Vivere a Dushanbe spesso significa riscoprire la città giorno per giorno come se ci tornassi dopo anni di assenza. Vai all’ufficio postale del quartiere e scopri che lo stanno demolendo. Vai al tuo secondo fast-food preferito – il primo l’hanno abbattuto qualche settimana fa – e lo trovi circondato dalla recinzione verde che è ormai diventata sinonimo di sfratto.
Negli innumerevoli cantieri della città, la Stalinabad sovietica si sta definitivamente trasformando nella moderna Dushanbe. I palazzetti progettati dagli architetti russi nel novecento sono soppiantati dai grattacieli e le pittoresche strade alberate cedono il passo a viali maestosi. Questi cambiamenti hanno diviso l’opinione pubblica, suscitando appelli nostalgici per la tutela del patrimonio architettonico e timori più concreti sui costi sociali e ambientali del rinnovamento.
A quanto pare a Dushanbe un elenco dei monumenti e degli edifici protetti esiste. Ma nel febbraio 2022 comprendeva solo dodici palazzi. Intanto la lista dei luoghi storici rasi al suolo continua ad allungarsi, e i vecchi edifici rimasti in piedi paiono aspettare il loro turno.
Il prossimo bersaglio
Dushanbe era la città sovietica per antonomasia. Nel 1929, quando l’Unione Sovietica separò il Tagikistan dall’Uzbekistan e ne fece una repubblica autonoma, la sua capitale era un villaggio con meno di seimila abitanti, nota soprattutto per il mercato del lunedì (il nome Dushanbe deriva dalla parola persiana per lunedì). Le autorità la intitolarono subito a Stalin e inviarono esperti da Mosca e Leningrado per trasformarla in una metropoli.
Dagli anni trenta del novecento diversi architetti russi cercarono di dare a Stalinabad un volto sovietico e moderno, rifacendosi allo stile “neoclassico” di Leningrado. Oggi del villaggio presovietico non restano tracce: l’edificio più antico della città ha meno di cent’anni.
A Dushanbe spesso si diffondono voci sugli edifici che le istituzioni hanno deciso di demolire. Nel 2022 si è parlato della Scuola n. 1 (costruita nel 1932) e, più di recente, della sala da tè Rokhat, un’istituzione che da decenni accoglie turisti e residenti. In entrambi i casi inizialmente le autorità hanno smentito le voci. Ma è sempre questo l’iter delle demolizioni: il passaparola precede l’annuncio ufficiale, che arriva solo all’ultimo momento, lasciando agli attivisti poco tempo per opporsi. In ogni modo, quando sono stati distrutti i palazzi vicini, il Rokhat è stato risparmiato. I suoi clienti sono convinti che sia intoccabile: “Finché vivrò, nessuno demolirà il Rokhat”, ci ha detto un uomo di 75 anni, frequentatore abituale. “Non lo permetteremo,” ha aggiunto il suo vicino.
Ma a dispetto delle proteste, le autorità hanno dimostrato ben poco attaccamento per l’architettura sovietica della città. Dal 2015 i più celebri edifici di Dushanbe sono scomparsi uno dopo l’altro, facendo largo a nuovi palazzi amministrativi o a infrastrutture per il traffico. “In Tagikistan l’idea di ‘patrimonio’ è diversa da quella che abbiamo in occidente”, spiega Paul Wolkenstein, studioso dell’architettura sovietica. “In alcuni paesi anche i palazzi degli anni settanta possono essere considerati beni da proteggere. In Tagikistan no: il valore di un edificio dipende solo da quanti anni ha”.
Anche l’elenco delle architetture protette è soggetto a continue revisioni. Secondo i giornali, l’ex palazzo presidenziale – una struttura neoclassica costruita nel 1957 per ospitare la sede del Partito comunista tagico – nel 2016 ancora figurava nella lista, ma è stato cancellato nel 2020, quando le autorità hanno deciso di abbatterlo. Il provvedimento ha innescato dibattiti e polemiche, perché molti chiedevano che l’edificio fosse salvato cambiandone la destinazione d’uso. “È quantomeno disonesto sostenere che il palazzo abbia esaurito la sua utilità. Non è vero. Date un’occhiata al suo rivestimento di granito e alla sua splendida architettura. Salvaguardare la nostra storia è importantissimo”, aveva detto lo storico Gafur Shermatov poco prima della demolizione.
Per molti cittadini, tuttavia, i palazzi sovietici non sono necessariamente un bene da tutelare. “In Tagikistan c’è chi difende il patrimonio sovietico, ma se consideriamo cosa sta succedendo in Ucraina, mi pare evidente che la questione debba essere inquadrata in un’altra prospettiva”, sostiene Tahmina Inoyatova, una ricercatrice che studia l’intreccio di identità, potere e spazio urbano in Tagikistan. “Perché dovremmo tutelare e conservare le costruzioni sovietiche? E perché i palazzi progettati dai russi sorgono proprio qui, in Tagikistan? Ci sono questioni più profonde su cui interrogarsi”.
“Nei paesi vicini, come il Kirghizistan e il Kazakistan, la società civile e gli appassionati di storia si mobilitano per impedire le demolizioni. È un movimento che sta nascendo anche in Uzbekistan. Ma in Tagikistan a volte perfino gli architetti ancora in vita che vedono le loro opere distrutte sono d’accordo con la decisione delle autorità”, dice Wolkenstein.
Shermatov non è certo il solo a credere che le costruzioni di epoca sovietica abbiano un valore storico, ma per la maggior parte dei tagichi la prima preoccupazione è la sorte della loro casa. Negli ultimi anni a Dushanbe c’è stato un boom immobiliare che ha provocato sfratti forzosi e demolizioni illegali. Le autorità affermano che la rigenerazione urbana segue un piano generale, ma i documenti rimangono segreti. “Tutti conoscono qualcuno che è stato costretto a traslocare”, racconta un diciassettenne che ha chiesto di restare anonimo, e prosegue elencando i conoscenti che negli ultimi anni si sono visti radere al suolo la casa. “Basta fare una passeggiata di sera sulla Ayni (una delle strade principali della città). A ogni angolo incontrerete persone che sono state sfrattate e poi trasferite”.
Distruggere e ricollocare
Le demolizioni sono molto discusse, ma la gente spesso evita di protestare troppo energicamente. Almeno due attivisti che si erano impegnati su questo fronte sono finiti in carcere: il giornalista Daler Bobiev, che nel suo canale YouTube aveva parlato delle demolizioni illegali di alloggi e di altre questioni sociali, e l’avvocato Abdulmajid Rizoev, rappresentante di un gruppo di abitanti di Dushanbe che si opponevano all’abbattimento delle loro case. Rizoev è stato rilasciato a maggio del 2023, mentre dal 2022 Bobiev sta scontando una condanna a dieci anni di carcere.
Tuttavia, come racconta Tahmina Inoyatova, c’è anche chi non ha rinunciato a lottare: “C’è uno stereotipo che affligge l’Asia centrale, e cioè che la gente non protesta mai. Non è così. Se parlate con chi si oppone alle demolizioni, vi renderete conto che sono persone capaci di farsi sentire”. Qualcuno è riuscito a negoziare un risarcimento con gli immobiliaristi privati, ma altri sono stati costretti a ricorrere ai tribunali. Inoyatova dice che, malgrado gli esiti siano contrastanti, ci sono state delle vittorie. “Non riescono quasi mai a salvare la casa, ma almeno ottengono condizioni più favorevoli: per esempio migliori appartamenti sostitutivi”, spiega.
Per quelli che raggiungono un accordo con i costruttori, le procedure per ottenere un altro alloggio possono durare mesi o addirittura anni. In alcuni casi la costruzione dei nuovi palazzi si arena per scandali di corruzione, mentre in altri si scoprono problemi strutturali o amministrativi. In più c’è il fatto che molte nuove residenze sono troppo costose. Secondo l’agenzia di stampa Asia-Plus, nel 2022 il prezzo di un appartamento nuovo a Dushanbe andava dai 450 ai mille dollari al metro quadrato. Nel paese il salario medio mensile è inferiore a duecento dollari.
La scarsa qualità dei lavori di costruzione e il mancato rispetto delle normative edilizie hanno spinto molti abitanti di Dushanbe a diffidare dei nuovi complessi residenziali. E la lunga storia dei disastri naturali che hanno colpito il paese contribuisce ad alimentare il timore che i nuovi edifici non siano sicuri. Dushanbe si trova in una zona a elevato rischio sismico, perciò le autorità spesso si appellano al rispetto degli standard antisismici per giustificare gli abbattimenti. Ma dal momento che i costruttori hanno sostituito le palazzine di epoca sovietica con palazzi molto più alti, i cittadini rimangono molto scettici. “La gente dice spesso che una volta ci voleva molto più tempo per gettare le fondamenta di un palazzo. Oggi le tecnologie sono molto più avanzate che in epoca sovietica, ma molti non si fidano della rapidità perché credono che sia sinonimo di pessima qualità”, dice Inoyatova.
Dopo i terremoti avvenuti in Turchia e in Siria nel febbraio 2023, il direttore del comitato di Dushanbe per l’architettura e la costruzione, Nizom Mirzozoda, ha affermato che i palazzi della capitale possono resistere a scosse di magnitudo fino a nove gradi. I due terremoti che hanno colpito il nord del paese nel marzo del 2023, con una potenza non superiore ai sei gradi, sono stati avvertiti anche in città. Non hanno prodotto danni, ma la popolazione ha cominciato a preoccuparsi.
Il costo della bolla
Il boom edilizio sta rendendo meno sicura Dushanbe anche sotto altri aspetti, spesso legati alla crisi climatica. L’estate del 2023 è stata la più calda mai registrata sul pianeta; a Dushanbe la temperatura si è mantenuta tra i 35 e i 40 gradi, con seri rischi per la salute degli abitanti. Per di più, la desertificazione di alcune zone dei paesi vicini, come l’Uzbekistan e l’Afghanistan, ha provocato un aumento delle tempeste di sabbia.
Nella capitale tagica vengono sistematicamente superati i limiti di sicurezza per l’inquinamento dell’aria, e i nuovi grattacieli ridurranno ulteriormente la ventilazione. In questo modo in città si creano delle sacche dove la qualità dell’aria è particolarmente scarsa. L’onnipresenza dei cantieri produce inoltre grandi quantità di polvere. Un tempo le strade alberate della capitale rendevano più tollerabile l’afa estiva. Secondo lo storico Shermatov, l’architetto sovietico Pëtr Vaulin, direttore della squadra che progettò il piano urbanistico della città, ammirava Le Corbusier e voleva realizzare la sua idea di “città verde”. La botanica Vera Zaprjagaeva curò il progetto fino alla fine degli anni cinquanta, piantando alberi e preservando gli spazi verdi in tutta Dushanbe. Anche se nel centro i giardini sopravvivono, lungo i nuovi viali il verde è assente. Demolire i palazzi residenziali di epoca sovietica ha significato anche abbattere gli alberi più vecchi in uno dei principali parchi della città. In alcuni punti sono stati piantumati dei giovani alberi, ma ci vorranno decenni prima che possano offrire frescura. Nel 2022 in Tagikistan sono stati costruiti immobili residenziali per 1,75 milioni di metri quadrati contro gli 1,43 milioni dell’anno precedente. Con i cantieri che sembrano spuntare a ogni angolo di strada e i rumori dei lavori che proseguono perfino di notte, il ritmo del rinnovamento non accenna a rallentare.
A Dushanbe le autorità hanno approvato nuove norme antisismiche, ma la gente continua a considerare corrotto l’intero settore immobiliare, e crede che gli unici interessi tutelati siano quelli degli imprenditori. “Quando sai come funzionano queste società, non solo in Tagikistan ma in tutta l’Asia centrale e altrove, ti rendi conto di quanto siano diffuse la corruzione e le tangenti. Non è un problema tagico, ma globale”, accusa Inoyatova. Perfino il sindaco di Dushanbe, Rustam Emomali, ha invocato controlli più severi. Figlio del presidente Emomali Rahmon, che l’ha nominato alla guida della capitale nel 2017, Emomali ha puntato molto sulla trasformazione della città. “Il processo di rinnovamento è associato alla sua immagine. Se n’è assunto la responsabilità davanti ai cittadini dicendo: ‘Se avete problemi, rivolgetevi a me’”, spiega Inoyatova.
In effetti, il giovane sindaco sembra essersi preso a cuore la sicurezza delle costruzioni, al punto da mettere direttamente in gioco la sua reputazione. Molti già immaginano che presto possa subentrare al padre nella carica di presidente.
Anche le risorse finanziarie per i piani edilizi del governo hanno sollevato critiche, soprattutto considerato che il Tagikistan è il paese più povero dell’Asia centrale. Alcuni progetti hanno potuto contare su finanziamenti stranieri, come la costruzione della più grande moschea del paese, un’impresa decennale costata cento milioni di dollari, provenienti per il 70 per cento dal Qatar.
La Cina è un’importante fonte di crediti e investimenti per il governo tagico, ma i dettagli degli accordi non sono pubblici. Pechino, inoltre, ha garantito al Tagikistan un pacchetto di aiuti a fondo perduto che comprende 350 milioni di dollari per finanziare la costruzione del nuovo complesso del parlamento e degli uffici governativi sul sito dell’ex palazzo presidenziale. Il nuovo complesso – un vasto gruppo di palazzi di tredici-quindici piani – dovrebbe essere ultimato nel 2024. ◆ gc
◆ Il Tagikistan è uno stato dell’Asia centrale, grande più o meno la metà dell’Italia e con circa 9,9 milioni di abitanti. La maggioranza della popolazione è di etnia e lingua tagica, di origine indoeuropea e iranica. Ex repubblica dell’Unione Sovietica, il Tagikistan è diventato indipendente nel 1991 e dal 1994 è governato con metodi autoritari dal presidente Emomali Rahmon. La religione più diffusa è l’islam sunnita (professato da circa il 97 per cento della popolazione). Nel corso degli anni nel paese sono state attive diverse sigle dell’estremismo islamico, ma oggi il gruppo con più seguaci è l’Isis K, cioè Stato islamico della provincia del Khorasan, a cui appartenevano i terroristi responsabili dell’attentato del 22 marzo alla sala da concerto Crocus city hall di Mosca, costato la vita a 145 persone. Reuters
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1560 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati