A separare l’azzurro del lago da quello del cielo c’è solo una linea scura di montagne con le cime innevate. Il lago Son-Kul è tremila metri sopra il livello del mare. A poca distanza c’è il villaggio in cui abbiamo dormito. Le stufe delle iurte sono ancora fumanti e hanno tenuto a bada il freddo di una notte piena di stelle.
Un bambino del villaggio va in bicicletta e passa accanto ad altre bici appoggiate in terra fuori delle iurte. Poco dopo il nostro gruppo, composto da dieci persone, tira su le sue bici e si prepara per un viaggio di 330 chilometri verso est lungo le strade secondarie del Kirghizistan. È un trekking di una settimana attraverso le montagne del Tien Shan, che ci porterà al lago Ysyk-Köl, il più grande del paese. Raddrizziamo i manubri, fissiamo le borse ai telai e stringiamo anche i bulloni. Con gli urti e le vibrazioni qualcuno si perderà, prima che tutto si adatti ai sentieri sterrati e alle strade di ghiaia.
Ci addentriamo in un altopiano erboso, seguendo un sentiero percorribile anche dalle auto. Accanto a noi galoppano dei cavalli allo stato brado, spaventati dalle strane creature su due ruote che si muovono al loro fianco. Un londinese al debutto con la sua nuova bici si gira verso i cavalli e dice a bassa voce sorridendo: “Non servono molti soldi per essere felici. Basta una bicicletta”.
Dopo una leggera salita scendiamo da un pendio noto come passo dei trentatré pappagalli. Non capisco perché si chiami così, visto che c’è ben poco che faccia pensare agli uccelli. È un’implacabile sequenza di tornanti che scende in una grande valle. La strada è fatta di ghiaia. Mentre vado a velocità sostenuta vedo all’ultimo momento una pietra davanti a me, la bici sobbalza e il piede esce fuori dal pedale. Barcollo ma rimango in piedi, ricordandomi del confine sottile che c’è tra il controllo e l’assenza di controllo.
Simboli consumistici
Percorriamo tra i cinquanta e i cento chilometri al giorno, attraversando un paesaggio fatto di ampi spazi, valli selvagge e colline. Ogni tanto incontriamo piccoli insediamenti di iurte bianche che sembrano nuvole su un infinito cielo d’erba. Una mattina, dopo aver percorso cinquanta chilometri di asfalto, arriviamo a un incrocio grande abbastanza per ospitare un negozio e un’antenna telefonica. Il resto del viaggio si svolge lontano da questi inebrianti simboli consumistici. A volte i venditori di strada offrono la bevanda nazionale, il kymyz, fatta con latte di cavallo fermentato. Il suo sapore robusto la fa sembrare più forte di quanto non sia (il suo grado alcolico è del due per cento).
Non lo sollevano abbastanza, facendolo sbattere contro il bracciolo del sedile
Spesso passiamo accanto a bambini che cavalcano da esperti, a volte badando anche al bestiame. La loro sella è poco di più di un cuscinetto e le staffe sono di corda. Incontriamo mandrie di capre, mucche e cavalli. Un pomeriggio vediamo un grande uccello che volteggia sopra di noi e ci chiediamo se sia una delle aquile dell’Asia centrale o una più prosaica poiana. Sulla ghiaia la nostra andatura è così lenta che l’uccello, qualunque sia, potrebbe facilmente scendere in picchiata e afferrare uno di noi.
Dopo la quarta giornata di viaggio, vengono prese dal veicolo di supporto una bottiglia di gin e una di acqua tonica: un’interpretazione piacevolmente ampia del termine “supporto”. Ci sono anche delle fettine di cetriolo. Mangiamo e beviamo seduti accanto a un ruscello. La persona incaricata di trasportare gli alimenti e l’attrezzatura da campeggio è Alec, un uzbeco con un sorriso che lascia intravedere i denti d’oro, vestito sempre con una tuta Nike. La sua jeep ci segue da vicino in caso di emergenze o forature. Eventualità che per fortuna non si verificheranno mai. Durante la salita verso il passo Tosor, che a 3.900 metri è il punto più alto dell’itinerario, la jeep supera diversi punti in cui parte della strada è crollata, mentre noi trasportiamo a spalla le bici superando le rocce, immersi nell’acqua gelida fino alle caviglie.
Una sera Alec decide di preparare il plov nella sua gigantesca padella di ferro, il kazan, appoggiata sul fuoco. Scettico sulla possibilità di preparare come si deve questo famoso piatto a base di riso non avendo né carne né brodo – e sconcertato dalle diete vegane che gli impongono tali restrizioni –, affonda quattro bulbi d’aglio interi, con tutta la buccia, in un insieme di riso, carote e ceci che bollono.
Il viaggio è pieno di comfort, ma non è facile: dopo una settimana in sella alla bici, il miglioramento della condizione fisica va di pari passo con l’aumento della fatica. A nessuno dei ciclisti interessa pedalare al limite delle sue possibilità. Ognuno ha il suo ritmo, che a volte corrisponde a quello degli altri e a volte no. Così il gruppo procede sereno.
Nonostante l’aria di montagna e i grandi spazi, il Kirghizistan non è una fuga totale dal resto del mondo. Alcuni abitanti sono preoccupati che l’Arabia Saudita paghi la costruzione di nuove moschee, favorendo un’interpretazione dell’islam più conservatrice di quella che c’è qui ora. Inoltre, la strada che stiamo percorrendo passa a poche centinaia di chilometri dal valico di frontiera di Khorgos, tra Kazakistan e Cina, dove una volta ho aspettato un fine settimana intero che i sonnolenti agenti aprissero ai camion in coda. Adesso il valico è un ampio terminal per i container, considerato dalla Cina un nodo chiave della nuova via della seta. In Kirghizistan il denaro cinese ha migliorato alcune autostrade, e sono stati avviati dei progetti per rendere più efficienti i collegamenti ferroviari.
Sorgente calda
Sui telefoni abbiamo un’app con l’itinerario e li carichiamo con dei tappeti solari o con delle dinamo. Chi conosce meglio di tutti l’itinerario è Nelson Trees, un mountain biker mezzo britannico e mezzo francese che vive a Bişkek. Trees è anche il direttore della Silk road mountain race (la gara di montagna della via della seta), un itinerario lungo 1.900 chilometri e più impegnativo del nostro. Per non demoralizzare nessuno, Trees aspetta gli ultimi giorni per dirci, ridendo, che la distanza totale che avremo percorso è più o meno la stessa che i ciclisti vincitori della sua gara coprono in un giorno.
Avendo esplorato gran parte del Kirghizistan per ideare sia la gara sia la nostra più umile spedizione, Trees mostra spesso un piacere da curatore osservando la nostra reazione al percorso. Prova chiaramente gusto quando si profila all’orizzonte la superficie piatta di una strada che giudica impegnativa ma non troppo.
Il penultimo giorno facciamo una sosta prima del solito, all’inizio di una salita lunga quaranta chilometri, vicino a una capanna di pietra e cemento costruita su una roccia dove c’è una sorgente calda. C’immergiamo tutti nell’acqua quasi bollente, inalando zaffate di zolfo, per poi tuffarci nel torrente vicino alimentato dalla neve che si scioglie. Il dolore delle escoriazioni e dei calli provocati dalla pedalata in bici cominciano ad alleviarsi. Come spesso succede, ci accampiamo accanto al fiume, dove laviamo le pentole e filtriamo l’acqua che berremo il mattino seguente. Questi intermezzi danno all’esperienza un tono conviviale che contrasta con l’idea austera dell’avventura. Colgo solo uno scambio di occhiate leggermente deluso tra Trees e la guida Pannier quando, mancando una bombola da campeggio, siamo costretti a passare una mattinata senza il caffè.
Solo l’ultimo giorno abbandoniamo le montagne, dopo aver spinto le nostre biciclette per un chilometro. Scendendo per due ore, passando dalla neve alle nuvole e poi al cielo limpido, ci accorgiamo che i molti chilometri alle spalle hanno affinato la nostra capacità d’individuare la traiettoria giusta per fare la curva perfetta, nonostante lo strato di polvere, ghiaia e rocce sul sentiero. Il tetto a cupola dell’antica moschea scorre di sfuggita davanti alle nostre bici che sobbalzano.
È un aspetto tipico del Kirghizistan quello di andare in discesa per ore, nel nostro caso verso le rive del lago Ysyk-Köl, e finire la pedalata comunque a 1.600 metri sopra il livello del mare. Ysyk-Köl significa “lago caldo” e ha questo nome perché, a causa della salinità dell’acqua, d’inverno non congela, a differenza di molti altri laghi della regione. Arrivando qui a fine giugno il problema non si pone.
Il sole splende, il lago è color zaffiro e il cielo cobalto. Prima di arrivare al lago camminiamo su una spiaggia sabbiosa. Entriamo in acqua. Non è calda, ma è una bella sensazione. ◆ ff
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Questo articolo è uscito sul numero 1478 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati