All’inizio degli anni dieci del duemila qualcosa improvvisamente è andato storto per gli adolescenti. Ormai conoscerete le statistiche: secondo molti studi dal 2010 al 2019 negli Stati Uniti il tasso di depressione e ansia, abbastanza stabile negli anni precedenti, è aumentato del 50 per cento. Tra gli adolescenti dai 10 e ai 19 anni il tasso di suicidi è cresciuto del 48 per cento. Per le ragazze tra i 10 e i 14 anni, l’aumento è stato del 131 per cento. Il problema non riguarda solo gli Stati Uniti: nello stesso periodo un andamento simile è emerso in Canada, Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda, nei paesi nordici e altrove. In base a vari parametri e in diversi paesi, la generazione Z (i nati a partire dal 1996) soffre di ansia, depressione, autolesionismo e disturbi correlati più di qualsiasi altra generazione per la quale abbiamo dati a disposizione.

Il declino della salute mentale è solo uno dei tanti segnali che qualcosa è andato storto. La solitudine e la mancanza di amicizie tra gli adolescenti statunitensi hanno cominciato ad aumentare intorno al 2012. Da quell’anno anche i risultati scolastici sono peggiorati. Secondo il sistema di valutazione nazionale (Naep), negli Stati Uniti hanno cominciato a declinare i risultati nella capacità di lettura e di calcolo, invertendo decenni di crescita lenta ma costante. Il Pisa, il principale indicatore internazionale delle competenze scolastiche, mostra che, sempre a partire dai primi anni dieci, si è registrato in tutto il mondo un declino in matematica, lettura e scienze.

Internet in tasca

I problemi della generazione Z continuano anche dopo i vent’anni. I giovani adulti si frequentano meno, fanno meno sesso e mostrano meno interesse ad avere figli rispetto alle generazioni precedenti. È più probabile che vivano con i genitori. Difficilmente hanno lavorato già da adolescenti e i datori di lavoro sostengono che è più difficile trattare con loro. Molte di queste tendenze sono cominciate con le generazioni precedenti, ma la maggior parte ha subìto un’accelerazione con la generazione Z.

Dai sondaggi emerge che chi appartiene a questa generazione è più timido e meno propenso al rischio, quindi meno ambizioso. In un’intervista del maggio 2023, il cofondatore della OpenAi, Sam Altman, e il cofondatore del servizio di pagamenti digitali Stripe, Patrick Collison, hanno osservato che per la prima volta dagli anni settanta nessuno dei principali imprenditori della Silicon valley ha meno di trent’anni. “Qualcosa è andato storto”, ha detto Altman. In un settore notoriamente dominato dai giovani, era sconcertato dall’improvvisa mancanza di ventenni tra i grandi innovatori.

Le generazioni non sono monolitiche, ovviamente. Molti giovani se la stanno cavando benissimo. Ma nel complesso la generazione Z ha problemi di salute mentale ed è in ritardo rispetto alle precedenti in base a molti parametri importanti. E se una generazione non sta bene – se è più ansiosa e depressa e crea famiglie, carriere e aziende importanti a un ritmo sostanzialmente inferiore alle precedenti – le conseguenze sociologiche ed economiche saranno profonde per l’intera società.

Maggie Shannon

Cosa è successo all’inizio degli anni dieci che ha alterato lo sviluppo degli adolescenti e peggiorato la loro salute mentale? Le teorie abbondano ma, dato che tendenze simili si riscontrano in molti paesi in tutto il mondo, il caso degli Stati Uniti racconta solo una parte della storia. Penso che la risposta sia semplice, anche se la psicologia di fondo è complessa: sono stati gli anni in cui gli adolescenti dei paesi ricchi hanno sostituito i loro telefoni cellulari con gli smartphone e trasferito gran parte della loro vita sociale online, in particolare su piattaforme social progettate per creare viralità e dipendenza. Una volta che i giovani hanno cominciato a portarsi internet in tasca, disponibile giorno e notte, le loro esperienze quotidiane e i percorsi di sviluppo sono stati alterati a tutti i livelli. L’amicizia, gli appuntamenti, la sessualità, l’esercizio fisico, il sonno, gli studi, la politica, le dinamiche familiari, l’identità: tutto ne ha risentito. La vita è cambiata rapidamente anche per i bambini più piccoli, quando hanno cominciato ad avere accesso agli smartphone dei genitori e, in seguito, hanno avuto a disposizione i propri tablet, computer portatili e perfino smartphone già dalle elementari.

Come psicologo sociale sono coinvolto da anni in dibattiti sugli effetti della tecnologia digitale. In genere, le questioni scientifiche sono state inquadrate in modo piuttosto restrittivo, per renderle più facili da affrontare con i dati. Per esempio: gli adolescenti che usano di più i social network soffrono di livelli di depressione più alti? Usare lo smartphone prima di andare a dormire interferisce con il sonno? Di solito la risposta a queste domande è sì, anche se le dimensioni del rapporto tra le due cose sono spesso statisticamente minime, il che ha portato alcuni ricercatori a concludere che le nuove tecnologie non sono responsabili dell’enorme aumento delle malattie mentali cominciato nei primi anni dieci.

Ma prima di poter valutare le prove di qualsiasi danno potenziale, dobbiamo fare un passo indietro e porci una domanda più ampia: cosa sono l’infanzia e l’adolescenza e come sono cambiate da quando ci sono gli smartphone? Se adottiamo un punto di vista più generale su cos’è l’infanzia e cosa devono fare i bambini, i preadolescenti e gli adolescenti per diventare adulti preparati, il quadro diventa molto più chiaro. Si scopre che una vita basata sugli smartphone altera o disturba molti processi di sviluppo.

Senza libertà

L’intrusione degli smartphone e dei social network non è l’unico fattore ad aver modificato la vita infantile. C’è un retroscena importante, che comincia già negli anni ottanta, quando abbiamo cominciato a privare sistematicamente i bambini e gli adolescenti della libertà, del gioco senza supervisione, delle responsabilità e delle possibilità di correre rischi, che favoriscono la competenza, la maturità e la salute mentale. Ma il cambiamento ha subìto un’accelerazione all’inizio degli anni dieci, quando una generazione già privata dell’indipendenza è stata attirata in un nuovo universo virtuale che ai genitori sembrava sicuro ma che in realtà, per molti aspetti, è più pericoloso del mondo materiale.

Maggie Shannon

La mia tesi è questa: la nuova infanzia incentrata basata sull’uso del telefono, che ha preso forma circa dodici anni fa, sta facendo ammalare i giovani e bloccando il loro sviluppo verso l’età adulta. Serve una drastica correzione culturale, subito.

Il cervello umano è straordinariamente grande rispetto a quello degli altri primati, e l’infanzia umana è straordinariamente lunga proprio per dare a questo grande cervello il tempo di integrarsi in una particolare cultura. All’età di circa sei anni, il cervello di un bambino ha già raggiunto il 90 per cento delle sue dimensioni da adulto. I dieci o quindici anni successivi servono per imparare le norme sociali e padroneggiare le abilità fisiche, analitiche, creative e sociali. Mentre i bambini e gli adolescenti vanno in cerca di esperienze e sperimentano un’ampia varietà di comportamenti, le sinapsi e i neuroni usati più di frequente restano vitali mentre quelli usati meno scompaiono. I neuroni che si attivano insieme si legano insieme, recita una formula dei neuropsicologi.

A volte si dice che per svilupparsi il cervello sia “in attesa di esperienze”, perché alcune sue parti specifiche mostrano una maggiore plasticità durante i periodi della vita in cui può “aspettarsi” di avere determinate esperienze. Lo vediamo nei piccoli di oca, che scambiano per la madre qualunque cosa di dimensioni simili si muova nelle loro vicinanze subito dopo la schiusa. Lo si può vedere nei bambini, che sono in grado di imparare rapidamente una lingua e di prendere l’accento del posto, ma solo durante la prima pubertà, dopo diventa più difficile.

L’infanzia umana è un lungo apprendistato culturale con compiti diversi in età diverse fino alla pubertà. Se la vediamo in questo modo, possiamo individuare i fattori che promuovono o impediscono il giusto tipo di apprendimento a ciascuna età. Per i bambini di tutte le età, uno dei più potenti fattori di apprendimento è la forte motivazione a giocare. Il gioco è il lavoro dell’infanzia, e tutti i giovani mammiferi hanno lo stesso compito: allenare il cervello giocando spesso e con vigore, praticando i movimenti e le abilità di cui avranno bisogno da adulti.

L’infanzia è cambiata

Da centinaia di studi su giovani ratti, scimmie e umani emerge che i giovani mammiferi vogliono giocare, ne hanno bisogno e quando non possono giocare finiscono per avere problemi sociali, cognitivi ed emotivi. Un aspetto cruciale del gioco è l’assunzione di rischi. I bambini e gli adolescenti devono correre dei rischi e sbagliare spesso in situazioni in cui un errore non costa caro. È così che aumentano le loro capacità, superano le paure, imparano a valutare i rischi e a collaborare per affrontare sfide più grandi in seguito. La possibilità sempre presente di farsi male mentre si corre, si esplora, ci si scontra o si entra in un vero e proprio conflitto con un altro gruppo aggiunge un elemento di brivido, e il gioco emozionante sembra essere il più efficace per superare le ansie infantili e costruire relazioni sociali e competenza emotiva e fisica.

Il desiderio di correre un rischio e provare un brivido aumenta negli anni dell’adolescenza, quando sbagliare può comportare conseguenze più gravi. I bambini di tutte le età devono scegliere il rischio che sono pronti ad affrontare in un dato momento. I giovani privati delle opportunità di rischiare e di esplorare in modo indipendente diventeranno, in media, adulti più ansiosi e avversi al rischio.

L’infanzia e l’adolescenza umana si sono evolute all’aperto, in un mondo materiale pieno di pericoli ma anche di opportunità. Le sue attività centrali – gioco, esplorazione e intensa socializzazione– non erano in genere supervisionate dagli adulti, e questo consentiva ai bambini di fare le loro scelte, risolvere i loro conflitti e prendersi cura gli uni degli altri. Avventure e avversità condivise univano i giovani in gruppi di forte amicizia all’interno dei quali imparavano a gestire le dinamiche sociali dei piccoli gruppi, che li preparavano ad affrontare sfide e gruppi più grandi in seguito. Poi abbiamo cambiato infanzia.

È successo lentamente a partire dalla fine degli anni settanta e ottanta, prima dell’arrivo di internet, quando negli Stati Uniti molti genitori hanno cominciato ad aver paura che i figli, se lasciati senza sorveglianza, sarebbero stati in pericolo. Il declino generale del capitale sociale – cioè quanto le persone conoscono i propri vicini e le istituzioni, e si fidano di loro – ha aggravato le paure dei genitori. Nel frattempo, la sempre maggiore selettività delle università ha incoraggiato forme di genitorialità ancora più intrusive. Negli anni novanta, si è cominciato a tenere i figli a casa o a insistere perché trascorressero il pomeriggio impegnati in attività di arricchimento personale gestite dagli adulti. Il gioco libero, l’esplorazione indipendente e il tempo trascorso con gli altri adolescenti sono diminuiti.

Ma l’iperprotettività è solo uno dei motivi della crisi attuale. La transizione da un’infanzia più indipendente è stata anche facilitata dai costanti miglioramenti della tecnologia digitale, che hanno reso più facile e più invitante per i giovani trascorrere molto più tempo in casa e da soli nelle loro stanze. Alla fine le aziende tecnologiche hanno avuto accesso ai bambini 24 ore su 24, sette giorni su sette. Hanno sviluppato attività virtuali emozionanti, progettate per “coinvolgere”, che non assomigliano per niente alle esperienze del mondo reale che i giovani cervelli, per come si sono evoluti, si aspettano.

Due ondate

Internet, che oggi domina la vita dei giovani, è arrivata in due ondate tecnologiche collegate tra loro. La prima tra i millenial ha fatto pochi danni; la seconda ha ingoiato tutta la generazione Z. La prima è arrivata negli anni novanta, con l’accesso a internet, che rese i personal computer adatti a qualcosa di più che l’elaborazione di testi e i giochi elementari. Nel 2003 il 55 per cento delle famiglie statunitensi aveva un computer con accesso (lento) a internet. I tassi di depressione adolescenziale, solitudine e altri indicatori di cattiva salute mentale non aumentarono. Anzi, scesero un po’. Gli adolescenti nati tra il 1981 e il 1995, i primi ad attraversare la pubertà con l’accesso a internet, erano in media psicologicamente più sani e più felici dei fratelli maggiori o dei genitori della generazione X (nati tra il 1965 e il 1980).

La seconda ondata ha cominciato a montare negli anni duemila, anche se la sua piena forza si è manifestata solo all’inizio degli anni dieci. Tutto è cominciato in modo piuttosto innocente con l’arrivo delle piattaforme di social network che aiutavano le persone a connettersi con gli amici. Gli adolescenti hanno abbracciato subito i social network, ma il tempo che potevano trascorrere su questi siti nei primi anni era limitato, perché l’accesso era possibile solo da un pc, che spesso era il computer di famiglia. I giovani non potevano connettersi a internet dallo scuolabus, durante le lezioni o mentre erano all’aperto con gli amici. Molti adolescenti nella prima metà degli anni duemila avevano un telefono cellulare, ma si trattava di apparecchi semplici, senza la connessione a internet. Erano strumenti che aiutavano i millennial a incontrarsi di persona e a parlare. Non ci sono prove che i semplici cellulari abbiano danneggiato la salute mentale dei millennial.

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È stato solo con l’introduzione dell’iPhone (2007), dell’App store (2008) e delle connessioni veloci – e il corrispondente passaggio alla telefonia mobile di molti social media, videogiochi e siti porno – che è diventato possibile per gli adolescenti trascorrere online quasi ogni momento. È stata la straordinaria sinergia tra queste innovazioni ad alimentare la seconda ondata. Nel 2011 solo il 23 per cento degli adolescenti possedeva uno smartphone. Nel 2015 il tasso era salito al 73 per cento, e un quarto degli adolescenti affermava di essere online “quasi costantemente”. I loro fratelli più piccoli che andavano alle elementari di solito non avevano uno smartphone, ma dopo la sua uscita nel 2010, l’iPad è diventato rapidamente un punto fermo nella vita quotidiana dei bambini. È stato in questo breve periodo, dal 2010 al 2015, che l’infanzia negli Stati Uniti (e in molti altri paesi) è cambiata, ha assunto una forma più sedentaria, solitaria, virtuale e incompatibile con uno sviluppo sano.

Numeri incredibili

In Walden, la sua raccolta di riflessioni del 1854 sul vivere in semplicità, Henry David Thoreau scriveva: “Il costo di una cosa è la quantità di vita che diamo in cambio per averla, subito o a lungo termine”. È una formulazione elegante di ciò che gli economisti avrebbero poi chiamato il costo-opportunità di qualsiasi scelta: ciò che non possiamo più fare con il nostro denaro e il nostro tempo una volta che li abbiamo impegnati in qualcos’altro. Quindi è importante capire quanta parte della giornata dei giovani ora è occupata dai loro dispositivi.

I numeri sono difficili da credere. I dati della società di sondaggi e consulenza aziendale Gallup mostrano che gli adolescenti statunitensi trascorrono circa cinque ore al giorno sui social media (inclusi i video su TikTok e YouTube). Se ci aggiungiamo tutte le altre attività basate su uno schermo, si sale a una media compresa tra le sette e le nove ore al giorno. I numeri sono ancora più alti nelle famiglie monoparentali e a basso reddito, e tra le famiglie nere, ispaniche e native americane. Questi numeri molto alti non includono il tempo passato davanti agli schermi a scuola o per fare i compiti né tutto il tempo che gli adolescenti trascorrono prestando attenzione solo parziale agli eventi del mondo reale mentre pensano a cosa si stanno perdendo sui social network o aspettano che gli arrivi un messaggio.

Secondo l’istituto di ricerche Pew, nel 2022 un terzo degli adolescenti ha affermato di essere su uno dei principali social media “quasi costantemente” e quasi la metà ha detto lo stesso di internet in generale. Per questi consumatori accaniti, quasi ogni ora di veglia è un’ora assorbita, in tutto o in parte, dai loro dispositivi. Nei termini di Thoreau, quanta vita diamo in cambio per tutto questo tempo passato guardando uno schermo? Probabilmente, la maggior parte. Tutto il resto della giornata di un adolescente dev’essere ridotto o eliminato del tutto per fare spazio alla grande quantità di contenuti consumati e alle centinaia di “amici”, “follower” e altre connessioni che sollecitano messaggi di testo, post, commenti, like, foto e messaggi diretti.

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Dall’inizio degli anni dieci è diminuita la quantità di tempo che gli adolescenti trascorrono dormendo e molti studi collegano la perdita di sonno direttamente all’uso dei dispositivi prima di andare a dormire, in particolare se adoperati per dare un’occhiata ai social media. Anche l’attività fisica è diminuita, il che è un peccato perché l’esercizio, come il sonno, migliora la salute mentale e fisica. La lettura di libri è in declino da decenni, scalzata dalle alternative digitali, ma il suo declino, come tante altre cose, ha subìto un’accelerazione all’inizio degli anni dieci.

Con l’intrattenimento passivo sempre disponibile, le menti degli adolescenti probabilmente vagano meno di prima, la contemplazione e l’immaginazione potrebbero essere inserite nell’elenco delle cose ridotte o cancellate del tutto.

Ma forse il prezzo più devastante della nuova infanzia incentrata sul telefono è stato il crollo del tempo passato a interagire con altre persone faccia a faccia. Da uno studio su come gli statunitensi passano il tempo è emerso che, prima del 2010, i giovani dai 15 ai 24 anni dicevano di trascorrere molto più tempo con i loro amici (circa due ore al giorno, in media, senza contare quelle a scuola) di quanto facevano gli anziani (dai trenta ai sessanta minuti appena).

Per i giovani il tempo con gli amici ha cominciato a diminuire negli anni duemila, ma il calo ha accelerato negli anni dieci, mentre è rimasto pressoché invariato per gli anziani. Nel 2019 il tempo medio trascorso dai giovani con gli amici è sceso a 67 minuti al giorno. I giovani della generazione Z si stavano già allontanando da anni e avevano quasi completato il percorso quando è arrivata la pandemia.

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Qualcuno potrebbe mettere in dubbio l’importanza di questo declino. Dopotutto, per la maggior parte del tempo online non si interagisce con gli amici attraverso sms, social network e videogiochi? Non va bene comunque? In parte sicuramente sì, anche le interazioni virtuali offrono vantaggi unici, soprattutto per i giovani geograficamente o socialmente isolati. Ma, in generale, al mondo virtuale mancano molte delle caratteristiche che rendono le interazioni nel mondo reale significative, per così dire, per lo sviluppo fisico, sociale ed emotivo. In particolare, le relazioni del mondo reale e le interazioni sociali sono caratterizzate da quattro aspetti – gli stessi da centinaia di migliaia di anni – che quelle online distorcono o cancellano.

Innanzitutto, nel mondo reale è coinvolto il corpo, questo significa che per comunicare usiamo le mani e le espressioni facciali e impariamo a rispondere al linguaggio del corpo degli altri. Le interazioni virtuali, al contrario, si basano principalmente sul linguaggio. Non importa quanti emoji si usino per compensare: l’eliminazione dei canali di comunicazione per i quali siamo stati programmati da milioni di anni di evoluzione probabilmente produrrà adulti meno a loro agio e meno abili nell’interagire di persona. Inoltre le interazioni del mondo reale sono sincrone, avvengono in contemporanea. Di conseguenza, impariamo i segnali che indicano le pause e i turni di conversazione. Le interazioni sincrone ci fanno sentire più vicini all’altra persona perché questo è l’effetto della “sincronia”.

Messaggi, post e molte altre interazioni virtuali mancano di sincronia. Non si ride sul serio, c’è più spazio per le interpretazioni errate e più stress quando un commento non suscita una risposta immediata.

Le interazioni del mondo reale, poi, si basano principalmente sulla comunicazione uno-a-uno o talvolta uno-a-molti. Mentre le comunicazioni virtuali spesso sono dirette a un pubblico potenzialmente molto vasto. Online, ogni persona può impegnarsi in decine di interazioni asincrone in parallelo, il che interferisce con la profondità che ognuna di esse può raggiungere. Anche le motivazioni del mittente sono diverse: con un pubblico vasto, la propria reputazione è sempre in gioco, un errore o una prestazione scarsa possono danneggiare la propria posizione sociale davanti a un gran numero di pari. Queste comunicazioni tendono quindi a essere più performative e a provocare più ansia rispetto alle conversazioni a due. Infine, le interazioni del mondo reale di solito avvengono all’interno di comunità in cui il costo d’ingresso e di uscita è più alto, quindi le persone sono fortemente motivate a investire nelle relazioni e a riparare le fratture quando si verificano. Invece in molte reti virtuali, le persone possono facilmente bloccare gli altri o andarsene quando sono scontente. All’interno di queste reti le relazioni sono generalmente usa e getta.

Queste caratteristiche insoddisfacenti e ansiogene della vita online sono facilmente riconoscibili dalla maggior parte degli adulti. Le interazioni online possono far emergere comportamenti antisociali che le persone non mostrerebbero mai nelle loro comunità offline.

Ma se la vita online mette a dura prova gli adulti, immaginate cosa fa agli adolescenti nei primi anni della pubertà, quando il loro cervello “in attesa di esperienza” è condizionato dalla risposta delle loro interazioni sociali. Probabilmente i ragazzi che attraversano la pubertà online vivono molti più raffronti sociali, momenti di autocoscienza, vergogna e ansia cronica degli adolescenti delle generazioni precedenti, il che potrebbe portare il loro cervello in via di sviluppo ad assumere un atteggiamento sempre difensivo.

Il cervello contiene sistemi specializzati per l’avvicinamento (quando si presentano le opportunità) e l’allontanamento (quando le minacce sono o sembrano probabili). Le persone possono trovarsi in quelle che potremmo chiamare “modalità di scoperta” o “modalità di difesa” in qualsiasi momento, ma in genere non contemporaneamente.

I due sistemi insieme formano un meccanismo che permette di adattarsi rapidamente al mutare delle condizioni, come un termostato che può attivare un impianto di riscaldamento o di raffreddamento quando cambia la temperatura. Il termostato interno di alcune persone è generalmente impostato sulla modalità di scoperta e passa alla modalità di difesa solo quando si presentano minacce esplicite. Queste persone tendono a vedere il mondo come pieno di opportunità. Sono più felici e meno ansiose. Il termostato interno di altre persone, invece, è generalmente impostato sulla modalità di difesa e passa alla modalità di scoperta solo quando si sentono insolitamente al sicuro. Tendono a vedere il mondo pieno di minacce e sono più inclini all’ansia e ai disturbi depressivi. Un modo semplice per comprendere le differenze tra la generazione Z e le precedenti è che le persone nate a partire dal 1996 hanno un termostato interno spostato verso la modalità di difesa.

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Attenzione frammentata

Il dibattito sull’uso degli smartphone e dei social media tra gli adolescenti ruota tipicamente, e comprensibilmente, intorno alla salute mentale. Ma i danni derivanti da una trasformazione così improvvisa e sconsiderata dell’infanzia vanno ben oltre. Ne ho già accennati alcuni: disagio sociale, ridotta fiducia in se stessi e maggior sedentarietà. E ce ne sono anche altri.

Rimanere concentrati mentre si è seduti al computer è già abbastanza difficile per un adulto con una corteccia prefrontale completamente sviluppata. Lo è molto di più per gli adolescenti che cercano di fare i compiti davanti al portatile. Probabilmente sono meno intrinsecamente motivati a restare concentrati. Sono certamente meno abili, data la loro corteccia prefrontale ancora non del tutto sviluppata, quindi è facile per qualsiasi app attirarli con un’offerta di convalida sociale o intrattenimento. I loro smartphone emettono costantemente segnali acustici: uno studio ha rilevato che un adolescente riceve in media 237 notifiche al giorno, circa 15 ogni ora di veglia.

L’attenzione prolungata è essenziale per fare quasi qualsiasi cosa di importante o creativo, ma l’attenzione dei giovani è frammentata dalle notifiche che offrono la possibilità di esperienze digitali con molto piacere e poco sforzo. Succede anche in classe. Gli studi confermano che quando gli studenti hanno accesso ai loro telefoni durante le lezioni, li usano, soprattutto per mandare messaggi e controllare i social network, e i loro voti e il loro apprendimento ne risentono. Questo potrebbe spiegare perché negli Stati Uniti e in tutto il mondo i punteggi ottenuti nei test di apprendimento hanno cominciato a diminuire all’inizio degli anni dieci, ben prima della pandemia.

Le interazioni sincrone ci fanno sentire più vicini all’altra persona

Le basi neurali della dipendenza dai social media o dai videogiochi non sono esattamente le stesse della dipendenza chimica dalla cocaina o dagli oppioidi. Comportano, tuttavia, un’attivazione anormalmente intensa e prolungata dei neuroni della dopamina e dei percorsi di ricompensa. Con il passare del tempo il cervello si adatta a questi livelli di dopamina e quando il bambino non è impegnato in attività digitali che glieli fanno raggiungere mostra sintomi di astinenza come ansia, insonnia e intensa irritabilità. I bambini che soffrono di questo tipo di dipendenze spesso diventano scontrosi e aggressivi e si isolano dalla famiglia chiudendosi nella loro stanza davanti a uno schermo.

Il rischio della dipendenza

I social media e i giochi in rete sono stati progettati per attirare utenti. Quanto ci riescono? Quanti bambini soffrono di dipendenza digitale? Per i ragazzi i principali rischi di dipendenza sembrano essere i videogiochi e la pornografia. Le ragazze hanno tassi molto più bassi di dipendenza dai videogiochi e dal porno, ma usano i social media più spesso dei ragazzi. Non intendo sopravvalutare i rischi: la maggior parte degli adolescenti non diventa dipendente dal telefono e dai videogiochi. Ma in diversi studi su entrambi i generi, il tasso di uso problematico si aggira intorno al 5-15 per cento. Esiste un altro prodotto di consumo che i genitori lascerebbero usare ai figli con relativa libertà sapendo che circa un bambino su dieci finirebbe per usarlo in modo abituale e compulsivo sconvolgendo vari ambiti della sua vita e rasentando la dipendenza?

Come posso essere sicuro che l’epidemia di disturbi mentali tra gli adolescenti sia stata innescata dall’avvento dell’infanzia incentrata sul telefono? Gli scettici indicano come possibili responsabili altri eventi, tra cui la crisi finanziaria del 2008, il riscaldamento globale, la sparatoria nella scuola di Sandy Hook del 2012, l’aumento della pressione scolastica e l’epidemia di oppioidi. Ma, anche se in alcuni paesi potrebbero aver contribuito al fenomeno, questi eventi presi singolarmente non spiegano né i tempi né la portata globale del disastro. Un’ulteriore prova ce la dà la stessa generazione Z. Con tutti i discorsi sulla regolamentazione dei social media, sull’innalzamento dei limiti di età e sul divieto di usare i telefoni a scuola, potremmo aspettarci delle proteste. Ho cercato qualcosa del genere e non ho trovato quasi nulla. Al contrario, molti giovani adulti raccontano le loro esperienze devastanti di dipendenza e isolamento dovuti all’uso dei social network. E lo stesso è stato confermato da un documento interno di Facebook fatto trapelare dall’ex dipendente dell’azienda Frances Hagen. Quindi com’è possibile che un’intera generazione sia ostaggio di un prodotto di consumo che in pochi apprezzano e che molti si rammaricano di aver usato? Gli smartphone e soprattutto i social media hanno spinto gli appartenenti alla generazione Z e i loro genitori in una serie di trappole. Una volta comprese le loro dinamiche, le vie di fuga diventano chiare.

Pressione insidiosa

Le aziende che gestiscono i social media come la Meta, TikTok e Snap sono spesso paragonate ai produttori di tabacco, anche se non è del tutto corretto nei confronti dell’industria del tabacco. È vero che entrambi i settori commercializzano prodotti dannosi per i bambini e li mettono a punto per massimizzare la fidelizzazione dei clienti (cioè la dipendenza), ma c’è una grande differenza: gli adolescenti potevano scegliere e hanno scelto, in tanti, di non fumare. Anche al culmine del consumo di sigarette tra gli adolescenti, nel 1997, quasi due terzi degli studenti delle scuole superiori non fumavano.

La maggior parte degli studenti li usa solo perché lo fanno anche tutti gli altri

I social network, al contrario, esercitano una pressione molto maggiore su chi non li usa, in età molto più giovane e in modo più insidioso. Quando alcuni studenti di una scuola media mentono sulla loro età per aprire account a undici o dodici anni e cominciano a pubblicare foto e post su se stessi e sugli altri studenti, le conseguenze sono drammatiche. La pressione sui coetanei a imitarli diventa fortissima.

Anche una ragazza perfettamente consapevole che Instagram può favorire l’ossessione per la bellezza, l’ansia e i disturbi alimentari è disposta a correre questi rischi se è convinta che altrimenti sarà fuori dal giro, all’oscuro di quello che succede e isolata. In effetti, se resistesse, potrebbe essere emarginata, potrebbe soffrire di ansia e depressione, anche se in modo diverso da chi usa pesantemente i social media. Questi dunque compiono un’impresa notevole: danneggiano anche gli adolescenti che non li usano.

Un recente studio condotto da Leonardo Bursztyn, economista dell’università di Chicago, ha catturato con precisione le dinamiche della trappola dei social media. I ricercatori hanno reclutato più di mille studenti universitari e gli hanno chiesto quanto avrebbero voluto essere pagati per disattivare i loro account su Instagram o TikTok per quattro settimane. È la domanda tipica di un economista che vuole calcolare il valore netto di un prodotto per la società. In media, gli studenti hanno detto che avrebbero chiesto circa 50 dollari (59 dollari per TikTok, 47 dollari per Instagram) per disattivare qualunque piattaforma. Poi gli autori della ricerca hanno detto agli studenti che avrebbero dovuto cercare di convincere i loro compagni a disattivare quella stessa piattaforma, offrendosi di pagare anche loro per farlo, e hanno chiesto: quanto vorreste essere pagati per chiudere i vostri account se lo facessero anche gli altri? La risposta, in media, è stata meno di zero. In ogni caso, la maggioranza degli studenti era disposta a pagare per una soluzione simile.

Trappole collettive

I social media si basano sull’effetto rete. Chi li usa lo fa solo perché lo fanno anche tutti gli altri. Molte persone preferirebbero che nessuno lo facesse. In seguito, i ricercatori hanno chiesto direttamente agli studenti: “Preferiresti vivere in un mondo senza Instagram (o TikTok)?”. E la maggioranza di loro ha detto di sì: il 58 per cento per ciascuna applicazione.

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Questa è la definizione da manuale di ciò che i sociologi chiamano un problema di azione collettiva. È quello che succede quando un gruppo starebbe meglio se tutti i suoi membri facessero una particolare azione, ma nessuno la fa perché, se non la fanno anche gli altri, il costo personale supera il beneficio. Le sigarette hanno intrappolato i singoli fumatori con una dipendenza biologica. I social media hanno intrappolato un’intera generazione creando un problema di azione collettiva. I primi sviluppatori di app hanno deliberatamente e consapevolmente sfruttato le debolezze psicologiche e le insicurezze dei giovani per spingerli a consumare un prodotto che, riflettendoci bene, molti vorrebbero poter usare di meno o per niente.

I giovani e i loro genitori sono bloccati in almeno quattro trappole di azione collettiva. Per una singola famiglia è difficile sfuggire, ma diventa molto più facile se le famiglie, le scuole e le comunità si coordinano e agiscono insieme. Ecco quattro regole che potrebbero riportare indietro la situazione. Se qualsiasi comunità le adottasse tutte, sono sicuro che ci sarebbe un significativo miglioramento della salute mentale dei giovani nel giro di due anni.

  1. Niente smartphone prima del liceo: la trappola qui è che ogni bambino pensa di aver bisogno di uno smartphone perché “tutti gli altri” ne hanno uno, e molti genitori si arrendono perché non vogliono che i loro figli si sentano esclusi. Ma se nessun altro avesse uno smartphone – o anche se, diciamo, solo la metà della classe di prima media ne avesse uno – i genitori si sentirebbero più confortati a comprargli un telefono semplice (o addirittura nessun telefono). La possibilità di stare su internet 24 ore su 24 dovrebbe essere ritardata fino alla terza media (intorno ai 14 anni). Se questa fosse una norma nazionale o comunitaria contribuirebbe a proteggere gli adolescenti durante i primi anni molto vulnerabili della pubertà. Secondo uno studio britannico del 2022 sono gli anni in cui è più forte la correlazione tra l’uso dei social media e i problemi di salute mentale.
  1. Niente social media prima dei 16 anni: la trappola qui, come per gli smart­phone, è che ogni adolescente sente il bisogno di aprire un account su TikTok, Instagram, Snapchat e altre piattaforme principalmente perché è lì che la maggior parte dei suoi coetanei pubblica e spettegola. Ma se la maggior parte degli adolescenti non fosse su queste piattaforme fino ai 16 anni, le famiglie e i ragazzi potrebbero resistere più facilmente alla pressione di iscriversi. Il ritardo non significa che i ragazzi sotto i 16 anni non potrebbero mai guardare video su TikTok o YouTube, ma solo che non potrebbero aprire account, fornire i loro dati, pubblicare i propri contenuti e consentire agli algoritmi di conoscere loro e le loro preferenze.
  1. Niente telefono a scuola: la maggior parte delle scuole afferma di vietare i telefoni, ma questo di solito significa semplicemente che gli studenti non devono tirare fuori il telefono dalla tasca durante le lezioni. Dalla ricerca emerge invece che la maggior parte degli studenti usa il telefono anche durante le lezioni. Lo usa durante l’ora di pranzo, nei momenti liberi e nelle pause tra una lezione e l’altra, momenti in cui ognuno potrebbe e dovrebbe interagire con i compagni. L’unico modo per distogliere la mente degli studenti dallo smartphone durante la giornata scolastica è chiedere a tutti di mettere i telefoni (e altri dispositivi che possono inviare o ricevere messaggi) in un armadietto o in un luogo chiuso a chiave all’inizio della giornata.
  1. Più indipendenza, libertà di gioco e responsabilità nel mondo reale: molti genitori hanno paura di dare ai figli il livello di indipendenza e responsabilità che avevano loro quand’erano giovani, anche se negli ultimi decenni il tasso di omicidi, guida in stato di ebbrezza e altri pericoli per i ragazzi è diminuito.

Parte di questa paura dipende dal fatto che i genitori guardano gli altri genitori per determinare cosa è normale e sicuro, e vedono pochi esempi di famiglie che si comportano come se ci si potesse fidare di mandare un bambino di nove anni in un negozio da solo. Ma se molti genitori cominciassero a mandare i figli fuori a giocare o a fare commissioni, le norme su ciò che è sicuro e accettato cambierebbero rapidamente. Lo stesso vale per le teorie su cosa significa essere “bravi genitori”. E se più genitori dessero maggiori responsabilità ai figli – per esempio chiedendogli di impegnarsi di più a dare una mano in casa o a prendersi cura degli altri – il diffuso senso di inutilità attualmente riscontrato nei sondaggi tra gli studenti delle superiori potrebbe cominciare a sparire. Sarebbe un errore trascurare questa quarta norma. Se i genitori non sostituiscono il tempo trascorso davanti a uno schermo con esperienze del mondo reale che coinvolgono amici e attività indipendenti, vietare l’uso dei dispositivi sembrerà solo una privazione, non l’apertura di un mondo di opportunità.

Basta collaborare

Il motivo principale per cui un’infanzia incentrata sul telefono è così dannosa è perché esclude tutto il resto. Gli smart­phone impediscono di fare esperienze. Il nostro obiettivo finale non dovrebbe essere rimuovere completamente gli schermi, ma creare una versione dell’infanzia e dell’adolescenza che mantenga i giovani ancorati al mondo reale con i vantaggi dell’era digitale.

Una funzione essenziale dello stato è risolvere i problemi di azione collettiva. Negli Stati Uniti il congresso potrebbe, per esempio, portare a 16 anni l’età in cui si è considerati abbastanza adulti per internet, e potrebbe imporre alle aziende tecnologiche di tenere lontani i minori dai loro siti. Ma negli ultimi decenni il congresso non ha affrontato le preoccupazioni dei cittadini perché le soluzioni avrebbero scontentato un’industria ricca e potente. La verità, quindi, è che gli statunitensi dovranno fare la maggior parte del lavoro da soli, nei gruppi di quartiere, nelle scuole e in altri tipi di comunità. L’infanzia incentrata sul telefono non è inevitabile. Si può cominciare subito, soprattutto dove c’è una buona collaborazione tra scuole e genitori. Basterebbe una circolare scolastica che chiede ai genitori di ritardare il momento in cui i figli potranno usare lo smartphone e i social media, spiegando che questo aiuterebbe la scuola a tutelare la salute mentale dei ragazzi. Un’iniziativa simile catalizzerebbe l’azione collettiva e ripristinerebbe le norme della comunità.

All’inizio degli anni dieci non sapevamo cosa stavamo facendo. Ora lo sappiamo. È il momento di agire. ◆ bt

Paura delle novità

◆ Da sempre le nuove tecnologie generano un’ingiustificata diffidenza o paura, racconta il giornalista statunitense Larry Magid, fondatore dell’organizzazione non profit ConnectSafely.org. È un atteggiamento che gli statunitensi chiamano moral panic e che nella storia si può far risalire all’invenzione della scrittura. Nel corso dei secoli ha poi colpito la stampa, il telegrafo, il treno, la macchina da cucire, la radio e perfino il cercapersone, ricorda Louis Anslow su Pessimists Archi v e. Nella prima metà dell’ottocento la velocità dei treni (35 chilometri orari) preoccupava per la rapidità con cui scorrevano i paesaggi e la rivista medica The Lancet scriveva che “la rapidità e la varietà delle impressioni inevitabilmente affaticano gli occhi e il cervello”. Negli stessi anni , scrive Slate, l’avvento della stampa economica suscitò il timore, specialmente tra i genitori della classe media, che l’abbondanza di libri a buon mercato avrebbe spinto i bambini verso una vita di crimini e violenza.


Questo articolo è uscito sul mensile statunitense The Atlantic ed è un adattamento dal libro di Jonathan Haidt The anxious generation (Penguin Press 2024). Inoltre si può ascoltare podcast di Internazionale In copertina. Disponibile ogni venerdì nella nuova app di Internazionale e su internazionale.it/podcast.

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Questo articolo è uscito sul numero 1561 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati