Sarah è una ragazza britannica di poco più di vent’anni. Per affrontare un momento faticoso della vita decide di seguire il consiglio del suo medico e prova a fare meditazione. S’iscrive a un ritiro di vipassanā, un’antica tecnica indiana che impone di stare in completo silenzio in compagnia di maestri e completi sconosciuti per una decina di giorni, ascoltando solo le parole registrate del fondatore della disciplina, il maestro Satya Narayan Goenka. Sarah scopre presto che la costrizione al silenzio genera in lei uno stato d’insonnia irreversibile, accompagnata da pensieri persecutori che nel giro di pochi mesi la portano a un completo distacco dalla realtà. La stessa sorte dopo pochi mesi tocca a sua sorella Emily e a centinaia di altri frequentatori di questi ritiri. Questo tipo di meditazione è offerta, insieme ad altre pratiche definite genericamente come “orientali”, come soluzione allo stress derivante dallo stile di vita occidentale contemporaneo. Spesso, però, come spiega questo podcast del quotidiano britannico Financial Times, si tratta di pratiche rielaborate in un’ottica coloniale e le persone che le frequentano, e le pagano profumatamente, non hanno gli anticorpi culturali per poterle assimilare. L’effetto è che per molti quello che avrebbe dovuto guarire, in assenza di conoscenze mediche e di un monitoraggio adeguato, diventa fonte di nuove patologie. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1550 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati