Questa, finalmente, è ossa delle mie ossa e carne della mia carne. Ella sarà chiamata donna perché è stata tratta dall’uomo.
Genesi 2:23

Nel settimo anno del nostro matrimonio, in una fredda giornata di ottobre, mio marito mi ha chiamata in bagno. Era sdraiato nella vasca, immerso fino alla testa, e quando sono entrata si è messo a sedere, facendo schizzare dell’acqua dal bordo. Si è asciugato il viso, senza guardarmi. Da come ha esordito, ho capito che stava per dirmi qualcosa che cercava di confessare da tempo. Guardavo l’acqua lambirgli i fianchi, offuscandolo e dissolvendolo. Dopo dieci anni insieme, il suo corpo mi era così familiare da essere diventato un’estensione del mio. Conoscevo la sensazione di ogni punto su cui posavo lo sguardo: la pelle liscia della spalla, la sorprendente delicatezza delle clavicole, la morbidezza dei capelli castani.

Non me l’ha mai nascosto. Le persone spesso rimangono stupite. Mi chiedono: “Ma tu lo sapevi?”. Immaginano io che entro e lo scopro mentre si guarda in uno specchio a figura intera, vestito con i miei abiti. E poi urla, pianti e denti digrignati. Ma non è andata così. Non appena ha trovato le parole, le ha depositate ai miei piedi.

“Voglio indossare abiti da donna”.

Essendo cresciuta in North Carolina, quasi tutto quello che sapevo sul sesso e sul genere l’avevo imparato in chiesa. Bisognava soprattutto evitare le ragazze che indossavano top senza spalline o troppo scollati e quelle con gli short di jeans. Le ragazze che facevano sesso erano gomme masticate, rose stropicciate, barrette di cioccolato già leccate. I ragazzi erano ragazzi.

Ho imparato una quantità sorprendente di cose sul sesso orale dai numeri di un giornale che era nella biblioteca della chiesa, grazie a una rubrica di consigli a cui scrivevano i genitori preoccupati dei figli adolescenti. Leggevo quei ritagli come se fossero testi sacri, strappando ed esaminando con cura le pagine per comporre un quadro più completo.

Ho conosciuto il mio primo ragazzo in chiesa. Era un giocatore di lacrosse e si era convertito da poco. Non avevamo nulla in comune, a parte il fatto che non riuscivamo a toglierci le mani di dosso, nelle aule di catechismo vuote, nei guardaroba del coro, sugli altari, una volta anche sul battesimale. Abbiamo trascorso ore nel parcheggio buio della chiesa, nel cono di luce del lampione. I gas di scarico per me sanno ancora di baci.

Non era assolutamente come lo raccontavano. Nessuno aveva mai menzionato il fatto che il desiderio ti fa sentire potente. Il modo in cui ti attraversa, risvegliandoti in modi nuovi e sconosciuti. Lui ne era spaventato. Era intrappolato in un circolo vizioso di desiderio, senso di colpa, pentimento e ricaduta. Io ho preso quello che mi è stato offerto e poi ho accettato il senso di colpa per averlo desiderato sopra ogni cosa. Una flagellazione necessaria.

In chiesa ho anche incontrato il mio futuro marito. Avevo diciotto anni. Dopo il liceo, avevo ricevuto una borsa di studio per l’università di Auburn, in Alabama. Era la prima volta che andavo via da casa. Immaginavo di reinventarmi, provando identità immaginarie come figurini su una bambola di carta: la giornalista, l’artista visiva, la scrittrice. Mi vedevo all’estero dopo la laurea, a New York o sulla costa occidentale. Ero pronta a staccarmi dalla mia chiesa e da tutte le sue restrizioni. Ma nel profondo sud l’università richiedeva competenze che io non avevo. Non riuscivo a comprendere le regole e le norme, dal processo di reclutamento nelle confraternite femminili a come la mia compagna di stanza, una reginetta di bellezza, avesse sempre il viso perfettamente truccato.

Il mio primo fidanzato all’università è stato un texano che stava attraversando una silenziosa radicalizzazione. Dio gli aveva detto di smettere di indossare magliette con il collo a V e di comprare vestiti usati, una rivelazione in qualche modo legata alla virilità biblica. Ci siamo sempre e solo baciati ma, dopo esserci lasciati, ho saputo di aver avuto un ruolo di primo piano nel suo percorso di conversione religiosa: l’avevo indotto in tentazione sessuale e lui aveva eroicamente resistito. Invece di riderne, l’ho vissuta come una sconfitta personale.

Il giorno in cui ho incontrato il mio futuro marito, il nostro pastore universitario aveva appena finito il suo sermone, parte di una serie sulla Genesi. Le attività si svolgevano in una chiesa dal campanile bianco che era il punto cardine di Opelika, in Alabama, con un imponente monumento a Robert E. Lee e alla causa confederata nel cortile. Dopo la funzione, stavo impilando le sedie lungo la parete in fondo quando ho visto un ragazzo venire verso di me. Era magro, con una zazzera di capelli castani e una lunga falcata. Lo chiamerò D. Quando mi ha raggiunto, ha allungato una mano trepidante.

“Finalmente”, ha esclamato. “Non vedevo l’ora di conoscerti”.

D aveva letto il mio blog musicale, pieno di recensioni di album e canzoni piratate. Era un musicista che studiava pianoforte e mi ha invitato al concerto di una band locale che si esibiva la sera dopo. Durante la cena prima dello spettacolo la sua auto è stata rimossa e abbiamo passato tutta la notte a cercarla. L’abbiamo ritrovata in un deposito giudiziario. Aveva cercato di convincermi a comprare delle tronchesi.

D ha liberato dentro di me un senso di possibilità. Non mi ha fatto vergognare. Più grande di me di soli due anni, sembrava aver capito la vita. Impartiva le sue lezioni con la pazienza di un prete: mangiare una banana calma i nervi, mi diceva. Il segreto per fare buona musica è non lavarsi i capelli. Era cresciuto in una tipica famiglia dell’Alabama – padre direttore di banca, madre casalinga – in una grande casa di mattoni in un quartiere di grandi case di mattoni identiche. Il motto della famiglia era “non farti notare”. Ma D è sempre stato creativo ed eccentrico, ricco di un’energia romantica e sognante che cozzava con le aspettative dei genitori, che si erano impegnati a fondo per tenerlo a freno. Sua madre non gli aveva permesso di fare il provino per la compagnia teatrale locale. Quando aveva cominciato a suonare il pianoforte, lo avevano incoraggiato a provare lo sport.

Dopo l’incidente dell’auto, io e D abbiamo cominciato a vederci tutti i giorni. Si esercitava al pianoforte fino a tarda notte poi si arrampicava sulla grondaia per raggiungere la mia stanza al secondo piano. Sentivo il suono vellutato della mia finestra che si apriva e lui che s’issava all’interno con consumata agilità. Si spogliava e si rintanava nel mio letto a due piazze, premendo le mani gelide contro il mio corpo caldo, picchiettando le dita sui miei fianchi, continuando a esercitarsi silenziosamente su Bach.

Dopo un paio di mesi di frequentazione, D ha noleggiato un piccolo aereo a quattro posti per una gita al mare in giornata. Amava i gesti eclatanti, nella sua testa sceneggiava sempre la nostra storia d’amore. Abbiamo trascorso tutto il giorno in riva all’oceano e siamo rientrati ad Auburn mentre il sole si avviava al tramonto in un tripudio di arancione e rosa. Il pilota si è sporto all’indietro e ci ha chiesto: “Volete vederlo di nuovo?”. Poi ha volato più in alto, verso ovest, e delicatamente indietro nel tempo, a quando il sole non era ancora tramontato.

È stata l’unica volta che ho visto il sole tramontare due volte.

Eravamo nell’idromassaggio di un hotel in Texas quando D ha parlato per la prima volta di matrimonio. Avevo diciannove anni, indossavo un bikini rosso ed ero paonazza per il vapore. All’inizio ho detto di no.

Quasi tutto quello che sapevo sul sesso l’avevo imparato in chiesa. Bisognava evitare le ragazze che indossavano top senza spalline o troppo scollati. I ragazzi erano ragazzi

Non avevo mai sognato il matrimonio. Non immaginavo le nozze, un vestito o uno sposo. Fantasticavo su altre cose: i luoghi dove sarei andata, le persone che avrei incontrato, frequentato e lasciato, le versioni di me stessa che sarei potuta diventare. Non c’era un solo futuro a catturarmi, ma la spettacolare possibilità di tutti questi insieme. Eppure, con il passare degli anni, le possibilità si erano come ristrette, spente da migliaia di piccoli rimproveri.

Il matrimonio era una piccola scatola, dentro una serie di altre scatole in cui ero stata compressa nel corso degli anni da ogni fidanzato, gruppo giovanile, servizio religioso e implicita aspettativa di femminilità. Ma avevo accettato di farmi piccola per adattarmi alla vita che mi veniva offerta. Gli altri futuri che ero in grado di immaginare cominciavano a sembrare sfocati e oscuri. Il matrimonio, come la religione, prometteva certezze. Quando alla fine ho detto sì, ho provato il sollievo dell’accondiscendenza. Mi sembrava così facile diventare il tipo di donna che gli altri si aspettavano.

La religione mi aveva ingabbiato in una gara di femminilità, con l’anello al dito come premio finale. Sulle nostre partecipazioni di nozze, che avevo disegnato io, c’era una striscia in alto con le parole di Adamo tratte dalla Genesi, il momento in cui incontra Eva per la prima volta: “Finalmente”.

Ci siamo sposati all’ultimo anno. Ho saltato la laurea. Abbiamo lasciato il ricevimento di nozze in moto, finendo la benzina su una buia strada dell’Alabama. Mi sono fatta dare un passaggio da un uomo su un pick-up bianco, mentre colui che era mio marito da tre ore spingeva la moto su per la collina verso la stazione di servizio più vicina. Abbiamo fatto sesso per la prima volta alle quattro del mattino in una fredda stanza d’albergo. Dopo ho pianto. D si è addormentato subito. Mi sono fatta una doccia, cercando di pettinare il groviglio di forcine e gommalacca della mia acconciatura da matrimonio, e ho pianto ancora più forte.

Durante la luna di miele abbiamo recitato i ruoli di marito e moglie come attori bambini in una commedia. Cenavamo a tavoli con tovaglie bianche, indossando i nostri abiti migliori. Ci rilassavamo sulle sdraio, lucidi di crema solare. Fluttuavamo intorno al bar della spiaggia, avevamo appena l’età per l’alcol e ordinavamo cocktail zuccherosi con nomi come Dirty Banana, che ci facevano schifo.

Ho avuto i primi attacchi d’ansia per i motivi più strani: quanto si era sporcato l’orlo del vestito al matrimonio, il colore dei miei capelli nelle foto o un segno di penna sulla borsa di pelle. Ho fatto lunghe passeggiate in abiti estivi bianchi all’interno dell’impeccabile resort, sentendomi ridicola con il mio anello di diamanti. Il terrore ha cominciato a calare su di me quando ho capito che quel sogno stava per finire.

L’ultimo giorno di luna di miele, D e io abbiamo preso una piccola barca per uscire in mare. Siamo stati spinti oltre il frangente delle onde e liberati nell’immenso oceano blu. La corrente ci ha allontanato dalla riva finché non siamo più riusciti a vedere gli ombrelloni rossi del resort piantati nella sabbia. Siamo andati alla deriva per quelle che mi sono sembrate ore. Quando finalmente il vento ha ripreso a soffiare, non importava dove ci portasse purché fosse verso la terraferma. Siamo finiti in una piccola baia a un chilometro e mezzo di distanza. Abbiamo lasciato la barca e siamo tornati indietro in costume da bagno e giubbotto di salvataggio, arrancando a piedi nudi sulla roccia.

Una volta rientrati a casa da sposi novelli, abbiamo raccontato questa storia come un aneddoto divertente. Ma io non sono mai riuscita a scrollarmi di dosso quella sensazione d’immensa impotenza.

Guido Scarabottolo

Il matrimonio esigeva un’amnesia volontaria. I miei stessi pensieri di colpo mi sembravano pericolosi. Minacciavano di rivelare che errore enorme fosse la mia nuova vita. Per affrontare la situazione, ho cominciato a rimuovere piccoli pezzi di me stessa, un po’ alla volta. Ho smesso di tenere il diario. Ho smesso di scrivere. Mi tenevo il più possibile occupata, alzando il volume del mondo esterno per coprire la voce interiore. Ho messo in una scatola i miei vecchi sogni e ho chiuso il lucchetto. Dovevo amare il matrimonio. Dovevo essere una buona moglie.

Questo smembramento rituale è andato avanti per mesi, poi anni. D si è accorto del cambiamento. “È come se si fosse spenta una luce dentro di te”, mi ha detto un paio d’anni dopo. Ho fatto finta di non capire cosa intendesse.

Tuttavia, D è rimasto morbido e fermo. Delicato con me. Gli piaceva quando cantavo da sola per casa. Sapeva quanto amassi i cardinali, così ha comprato una piccola mangiatoia per uccelli da mettere fuori dalla finestra. Ero seduta alla scrivania e lo guardavo fuori al sole, illuminato dai raggi e sorridente, mentre la fissava al vetro. Faceva sempre così: mi portava piccole offerte di bellezza, come consolazioni per la vita che avevamo concordato.

L’identità di genere di D non è comparsa subito in modo netto. Si è infiltrata dai margini come una Polaroid non ancora sviluppata, senza che noi riuscissimo a scorgere tutta l’immagine. Da bambino, quando nessuno era in casa, si vestiva con gli abiti della sorella. Aveva sempre amato i vestiti, i pizzi e i capelli lunghi. Era attratto dalla morbidezza della femminilità, dalle parti di sé a cui gli permetteva di accedere. Nessuno di noi due capiva bene cosa significasse tutto questo.

Avevamo raggiunto un accordo inconsistente: D poteva esplorare la sua identità di genere, ma solo fino a un certo punto. Solo finché non minacciava la vita che avevamo costruito. Nessuno di noi sapeva dove tracciare una linea. Smalto per unghie, ma niente trucco? Gioielli, ma niente vestiti? Si sarebbe rasato le gambe? Avrebbe fatto il buco per gli orecchini? Avrebbe cominciato a prendere ormoni? Sarebbe potuto sembrare ridicolo ridurre il genere a significanti così superficiali, alcuni accettabili e altri arbitrariamente no, se non fosse che l’avevamo fatto tutta la vita.

In pubblico, D indossava ancora i suoi soliti abiti e non voleva adottare nuovi pronomi. Anche lui da tempo aveva messo il lucchetto a una parte di sé. Odiava i sentimenti che stavano emergendo, decenni di condizionamenti religiosi erano in guerra con la musica che montava dentro di lui. Quasi ogni giorno, si riprometteva di non provare più questi sentimenti, ripetendo “non fa niente” come una preghiera. Ha cominciato ad avere attacchi di panico.

Lo sorvegliavo nervosamente per scorgere segni di femminilità, rimproverandomi per la mia vigilanza, ma continuando a preoccuparmi quando i suoi capelli si allungavano e vedevo sbavature di eyeliner. Mi sono ritrovata a essere particolarmente territoriale nei confronti della femminilità. Ero possessiva. Avevo passato una vita a cercare di soddisfare i suoi standard e a provare vergogna quando non ci riuscivo. Il mio sistema d’allarme era diventato molto sensibile a qualsiasi deviazione. Ora non riuscivo a disattivarlo, nemmeno con mio marito. Era la meticolosa potatura delle idee aberranti che mi era stata insegnata fin dall’infanzia. Solo che ora ero io a pretendere l’uniformità, ero il prigioniero e la guardia.

Un giorno di quell’inverno, aprendo il cassetto della sua biancheria intima per mettere via il bucato, ho intravisto un lampo di colore e pizzo sul fondo. Lo stomaco ha sussultato. Quella linea invisibile esisteva. Il nero andava bene, ma erano i grovigli di rosso, rosa, fucsia – nascosti più in profondità – ad allarmarmi. Ho chiuso subito il cassetto.

Provavo un fastidioso disagio per la rinegoziazione dei termini del nostro matrimonio. Fino a quel momento, avevamo interpretato perfettamente i nostri ruoli: uomo e donna, ottimi cristiani, marito e moglie. Il risentimento mi strozzava la gola. Avevo sacrificato tanto di me stessa per adattarmi a questo matrimonio. Perché non poteva farlo anche lui? Certo, avevamo entrambi una sensazione di claustrofobia. Tutti e due ci sentivamo soffocati, asfissiati, disperati per il dolore delle parti di noi stessi che il matrimonio c’imponeva di abbandonare. Pensavo che fosse proprio quello che avevamo sottoscritto.

Quel giorno, nella vasca da bagno, D ha rotto l’accordo, ha detto quello che non si poteva dire, il sussurro della possibilità: e se là fuori per noi ci fosse molto altro?

D ha deciso di tornare in chiesa.

Erano passati sette mesi dalla confessione in vasca da bagno e più di un anno dall’inizio dei lockdown per la pandemia. A quel punto avevamo smesso di frequentare la chiesa. Ma avevamo cominciato una terapia di coppia su Zoom. Avevo vestito D con i miei abiti.

Ora urtavamo più spesso contro quella linea invisibile, sentendo la scossa come con un recinto elettrico, i confini evidenziati per un istante. Gli attacchi di panico di D sono diventati più frequenti. Un frenetico bussare alla porta chiusa della mia mente si faceva sempre più insistente. Ignoravamo tutto con la disperazione di due persone che non erano pronte a trasformare la loro vita.

È stata questa disperazione a riportare D in chiesa, il luogo dove eravamo sempre andati a cercare sicurezze. Anche la condanna è una sorta di certezza. D è entrato nell’ufficio di un pastore senza mascherina che gli ha donato un – inutile – libro su come resistere alla tentazione dell’omosessualità. Il pastore aveva la tosse ma ha detto a D: “Non preoccuparti. È solo un raffreddore”.

Guido Scarabottolo

D ha preso il covid-19 per primo. Io l’ho seguito qualche giorno dopo. All’inizio è stato quasi un sollievo. Il tormento emotivo degli interrogativi sull’identità è stato sostituito dalla più immediata sofferenza fisica della malattia. Dopo mesi di discussioni incessanti, ci eravamo finalmente fermati. Eravamo sdraiati nel nostro grande letto bianco, esausti e febbricitanti, a guardare video di YouTube sugli abissi marini.

La parte più profonda dell’oceano conosciuto è la zona adale, dal nome del dio greco degli inferi, Ade. Nessuna luce può penetrare. La pressione lì ti schiaccerebbe immediatamente.

Ci rilassavamo tenendoci compagnia in silenzio, lasciando che i nostri occhi caldi si posassero sull’inesplorabile acqua nera.

Si stima che solo il 5 per cento dell’oceano sia stato accuratamente mappato; il restante 95 per cento rimane un mistero.

Negli ultimi mesi, nuovi pensieri avevano cominciato a emergere dalle profondità della mia mente. Mi ha sorpreso scoprire che il mio risentimento verso D si era trasformato in invidia. Sia il matrimonio sia la religione ci avevano imposto un esilio da noi stessi, una soppressione della nostra vera identità. Era un adattamento che sembrava necessario per la sopravvivenza. Ma osservando D esplorare, interrogare e reinventare la femminilità, cambiando le regole sotto i miei occhi, mi sono chiesta se mi fossi sbagliata.

Nei giorni successivi, mentre D si riprendeva, io peggioravo. Il mio respiro è diventato irregolare. Ho smesso di mangiare. La settima notte mi sono svegliata alle tre del mattino con un forte dolore all’addome. Barcollando verso il bagno, ero così accaldata che mi sono strappata i vestiti di dosso. Nello specchio, il mio riflesso sembrava luccicare come un’onda di calore.

Quando mi sono svegliata sulle piastrelle fredde del bagno, ero nuda e terrorizzata. Ero certa che morendo si provasse quella sensazione. Avevo un solo pensiero: tornare da D. Mi sono diretta verso la camera da letto, sbattendo contro i mobili mentre la vista si oscurava ai bordi, e sono crollata davanti all’anta dell’armadio. D mi ha trovato lì e mi ha adagiato sul letto, accarezzandomi il viso umido fino a quando i miei respiri si sono fatti regolari.

Il nostro amore era sempre stato un balsamo per lenire i modi in cui ci eravamo costretti a restringerci negli anni. Eravamo entrati in questo matrimonio come evangelici confusi che cercavano con tutte le forze di recitare bene il ruolo di marito e moglie. Negli ultimi dieci anni eravamo cambiati molto, ma la forma del nostro matrimonio era rimasta la stessa. La pressione ci stava schiacciando entrambi. Ho ripensato al nostro primo appuntamento, con le tronchesi, al senso di libertà e di possibilità che D aveva suscitato in me allora. Stava accadendo di nuovo adesso.

Mi sono addormentata con D che vegliava su di me, le sue dita fresche sulla mia guancia. Quando mi sono svegliata la mattina dopo, la febbre era scesa.

Un mese dopo, il nostro matrimonio era finito.

Quello che pensavo sarebbe stato un esilio, si è rivelato invece un’evasione.

Abbiamo lasciato l’Eden e abbiamo preso direzioni diverse. D è andato a ovest, in California, una terra di lussureggiante abbondanza. Io sono andata a est, a New York e nel New England, e poi attraverso l’oceano in Portogallo, Italia e Francia.

Tutto sembrava aperto, tutte quelle gloriose ramificazioni di futuro che avevo intravisto quando ero partita per l’università, erano di nuovo a portata di mano. È stato un periodo di libertà, confusione ed espansione. Non avrei più tollerato l’esilio dalla mia mente, né per un dio né per un matrimonio.

Ho passeggiato lungo la Senna, ho risalito le Alpi svizzere dentro a una funivia oscillante, ho preso il sole nuda sulle spiagge della Croazia. Ho mangiato fichi appiccicosi in Toscana, crostate di crema pasticcera dorata a Lisbona e croissant burrosi a Biarritz.

A Orvieto ho visitato una cattedrale con la storia della Genesi scolpita in bassorilievo sulla facciata di marmo. Nel pannello intitolato Creazione della donna Adamo giace a terra addormentato, con il fianco aperto e la costola rimossa. Eva è uscita dal suo corpo, siede con la schiena eretta, e guarda Dio dritto negli occhi. I rami dell’albero si allungano verso il cielo, carichi di frutti. È prima del serpente. Prima della mela. Prima della conoscenza. Prima della fuga. Eppure, nell’inclinazione della testa, mi sembra di vedere il seme selvaggio del desiderio che già comincia a germogliare.

Ho rivisto D a San Diego. Era esattamente un anno dopo che entrambi eravamo stati malissimo. Due anni dopo la vasca da bagno. Dieci anni dalle tronchesi. I suoi folti capelli castani erano lunghi e raccolti all’indietro, il sole della California che ne catturava bagliori d’oro. Sulle palpebre luccicavano dei brillantini color champagne. Aveva scelto di chiamarsi con un nuovo nome che significa “moglie amata”.

Ci siamo incontrate vicino alla spiaggia e siamo passate davanti a un ostello in cui aveva soggiornato una volta, subito dopo il divorzio. Ha detto: “Voglio mostrarti una cosa” e ci siamo intrufolate dentro mentre un altro ospite usciva. D è andata alla reception e ha detto: “Questa è la mia ex moglie. Ex moglie, giusto?”. Si è girata verso di me e siamo scoppiate a ridere entrambe per quel termine. “Volevo farle fare un giro”. Non ci hanno fatto entrare, così abbiamo passeggiato sul pontile. Il sole stava tramontando, illuminando l’acqua su entrambi i lati.

Abbiamo parlato della nuova vita di D in Cali­fornia.

Di recente si era recata in un negozio di belle arti, indossando una minigonna e stivali con le zeppe, e un’anziana signora le si era avvicinata. D era tesa, ripensava a tutte le donne di chiesa con i capelli bianchi dell’Alabama e del Tennessee, invece quella le aveva fatto i complimenti.

“Guarda che gambe”, le aveva detto. “Potresti essere una Rockette!”.

D aveva riso e poi aveva mollato i pennelli e aveva fatto un paio di passi di danza per lei.

Ascoltando D raccontare la storia, la gioia sfacciata di ballare per una sconosciuta nel reparto vernici di un negozio, mi sono tornati in mente tutti i motivi per cui mi ero innamorata di lei.

Come si chiama quella cosa che ha attirato Eva? La promessa della verità, la possibilità di guardarsi nella propria interezza – l’immagine completa, non solo le parti autorizzate – e di riposare nella consapevolezza di andare bene così. Qualunque cosa l’abbia attirata, ha attirato anche me. Mi ha accerchiato come un serpente, sussurrando possibilità. Mi ha tentato con promesse di conoscenza e libertà, di pace della mente, invece che di una continua lotta.

Siamo rientrate lungo il molo mentre il sole scendeva sotto l’orizzonte. Ho ripensato alla nostra gita in aereo, a quell’assurda dimostrazione d’amore, quando eravamo stati trasportati dolcemente indietro nel tempo e avevamo scoperto una seconda possibilità.

La femminilità definita dalla chiesa, dal matrimonio e dalla cultura del sud degli Stati Uniti era stata una scatola troppo stretta in cui cercare di entrare. Non poteva contenere la totalità di me o del mio coniuge.

Non saprei dire cosa sia passato per la mente di D in quel periodo: ho assistito al suo cambiamento, ma non capirò mai come si sia sentita.

Quello che so è questo: non ho capito che avevamo il permesso di cambiare finché D non me l’ha mostrato. Lei ha dato il primo morso. E poi me l’ha allungato, luccicante come un frutto proibito, l’offerta di una persona amata. Allora abbiamo aperto gli occhi. Finalmente. ◆ svb

Lane Scott Jones è una scrittrice del North Carolina, negli Stati Uniti. Viaggia in giro per il mondo a tempo pieno. Attualmente sta lavorando a un libro autobiografico. Questo articolo è uscito su Longreads, un sito che pubblica articoli lunghi e racconti. Il titolo originale è Creation of woman: evangelical and transgender in the Bible belt.

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Questo articolo è uscito sul numero 1573 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati