I miei genitori si sono sempre definiti cinesi e basta. Neanche cinesi-statunitensi, e questo nonostante mia madre non abbia mai messo piede nella Cina continentale. Vivono nel New Hampshire rurale da più di vent’anni e non riesco a ricordare tutte le volte che, incontrando un vicino o un conoscente curioso di conoscere le loro origini, mio padre abbia risposto con enfasi: “Siamo cinesi, di Taiwan”.
“Ah, interessante”, commentava qualcuno. “Allora secondo lei Taiwan fa parte della Cina?”.
“Non proprio”, diceva. “È una situazione complicata”.
Negli Stati Uniti mio padre progetta macchinari per fabbricare semiconduttori, e nel frattempo la Taiwan che si è lasciato alle spalle è diventata leader mondiale del settore: produce i microchip usati nei telefoni e in ogni tipo di prodotto elettronico.
A 64 anni compiuti, mio padre ha vissuto due terzi della sua vita da cittadino naturalizzato statunitense. È nato in quello che oggi è il parco nazionale di Yangmingshan, sulla punta settentrionale dell’Isola di Taiwan. Nonostante l’evidente gentrificazione – nel 2018 è stato inaugurato uno Starbucks – è ancora considerata campagna. La famiglia di mio padre è vissuta in un periodo di povertà estrema, negli anni in cui il nuovo paese stava ancora gettando le fondamenta.
Da bambina, quando andavo a trovare i parenti, alloggiavamo nella baracca di due stanze dove mio padre era cresciuto insieme ad altri quattro fratelli. Che tante persone abbiano potuto trascorrere l’infanzia e l’adolescenza stipate in così poco spazio mi sembra ancora inconcepibile. Quella casetta è sopravvissuta a una famiglia di sette persone per quasi sessant’anni prima di essere demolita dopo la morte di mia nonna. Nel parco del quartiere guardavo oziare i vecchi su tronchi d’albero contorti e rinsecchiti, con la corteccia che luccicava a contatto con la pelle.
La Cina continentale era in macerie. Chiang Kai-shek, il leader dei nazionalisti, si ritirò a Taiwan e chi lo seguì diventò un rifugiato
Nel 2019 sono tornata a rendere omaggio a quel lotto di terra insieme al mio sanbo, il terzo dei fratelli maggiori di mio padre. L’area era brulla, coperta di erbacce che ondeggiavano nella brezza. Non rappresenta più nulla per chi non sa cosa c’era prima. Dopo la visita siamo andati in un ristorante lì vicino, per mangiare una zuppa di polpette di pesce alla cantonese e del tofu puzzolente. Il proprietario, che era cresciuto insieme alla nostra famiglia, ha chiacchierato con sanbo e chiesto notizie di mio padre. Il suo locale senza fronzoli era rimasto pressoché immutato: una friggitrice gorgogliante e grandi bacinelle di plastica colorata piene di piatti sporchi in fila su un bancone.
Taiwan è una democrazia relativamente giovane, ma il passato recente sta già diventando obsoleto. Cercando di capire meglio la realtà dell’isola e scoprendo di più sulla storia della mia famiglia, mi sono resa conto che mio padre e i suoi fratelli appartengono a una generazione unica: il modo in cui vedono Taiwan vive e morirà con loro.
Il cammino di yeye
Non ho mai conosciuto il mio yeye, il mio nonno paterno. Nato nel 1910 a Guangzhou, nella Cina meridionale, la sua vita è stata scandita dalle esigenze e dai fallimenti del suo paese. Quando scoppiò la seconda guerra sino-giapponese nel 1937, yeye aderì al Kangda, l’università politica e militare antigiapponese, di fatto un campo di addestramento per i guerriglieri del Partito comunista cinese (Pcc). Il Pcc approfittò del caos del conflitto per portare avanti i suoi piani, assediando l’Esercito nazionale mentre resisteva all’occupazione delle truppe giapponesi. Sei mesi dopo yeye scappò nella città della Cina centrale di Xi’an, dove si unì ai nazionalisti e combatté al loro fianco per otto anni.
Verso la fine della guerra civile yeye era arrivato ancora più a nord, in Manciuria, dove conobbe nainai, mia nonna, prima di riparare a Taiwan, la Repubblica di Cina, insieme ad altri 1,2 milioni di cinesi. La loro fuga durò sette anni e non fu un viaggio facile. Si fermarono a Shanghai, a Macao e infine a Hong Kong. Qui per qualche mese nainai dovette cavarsela da sola con un figlio appena nato, mentre yeye cercava disperatamente di imbarcarsi per Taiwan. Un parente che viveva in città rifiutò di aiutarla e mia nonna finì per strada. Nainai non parlava cantonese, il suo aspetto era tipicamente settentrionale, quindi trovare un passaggio in barca fu un’impresa ardua. La respinsero diverse volte. Alla fine riuscì a intrufolarsi a bordo di una nave dopo essersi travestita come meglio poteva. Ebbe un colpo di fortuna e una buona dose di sangue freddo.
Il paese era in macerie. Chiang Kai-shek, presidente della Repubblica di Cina, si ritirò a Taiwan con l’esercito del Kuomintang e chi lo seguì diventò un rifugiato. Dall’esilio, Chiang Kai-shek continuò a sostenere che il suo governo era l’unico legittimo, e che un giorno avrebbe riconquistato la Cina continentale. Temendo l’invasione del Pcc e le sue ingerenze politiche, proclamò la legge marziale vietando la formazione di partiti d’opposizione: l’isola era la sua ultima roccaforte.
Il sogno di Chiang Kai-shek richiedeva sacrifici ai suoi cittadini. Yeye soffrì durante gli anni dell’autoritarismo e la sua breve militanza nel Kangda lo avrebbe ossessionato per il resto dei suoi giorni. Sospettava che l’intelligence di Chiang Kai-shek fosse a conoscenza dei suoi brevi trascorsi nel Pcc. Fu un padre casalingo molto prima che una cosa simile diventasse relativamente normale. Tutti i suoi figli ricordano con affetto la sua abilità nel trasformare qualunque cibo avesse a disposizione in un piatto speciale: “Come una magia”, ricorda sanbo. E concordano anche sul fatto che le ragioni della sua paranoia, per quanto non dimostrabili, fossero almeno plausibili.
Gli anni sotto il regime di repressione alla fine presentarono il conto. L’ultimo periodo della vita di yeye fu tumultuoso. Soffriva di allucinazioni, in cui veniva seguito e catturato dagli agenti della sicurezza nazionale impegnati in operazioni antispionaggio. I farmaci ridussero quell’uomo loquace ed estroverso a una sorta di zombi. Non si riprese mai completamente e morì nel 1991.
Mio padre, emigrato negli Stati Uniti quasi dieci anni prima, era in contatto con mio nonno ma non poteva prendersi cura di lui. Non era pronto alla morte di yeye. Erano sempre stati molto vicini e mio padre credeva che sarebbe riuscito a tornare a Taiwan prima della sua morte. Ricevere la notizia al telefono fu un duro colpo.
La patria ideale
Yeye non si lamentava mai. Non si lamentavano neanche i suoi figli. Il loro patriottismo per la Repubblica di Cina non poteva essere piegato. La loro lealtà si radicava in un sentimento di giustizia e al tempo stesso di nostalgia. I rifugiati di Taiwan avevano impresso nei loro figli l’aspirazione a una patria irraggiungibile: una Cina inafferrabile e unita. È un insegnamento che le persone come mio padre portano scolpito nel cuore. Il resto del mondo ha una memoria molto più breve.
Nel 1971 la Repubblica popolare cinese fu riconosciuta dalle Nazioni Unite come l’unica Cina, al posto di Taiwan. Ma l’isola preservò l’essenza della cultura della nazione, come per esempio i caratteri di scrittura tradizionali invece del sistema semplificato. Ma i cittadini di Taiwan ricevettero un’identità surrogata quando le Nazioni Unite si dichiararono fedeli a Pechino voltando le spalle a Taipei. Fu allora che la definizione di cinese fu trasferita dalla Repubblica di Cina a quella popolare governata dal Pcc. Eppure, la maggioranza degli appartenenti alla generazione dei miei genitori, rifugiati o nati a Taiwan, per tutta la vita si è definita cinese, non taiwanese.
È stato così fino agli anni novanta, fino a quando il Pcc ha iniziato a manovrare con la complicità del Partito progressista democratico (Ppd, il principale partito del movimento indipendentista di Taiwan) per minare l’identità cinese a Taiwan. “Chi si allineava con il Ppd riceveva benefici politici ed economici”, dice mio padre alludendo a una società petrolchimica il cui presidente, noto sostenitore del Pdp, beneficiava anche degli accordi esclusivi stretti con il Pcc che gli permettevano di fare affari nella Cina continentale.
Allo stesso tempo, il Ppd cercò di delegittimare il quadro nazionalista che Chiang Kai-shek aveva fortemente voluto. I leader del partito sostenevano che Chiang Kai-shek aveva sottratto illegalmente l’isola al controllo del Giappone, incoraggiando il popolo a rigettare la costituzione della Repubblica di Cina e quindi l’origine stessa della Taiwan moderna.
Assistere a tutto questo da lontano rendeva mio padre ansioso, deluso e disilluso. Nel 1991, Frontline, un programma di attualità statunitense, fece un documentario sul Partito nazionalista di Taiwan. “Si chiedevano se la repressione della libertà politica messa in atto da Chiang Kai-shek ‘fosse valsa la pena’”, racconta incredulo. “E la cosa peggiore è che sembravano avere una risposta chiara in merito: no, non era valsa la pena. Mi ribolliva il sangue. È un’assoluta sciocchezza! Chi sei per trarre questa conclusione al nostro posto?”. Ricorda di averne discusso con un collega malese. Erano d’accordo che era una tesi ridicola, ma del tutto in linea con quel tratto di arroganza tipicamente statunitense e con la loro ossessione per la democrazia.
Una nuova percezione
La generazione di mio padre si sta rendendo conto che considerarsi cinesi è sempre più complicato, soprattutto per chi vive negli Stati Uniti. Le connotazioni legate a questa identità sono cambiate rispetto a cinquant’anni fa. Negli ultimi anni il sentimento anticinese negli Stati Uniti è cresciuto – alimentato dalla retorica razzista dell’ex presidente Donald Trump – insieme alle preoccupazioni per la crescita economica della Repubblica popolare. Mio padre si trova in una situazione inedita: è un conservatore, ed è perfettamente consapevole che le sue idee politiche diventeranno sempre meno accettabili man mano che gli Stati Uniti rafforzano la loro posizione filo-taiwanese.
La patria dei giovani è la magnetica Taipei. Non i paesaggi suggestivi della Manciuria o i mercati tradizionali di Guangzhou
“Trent’anni fa, a Taiwan tutti si sentivano cinesi, indipendentemente da dove fossero nati”, mi ha confidato l’estate scorsa mia zia, infermiera al Dana-Farber Hospital di Boston. “Era in linea con il tipo di nazionalismo di Chiang Kai-shek: rifiutare il comunismo ma restare fedeli alla Cina. Oggi, però, sta diventando molto più difficile”, ha aggiunto. “Per la prima volta in vita mia mi sento senza uno Stato. La guerra potrebbe scoppiare in qualunque momento”.
L’unico a vederla diversamente in famiglia è uno zio, il fratellastro di mia madre che vive a Taipei. I suoi genitori non furono personalmente coinvolti nella guerra sino-giapponese, il che probabilmente influisce sulla sua posizione favorevole alla completa indipendenza di Taipei. “Taiwan è già indipendente nei fatti”, mi dice al telefono. “Abbiamo il nostro governo, le nostre forze armate, la nostra moneta. Sono cambiate molte cose dal 1949. Stati Uniti, Giappone e Unione europea hanno meno timore nel mostrare aperto sostegno a Taiwan”.
I suoi quattro figli frequentano il liceo e l’università e sono i tipici rappresentanti della nuova generazione che per molti incarna il movimento indipendentista taiwanese. È l’educazione che hanno ricevuto sui banchi di scuola: la loro patria, e quella dei loro genitori, per loro è semplicemente la magnetica Taipei, non i paesaggi suggestivi della Manciuria, e nemmeno i mercati tradizionali di Guangzhou.
Curiosamente, tra tutte le cose su cui non andiamo d’accordo, a mio padre non importa che da qualche anno io abbia cominciato a definirmi una statunitense-taiwanese. Eppure un tempo rifiutava anche di mettere piede in un locale che pubblicizzasse questa origine, come il Taiwan Café nella Chinatown di Boston. “È solo una rappresentazione più accurata di chi sono”, gli ho spiegato. Dopo tutto, è il luogo in cui sono nati mio padre e mia madre. Considerare come propria la città d’origine dei genitori è una tradizione comune in tutta l’Asia orientale.
Ingenue speranze
I miei si sono trasferiti molte volte. Dalla loro prima casa in affitto a Providence, in Rhode Island, ai sobborghi di Orange County, in California, e poi di nuovo sulla costa orientale, nella Pennsylvania rurale, ai confini con i territori degli amish. Durante gli anni del dottorato, mentre costruiva la sua famiglia, e si prendeva cura dell’orto di casa ogni primavera, mio padre non ha mai trascurato la politica del suo paese d’origine.
E così anche i fantasmi del passato lo seguivano dappertutto. Quando avevo undici anni, ricordo di essere andata a fare spese con lui nel Vermont. Un cinese lo fermò davanti al frigorifero che conteneva aglio e tofu vellutato, chiedendogli se zio Chi-En Cheng, fosse suo fratello. Nel 1995 Chi-En Cheng aveva scritto Leap month of August, 1995, che prevedeva l’invasione di Taiwan per mano della Cina. Nonostante la tenera età, ricordo di essere rimasta sorpresa constatando quanto piccolo fosse il mondo e la sua capacità di generare coincidenze.
L’estate scorsa mi sono inaspettatamente trovata a trascorrere un lungo periodo nella casa dei miei genitori nel New Hampshire. Fa sempre una strana sensazione quando si è adulti. Ero immobilizzata da una frattura al calcagno, perciò non si è trattato della breve, spensierata visita estiva che avevo in mente. È stata un’esperienza ansiogena, che mi ha fatto sentire isolata. Però mi ha dato l’opportunità di ascoltare storie che non mi erano mai state raccontate e di fare domande che non avevo mai pensato di porre.
Nella nostra cucina confrontavamo diverse ricette di kimchi e ho chiesto a mio padre se vivere in un paese che ignorava certe sfumature non lo rattristasse. “Gli statunitensi non mettono nulla sul piatto”, mi ha risposto mescolando una ciotola di salsa piccante con dei peperoncini appena raccolti. “Per loro Taiwan è al massimo una pedina. Quindi è più facile perdonare la loro mancanza d’interesse nel capire davvero la situazione, al di là del rapporto dell’isola con la Cina”.
Sì, ammette mio padre, c’era poca libertà politica a Taiwan durante l’epoca di Chiang Kai-shek, ma la gente allora riconosceva che era necessario per annientare ogni residuo del Pcc. Ancora oggi fatica a criticare l’ex presidente, visto il modo in cui il Ppd ha diffamato la sua memoria. “Guarda i risultati ”, insiste. “Malgrado le avversità e i disordini, Chiang Kai-shek è riuscito a trasformare un paese poverissimo e privo di risorse naturali in una società pacifica e prospera, con cittadini pieni di speranza nel futuro”.
Nel 2019, quando le proteste di Hong Kong contro il disegno di legge sull’estradizione hanno catturato l’attenzione di tutto il mondo, ricordo di essermi molto indispettita con mio padre per la sua mancanza di empatia nei confronti dei manifestanti. Era proprio da lui, pensavo, assumere il ruolo del bastian contrario: credendo di sapere qualcosa che tutti gli altri ignorano. Al contrario del resto del mondo, non riteneva quello “snellimento della burocrazia legale tra Cina e Hong Kong” un’ingiustizia.
Mio padre ha cambiato opinione solo quando il Partito comunista ha fatto marcia indietro sulla dichiarazione congiunta sino-britannica del 1997, che prevedeva la restituzione di Hong Kong a Pechino secondo il principio “un paese, due sistemi”: il sistema democratico della città doveva essere preservato per cinquant’anni. È a quel punto che si è reso conto dell’inaffidabilità del Pcc.
Sono seguite altre epifanie. La pulizia etnica degli uiguri nello Xinjiang, la censura e il controllo sociale soffocanti e, più di recente, i lockdown violenti e disumani riservati ai cittadini di Shanghai per contenere la pandemia hanno fatto svanire quella che mio padre ora ammette essere stata un’ingenua speranza di riunificazione. “Questo non è il paese con cui vorremmo essere riuniti”, ha ammesso. “Sto esaurendo le scuse per difendere la Cina”. Gli ho chiesto se ha ammorbidito la sua posizione nei confronti dei taiwanesi che cercano dichiaratamente di troncare i legami con la Cina. La risposta è stata “sì”. “È un punto di vista perfettamente comprensibile, se ti soffermi solo sui mali del Pcc. Ma non c’è niente di sbagliato nell’aderire all’impianto ideale secondo cui esiste una sola Cina, come riconosciuto per decenni dalle Nazioni Unite”. È normale che le nuove generazioni formino le loro idee politiche considerando il presente come unico punto di riferimento. “Ma quei taiwanesi che si scrollano di dosso il loro vissuto mi sembrano persone che negano la loro stessa storia”, insiste. Mio padre segue ancora la politica di Taiwan dal suo studio al piano di sopra, ricavato durante la pandemia in una stanza da letto vuota. Ha perso un po’ del suo ardore. E quando la speranza viene meno, si ritira per leccarsi le ferite e rimuginare. Gli chiedo se è cambiato il suo modo di identificarsi o, meglio ancora, di vedersi. “No. Resterò sempre cinese”, dice. “È così che mi sono sempre sentito e così mi sentirò fino all’ultimo dei miei giorni. Ma so bene che questo finirà con la mia generazione. Dopo di noi nessuno si dichiarerà cinese con lo stesso orgoglio”. ◆ gc
Kang-Chun Cheng è una fotogiornalista taiwanese-statunitense. Vive a Nairobi.
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Questo articolo è uscito sul numero 1500 di Internazionale, a pagina 64. Compra questo numero | Abbonati