio di qualunque tipo crea empatia nel lettore. Durante il viaggio Kaufman è attento agli uccelli, naturalmente, ma anche all’umore della nazione all’inizio degli anni settanta, alle dinamiche sociali legate alla sua passione, alla perdita e al degrado degli habitat naturali, ai tipi eccentrici che incontra lungo il cammino. Poi il libro prende una bella piega. Mentre la vita sulla strada comincia a pesargli, il narratore si sente sempre più solo e smarrito. E così si scopre che la storia, che a prima vista sembrava il racconto di una ricerca, era fin dall’inizio un romanzo di formazione. Poiché ci siamo affezionati al giovane Kaufman, smettiamo di chiederci se batterà il record e cominciamo a farci domande più universali: cosa succederà a questo ragazzo? Ritroverà la strada di casa? Ciò che distingue Kingbird highway da molte altre storie di birdwatcher a caccia di record è che alla fine non importa più quante specie il protagonista vede in un anno. L’unica cosa che conta sono gli uccelli. Per lui diventano la casa di cui ha tanta nostalgia, la casa che non lo abbandonerà mai.
Anche se riuscissimo a immaginare le sue sensazioni – e, con buona pace di J.A. Baker, non credo ci riusciremo mai –, un uccello è una creatura istintiva, guidata da desideri che non hanno nulla di personale, incapace di ambivalenza etica e di rimpianto. Per un animale selvatico, la posta in gioco consiste nella sopravvivenza e nella riproduzione, punto e basta. Gli studi scientifici possono essere affascinanti ma, a meno che non intervenga un processo di antropomorfizzazione o di proiezione, un animale selvatico manca della peculiarità individuale definita da una storia personale e da desideri per il futuro, gli elementi da cui dipende una buona narrazione. Se il personaggio è un animale selvatico, non ci allontaneremo mai dal punto A: l’animale è quello che è, che è stato e che sempre sarà. Perché ci sia un punto B, la destinazione di un viaggio con una tensione drammatica, occorre un personaggio umano.
La narrativa naturalistica mette qualcuno (spesso l’autore che scrive in prima persona) in una relazione irrisolta con il mondo naturale, gli fornisce domande senza risposta o un obiettivo da raggiungere, e poi ricorre a emozioni universalmente condivise – speranza, rabbia, desiderio, frustrazione, imbarazzo, delusione – per coinvolgere il lettore nel viaggio. Se ottiene il suo scopo, lo fa in maniera indiretta. Non possiamo costringere i lettori ad amare la natura. Quello che possiamo fare è raccontare storie forti di persone che la amano, e sperare che l’amore sia contagioso. ◆ sp
Jonathan Franzen è uno scrittore statunitense. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Crossroads (Einaudi 2022). Questo articolo è uscito sul settimanale The New Yorker con il titolo The problem of nature writing.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1542 di Internazionale, a pagina 104. Compra questo numero | Abbonati