Una delle storie più popolari di Socotra, un’isola yemenita nell’oceano Indiano famosa per il suo paesaggio paradisiaco e la sua straordinaria vegetazione, racconta dell’incontro tra i primi visitatori europei e un piccolo truffatore locale, conosciuto con il nome di Rehabhen.
La leggenda narra che gli europei, arrivati in nave, cominciarono a confiscare il bestiame degli isolani. Rehabhen escogitò un piano per sbarazzarsi della minaccia straniera. Tra gli europei c’era una bella donna che l’aveva colpito. Un giorno la rapì e la portò nella grotta in cui viveva. Poi uccise una capra, ricoprendosi le braccia del suo sangue, e la mise a cuocere su uno spiedo. Quindi andò dagli stranieri mostrandogli le sue braccia insanguinate e indicando a gesti il fumo in lontananza, dove, così raccontò, stava arrostendo la donna sul fuoco per mangiarla. Gli europei fuggirono terrorizzati. Poco dopo, Rehabhen sposò la donna, con cui ebbe molti figli. Ancora oggi si possono trovare le tracce dell’influenza europea negli occhi azzurri degli abitanti dell’isola.
Ho sentito questa storia durante una recente visita a Hadibu, la principale città di Socotra, grande e sovrappopolata. Stavo passando il pomeriggio in un afoso diwan, la piccola stanza in pietra posta al fianco delle case nello Yemen meridionale. Lungo le pareti erano allineati i cuscini. Ero in casa di Salem Daheq, ex parlamentare e direttore dell’Autorità per la protezione ambientale (Epa) di Socotra. Con noi erano seduti altri due uomini che avevano lavorato nella tutela ambientale, e il mio autista Abu Isa, che in passato era stato anche lui del settore. Masticavamo foglie di qat, una pianta dagli effetti simili a quelli dell’anfetamina, che inducendo una leggera alterazione psichica spinge alla riflessione. Chiacchieravamo mescolando arabo e inglese. Naturalmente la conversazione divagava, dai racconti di truffatori alle voci sui jinn (spiriti della natura) fino a quella sorta di magia per la quale Socotra era rinomata nell’antichità: due degli uomini nel diwan giuravano che i loro antenati avevano fatto ammalare i soldati britannici occupanti semplicemente lanciandogli sguardi cattivi.
Ben presto, ma non abbastanza per i cittadini di Socotra, l’impero britannico abbandonò l’isola, proprio come gli stranieri raggirati da Rehabhen. Oggi a Socotra è arrivata una nuova forma di occupazione, collegata al conflitto regionale tra le potenze del Golfo, decise a espandere il loro dominio politico e la loro influenza economica, e impazienti di monetizzare la risorsa più preziosa dell’isola: il suo ambiente naturale.
Il giardino dell’Eden
Socotra, 350 chilometri a sud dello Yemen e 250 chilometri a est della Somalia, è l’isola più grande del mar Arabico, misura circa la metà di Creta, e dà il nome all’omonimo arcipelago di quattro isole di cui fa parte. Fin dall’antichità ha affascinato i forestieri. Una leggenda narra che Aristotele consigliò ad Alessandro Magno di procurarsi la straordinaria aloe dell’isola, apprezzata per il suo valore medicinale. Secoli dopo, i primi cristiani greci pensarono che a Socotra potesse trovarsi il giardino dell’Eden, perché era una terra ricca di acqua e di una vegetazione ultraterrena, in una regione di deserti e piccoli arbusti. I viaggiatori medievali erano molto interessati a Socotra perché, in un’area dominata dall’islam, i suoi abitanti erano cristiani, forse convertiti dai greci un millennio prima.
Un terzo della flora di Socotra è endemica: trecento specie vegetali crescono spontaneamente solo qui. La più iconica è la Dracaena cinnabari o albero del drago, che svetta come una testa di broccolo tra le montagne e sugli altipiani dell’isola. Inoltre, sono endemici il 90 per cento delle trentaquattro specie di rettili di Socotra, il 95 per cento della sua popolazione di lumache di terra e diversi uccelli, tra cui l’assiolo di Socotra e il beccamoschino di Socotra. Nel 2008 l’isola è stata nominata patrimonio mondiale dall’Unesco per la sua ricca biodiversità. Spesso è pubblicizzata come le “Galápagos dell’oceano Indiano”.
In anni recenti, l’Unesco ha anche valutato di aggiungerla alla sua lista di patrimoni dell’umanità in pericolo, di cui fanno parte il sito archeologico di Palmira in Siria e la valle di Bamiyan in Afghanistan. Centocinquantasette specie vegetali endemiche di Socotra sono già considerate in grave pericolo, in pericolo o vulnerabili. I rapporti inviati dall’Epa all’Unesco esprimono il timore di non riuscire a difenderne la biodiversità da pressioni esterne come lo sviluppo incontrollato, il boom demografico e le specie invasive, per non parlare della distruzione causata dal cambiamento climatico. Inoltre i progetti di cooperazione internazionale per la salvaguardia dell’ambiente dell’isola ottengono scarsi risultati.
E anche se Socotra è stata risparmiata in gran parte dalla violenza e dalla carestia che hanno devastato il territorio dello Yemen, l’arcipelago e i suoi circa 70mila abitanti hanno comunque subìto le ripercussioni della guerra civile in corso da dieci anni. Essendo la regione più remota di uno stato in bancarotta, con un governo nazionale quasi al collasso, l’isola è diventata preda delle speculazioni straniere.
L’astuzia degli isolani avrà forse ingannato i primi visitatori europei del racconto di Rehabhen (un’astuzia che fu notata dall’esploratore medievale Ibn al Mujawir, secondo il quale Socotra si salvò dagli invasori grazie ai suoi stregoni cristiani, che lanciavano incantesimi per renderla invisibile alle navi di passaggio). Ma nel ventunesimo secolo le potenze europee e arabe che si riversano sull’isola sono più difficili da scoraggiare. Arrivano attirate dalla presunta primitività che mise in fuga gli stranieri del passato, sperando di monetizzare i molti incanti dell’isola. Nessuno può dire se l’attuale ondata di invasori finirà in qualche nuova leggenda su Socotra, ma anche in tal caso il futuro dell’isola – e la questione di quale paese finirà per possederla – nella migliore delle ipotesi sembra incerto. La sua capacità di resistere alle influenze esterne potrebbe essersi esaurita.
Nel 2015, subito dopo lo scoppio del conflitto nello Yemen, due cicloni consecutivi si scatenarono su Socotra, un evento meteorologico raro. Le tempeste distrussero gran parte delle limitate infrastrutture dell’isola, decimando gli alberi tipici del posto e uccidendo più di dieci persone. In assenza di un governo yemenita funzionante, gli interventi di soccorso furono in gran parte gestiti dalla fondazione Khalifah bin Zayed al Nahyan, il braccio umanitario degli Emirati Arabi Uniti. Da allora la fondazione è diventata un’estensione delle iniziative di soft power di Abu Dhabi per affermare il controllo sull’isola attraverso lo sviluppo economico e delle infrastrutture, come sta facendo la Cina in Africa, ma su scala molto più ridotta. Le aziende degli Emirati oggi controllano il servizio elettrico di Socotra, le importazioni di petrolio e uno stabilimento di confezionamento del pesce. I finanziamenti emiratini servono anche a integrare una parte degli stipendi del governo locale, a sostenere l’esercito e a migliorare la rete stradale. Etisalat, un’azienda di telecomunicazioni degli Emirati, ha installato dei ripetitori in tutta l’isola che funzionano molto meglio della rete di telefonia locale, con la quale è notoriamente difficile fare una chiamata o collegarsi a internet.
All’ennesima potenza
Non è chiaro quali siano esattamente i piani di Abu Dhabi per Socotra. È vero che gli investimenti hanno migliorato la vita a molte persone, dato che gli Emirati riempiono il vuoto lasciato dallo stato e svolgono anche il ruolo di benefattori. Ma per certi aspetti la vita sull’isola è diventata più costosa, a causa del controllo esercitato dal ricco paese del Golfo sui servizi essenziali. C’è il timore che gli imprenditori e i funzionari governativi degli Emirati vogliano potenziare lo sviluppo turistico e industriale senza preoccuparsi della protezione ambientale, trascurando proprio ciò che ha attirato gli stranieri a Socotra per millenni.
La presenza degli Emirati ha anche contribuito a erodere la cultura tradizionale, come la lingua indigena di Socotra e la relazione di reciprocità tra gli isolani e il loro ambiente. Il declino era cominciato prima dei cicloni del 2015, ma ora sembra inarrestabile. Come osserva l’antropologa Nathalie Peutz nel libro su Socotra Islands of heritage, del 2018, molte persone qui sentono che qualcosa non va sull’isola, come se “gli abitanti si fossero allontanati dal cammino degli antenati”. Il fattore di accelerazione, secondo Peutz, sono le irresistibili promesse di progresso, un’arma a doppio taglio. “Un tempo afflitta dalla carestia”, scrive Peutz, “in anni più recenti l’isola è stata tormentata da una fame di tipo diverso: fame di proprietà terriera, di ricchezza e di potere che, con il senno di poi, fa sembrare i giorni di (vera) fame (ayyam al-ju’) come giorni di abbondanza”.
Mohammed Saad Taha, consigliere comunale e insegnante, la vede così: “La maggior parte degli abitanti si è trasferita nelle città, ha costruito, ha studiato, e quindi la sua vita è più confortevole. Ma la verità è che la vita di campagna è diversa da quella di città, le persone un tempo erano più attente alla tutela del loro patrimonio, della lingua e dell’ambiente. Oggi i bambini e i giovani si sono urbanizzati. È come se venissero da un altro paese”.
Ho visitato Socotra nell’ottobre 2022, nel periodo in cui di solito pesanti acquazzoni mettono fine a estati torride e ventose. Ma quell’anno le piogge non erano arrivate e le persone erano preoccupate. Sulla strada dall’aeroporto a Hadibu i miei compagni di viaggio, Ali e suo zio Abu Isa, indicavano la terra riarsa, dove spuntavano da dietro le rocce gli alberi della rosa del deserto, con i loro tronchi bulbosi color panna, un assaggio della flora che cresce rigogliosa oltre le aspre creste di granito visibili dalla strada costiera.
Avevo sentito parlare di Socotra una decina di anni prima, quando lavoravo nello Yemen come corrispondente. L’isola è in un certo senso un tesoro nazionale, anche se molti yemeniti della terraferma non ci hanno mai messo piede. Avevo sentito parlare dei suoi alberi del drago e delle sue spiagge incontaminate. Sapevo del soqotri, una lingua semitica parlata solo qui già prima dell’arabo e a rischio di estinzione. Ero incuriosita da alcune “stranezze” nella storia dell’isola, come il fatto che nei primi anni quaranta i funzionari britannici valutarono d’insediarci la popolazione ebraica europea, invece di mandarla in Palestina (l’idea non raccolse grande sostegno). Socotra sembrava un luogo ancora non corrotto dalle logiche del mercato. Come altri forestieri prima di me, mi affascinava la sua posizione remota, anche se in realtà non è mai stata davvero isolata dal mondo come si poteva credere dall’esterno.
Questa era la mia seconda visita. Quando sono arrivata ho ritrovato alcuni odori che ricordavo dello Yemen: incenso, mosto e il profumo terroso del qat.
L’isola si trovava a un bivio. I sauditi, a capo di una coalizione araba in guerra contro i miliziani huthi che controllano il nord dello Yemen, avevano basi militari a Socotra già dal 2018. La loro presenza è stata ridimensionata dopo che gli Emirati hanno conquistato più controllo e influenza, anche se in seguito Riyadh si è allineata al metodo di Abu Dhabi costruendo scuole in giro per l’isola, imponenti strutture arancione acceso in brutale dissonanza con i miseri villaggi circostanti.
Vicino alla base militare saudita ce n’era una yemenita su cui sventolava una bandiera separatista: strisce rosse, bianche e nere con un triangolo azzurro e una stella rossa. È la bandiera dello Yemen del Sud, uno stato indipendente marxista esistito fino al 1990, che è stata adottata dai separatisti dello Yemen meridionale, sostenuti finanziariamente dagli Emirati e intenzionati a dividere di nuovo il paese in due entità indipendenti. Socotra resta in disparte in questa disputa politica, i suoi giovani si arruolano in qualunque esercito abbia il controllo dell’isola.
Hadibu è una città costiera sfigurata da strutture incompiute in cemento, punteggiata dalle impalcature, segno della sua rapida espansione. Tra i cumuli d’immondizia lungo le strade razzolavano le capre in cerca di cibo.
Quella sera ho cenato con Abu Isa e Ali su un tavolo di plastica piazzato tra la spazzatura e lo sterco di capra. Il ristorante era relativamente nuovo, appena fuori Hadibu. I visitatori stranieri pagavano undici dollari, indipendentemente da quello che avevano ordinato. I loro accompagnatori locali mangiavano gratis.
Il volo internazionale era arrivato quel giorno, quindi i turisti erano ancora a Hadibu prima di partire per le loro escursioni sull’isola: a Firmihin, dove crescono fitte foreste di alberi del drago; a Shu’ab, una spiaggia di sabbia bianca raggiungibile solo via mare incrociando gruppi di delfini che giocano tra le onde; o ad Arher, dove un corso di acqua dolce si snoda tra imponenti dune di sabbia che si tuffano nel mare.
Non avevo un piano di viaggio dettagliato, volevo solo vedere dove mi avrebbero portato i venti di Socotra. L’unica cosa di cui ero certa era che volevo andare da Abdullah Aliyu, noto sull’isola come Abdullah il cavernicolo, una delle principali attrazioni turistiche del luogo. Abdullah vive davvero in una grotta, più o meno: divide le sue giornate tra una caverna sulla laguna di Detwah, nell’angolo nordoccidentale dell’isola, e la sua casa vicino Qalansia, dove abita con moglie, figli e nipoti. Per la sua vita quotidiana nella caverna usa strumenti rudimentali, cammina scalzo e indossa una collana di denti di delfino. Invita i turisti sdraiati sulla spiaggia vicina ad andare con lui nella sua grotta, dove si siedono a prendere il tè e lo guardano pescare a mani nude nella laguna. In cambio di questa performance, che è in parte rievocazione storica in parte frutto della sua immaginazione, Abdullah spesso riceve delle mance in denaro.
Abdullah ovviamente rappresenta una contraddizione tra il passato e il futuro di Socotra, per non parlare della tensione tra cultura e profitto. È parte integrante di un’industria turistica basata su un’idea di Socotra come terra isolata e sperduta, uno degli aspetti più attraenti per gli stranieri in cerca di una vacanza esotica su un’isola remota. Non posso negare di esserci venuta per gli stessi motivi, anche se l’esibizione di Abdullah mi è subito sembrata un po’ una pagliacciata.
Abdullah ha spiegato che lavorare con gli stranieri una volta era facile perché c’erano meno regole e meno persone in concorrenza tra loro
Sabbia bianca
Neanche a farlo apposta, quella sera Abdullah è passato accanto al nostro tavolo. Magro e atletico, con i capelli in disordine, indossava una giacca di jeans con la frase I live for adventure (Vivo per l’avventura) stampata sul taschino, e una futa, la tipica fascia di tessuto che gli uomini portano avvolta intorno alla vita nelle regioni costiere della penisola arabica e del corno d’Africa, gialla e verde.
“Eccolo. L’uomo delle caverne in città”, ha esclamato Ali, chiamandolo al nostro tavolo. Chiacchierando, Abdullah mi ha invitato nella sua grotta per vedere i trigoni, sfoderando una serie di frasi in inglese, russo e tedesco. Forse mi considerava l’ennesima turista ingenua, facile bersaglio dei suoi numeri da cavernicolo, ma ero comunque contenta dell’invito.
Poi, quasi senza salutare, se n’è andato, verso un altro tavolo e un’altra conversazione, facendo il suo giro prima di lasciare Hadibu in serata e tornare all’altro capo dell’isola e alla sua caverna sul mare.
Il mattino successivo io e Abu Isa ci siamo avviati verso la casa di Abdullah a Qalansia, percorrendo la strada tra il mare azzurro e le brune pareti rocciose che portano all’altopiano di Diksum. Siamo passati accanto a una base militare su cui sventolava la bandiera di un paese ormai inesistente, al piccolo e polveroso aeroporto e allo sfavillante ospedale finanziato dall’Arabia Saudita.
Più pittoresca e meno frenetica di Hadibu, Qalansia sorge nei pressi di un lungo tratto di sabbia bianca molto amato dai turisti. La cittadina consiste in case di pietra e pochi negozi di generi alimentari. Lì ci siamo imbattuti di nuovo in Abdullah. Indossava gli stessi abiti della sera prima ed era diretto alla moschea della città per la preghiera del venerdì.
Ci ha chiesto di aspettarlo a casa sua, dove ci siamo seduti sul pavimento piastrellato del diwan. In un angolo era appoggiata al muro una piccola bicicletta verde, nell’altro un sacco di grano dall’Oman. Un ventilatore a soffitto ruotava sopra le nostre teste, un gradito sollievo dall’aria pesante del pomeriggio. Dopo aver terminato la preghiera, Abdullah è entrato con un piatto pieno di riso e ricciole arrostite, e un altro con un calamaro arrostito. L’ho ringraziato per averci accolto in casa sua e lui ha indicato i suoi occhi, un gesto di ospitalità. Mentre mangiavamo, Abdullah e Abu Isa si sono scambiati storie sui turisti che li avevano divertiti, parlando in arabo invece che soqotri per non escludermi dalla conversazione. C’erano i vegani, la cui dieta mandava Abu Isa completamente in confusione; i turisti russi che cominciavano a bere appena svegli al mattino (a Socotra è possibile portare alcolici dall’estero e si trovano anche bevande alcoliche prodotte dai datteri locali). Alla fine, Abdullah ci ha raccontato la sua storia.
Quando era ragazzo, ha spiegato, non era raro per gli abitanti delle campagne vivere nelle grotte. Lui stesso è nato in quella dove oggi trascorre gran parte del suo tempo. Da giovane, aveva fatto parte dell’esercito dello Yemen del Sud, quando il paese era ancora diviso. A parte la breve parentesi militare, per guadagnarsi da vivere ha sempre fatto il pescatore e, oggi, l’attrazione turistica. Ci ha raccontato di avere sedici figli e circa sessant’anni, ma di non esserne sicuro.
Tour organizzati
La sua attività da cavernicolo ha, ovviamente, una storia tortuosa. Nel 2012 aveva incontrato sulla spiaggia una donna francese e le aveva proposto di andare alla sua grotta per mostrarle lo scheletro di una mandibola di balena che conservava lì. Si era accorto che la donna era rimasta affascinata dalla sua grotta (o probabilmente ancora di più dal fatto che lui affermasse di abitarci).
Più o meno in quel periodo Abdullah pensò che la grotta stessa poteva diventare un sito turistico, che si trattava di una parte della sua vita che gli sarebbe piaciuto far conoscere. Al di là dei problemi legati alla scelta di mettere in mostra uno stile di vita primitivo per intrattenere i turisti, che provengono tutti da contesti molto più privilegiati del suo, la laguna di Detwah, dove si trova la grotta, è un sito inserito nella convenzione di Ramsar, che tutela le zone umide del pianeta. Abdullah spesso pesca nella laguna per offrire da mangiare ai suoi visitatori, e considera la terra intorno alla grotta come sua, non nel senso di proprietà privata, cosa che non è (fino a poco tempo fa il concetto stesso era un anatema per l’isola), ma più nel senso di una profonda e spirituale connessione tra lui e la laguna. Non gli piace ricevere ordini dall’estero su come viverci.
Gli ho chiesto quale fosse la differenza tra il turismo a Socotra nei primi anni duemila e oggi. Anche se sembrava divertirsi a parlarmi nel suo inglese stentato, per questioni serie come questa Abdullah mi rispondeva in arabo. “All’inizio non c’era organizzazione, e non era un problema”, mi ha detto. “Ora le cose sono organizzate e ci sono problemi”. In particolare, Abdullah si riferiva ai tentativi del governo locale di mantenere i turisti all’interno di tour organizzati con un programma specifico, anziché lasciarli liberi di scorrazzare per l’isola, una restrizione ufficialmente adottata per preservare la cultura locale. Negli anni duemila le Nazioni Unite hanno finanziato lo sviluppo di campeggi nell’isola come parte delle sue infrastrutture di turismo sostenibile. I turisti dovrebbero usare solo queste strutture, ma in assenza di uno stato forte regna il disordine. Le comunità locali sgomitano per decidere in quale campeggio alloggeranno gli stranieri, nella speranza di guadagnare qualcosa dai tour escursionistici e dalla vendita di prodotti alimentari.
Abdullah ha spiegato che lavorare con gli stranieri una volta era facile perché c’erano meno regole e meno persone in concorrenza tra loro. Oggi portare i turisti da una famosa spiaggia alla sua caverna non è altrettanto semplice. Per esempio, mentre ero lì, la sua sorellastra girava per la spiaggia invitando i turisti a visitare a pagamento la caverna di Abdullah.
Da quando Socotra è diventata una destinazione più popolare, gli abitanti che riescono a trarre profitto da questo boom fanno affidamento sugli itinerari di viaggio relativamente poco flessibili che prevedono l’uso dei campeggi accreditati sparsi sull’isola. Perciò Abdullah è fuori contesto, è solo un tizio che si prende la briga di replicare la fantasia di una vita primitiva, ospitando stranieri nella sua grotta e cucinando per loro il pesce catturato con le sue stesse mani, anche se quel pesce è teoricamente protetto.
Mentre chiacchieravamo, Abdullah ha nominato la carcassa di balena che aveva scoperto anni prima, e ci ha raccontato di averne ricavato dell’ambra grigia. La voce si era diffusa in fretta, ha proseguito, e aveva cominciato a ricevere telefonate da persone in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti che volevano comprarla. Nel giro di qualche mese Abdullah aveva guadagnato una bella somma di denaro, circa 14 milioni di riyal yemeniti, più o meno 116mila dollari dell’epoca. “Ero diventato una persona importante”, ha detto, anche se era chiaro che preferiva la sua fama attuale all’attenzione ricevuta per l’ambra grigia. La viveva come un peso. “La gente del posto mi chiedeva sempre di comprargli un’auto”, ha spiegato.
Abu Isa ha aggiunto: “Chi spende soldi è karim, generoso. La gente parlerà a lungo di quella persona che ha comprato da mangiare e vestiti per tutti. La sua generosità diventerà rinomata”.
Ali e Abu Isa in effetti mi avevano raccontato diverse storie di abitanti dell’isola che dopo essersi arricchiti all’improvviso avevano speso tutto nel giro di poco tempo. C’era un uomo che lavava ogni giorno la sua auto nuova con bottiglie d’acqua minerale confezionata, offriva pranzi e qat a tutta la città, e ora non poteva più permettersi nemmeno le sigarette. E un altro che aveva speso tutto il suo denaro per sostenere la campagna di rielezione dell’ex presidente yemenita Ali Abdullah Saleh nel 1999. Saleh aveva vinto senza problemi e lui era andato in rovina. Ali e Abu Isa ridevano di queste storie, come me, ma questo rapporto con il denaro mi spiazzava, come se fosse fatto per essere subito dilapidato.
In Islands of heritage Peutz scrive che il dono reciproco era parte integrante della cultura locale quando i sultani governavano l’isola, prima del 1967. Il sultano tassava i suoi cittadini, ma ci si aspettava che in caso di necessità provvedesse alle loro esigenze. Da parte loro, i villaggi dovevano organizzare grandi feste durante le sue visite, che a volte erano le uniche occasioni per gli abitanti di mangiare carne. Era una cultura in cui le provviste erano destinate all’ospitalità, non troppo distante dalle storie delle grandi somme di denaro spese in breve tempo dagli isolani.
Messaggio di ospitalità
Dopo pranzo io e Abdullah ci siamo avviati lungo la spiaggia lucente diretti alla sua grotta. Quando la sabbia cristallina è diventata rocciosa siamo scesi dal veicolo. Abu Isa è rimasto nel furgone. Abdullah e io abbiamo guadato le acque della bassa marea della laguna, costeggiando le sponde che salivano fino a una collina rocciosa. Per strada ha raccolto rifiuti galleggianti, lattine e buste di plastica, e le ha gettate sulla spiaggia per raccoglierle più tardi. Mi ha indicato i gusci neri delle ostriche attaccati a uno scoglio semisommerso, e ha detto: “Quando sono nato, mia madre ha tagliato il cordone ombelicale con il guscio di un’ostrica”.
Dopo aver superato rapidamente delle rocce pericolanti, siamo arrivati davanti a una grande apertura. La cavità si sviluppava così in profondità che non riuscivo a vederne la fine. Su un alto blocco di arenaria all’ingresso era stata incisa la parola welcome, benvenuti, ma questo piccolo sfregio della natura non sembrava infastidire Abdullah, che anzi aveva fatto suo quel messaggio di ospitalità. “L’ha scritto un turista russo”, mi ha spiegato con un sorriso.
Mi sono seduta mentre Abdullah raccoglieva della legna per accendere un fuoco per il tè. Il mare scintillava davanti a me nel sole pomeridiano. Abdullah mi ha mostrato la collana di denti di delfino che indossava per i turisti.
“È una tradizione indossare questa collana?”, gli ho chiesto.
“No, è stata una mia idea”, ha risposto.
Molti abitanti usano il termine tatawer per descrivere il cambiamento che sta coinvolgendo la loro isola. In arabo significa “sviluppo”, ma in questo caso potrebbe essere tradotto come “progresso verso la modernizzazione” o “abbandono della tradizione”. Il _tatawer _è un concetto generale, ma indica anche alcuni aspetti specifici. Quando ho chiesto ad Abdullah in che modo secondo lui Socotra sta cambiando, lui mi ha detto che con il tatawer sono arrivati “la plastica e i rifiuti”.
Non è più come prima
La parola era emersa anche in una conversazione con due donne di una cooperativa di artigiane appena a est di Hadibu. “Ora c’è il tatawer”, mi ha detto una di loro, Selma. “Tutto si sta sviluppando. Non è più come prima”.
Eravamo sedute in una stanza sul retro del negozietto della loro cooperativa, che vende cesti intrecciati ai turisti. Secondo Selma gli aspetti positivi del tatawer sono vanificati dal largo consumo di qat: “Gli uomini hanno famiglia e figli, ma non se ne occupano. Se hanno il qat, allora è tutto a posto. Possono dimenticare le loro preoccupazioni”.
Le ho chiesto perché secondo lei l’uso del qat fosse aumentato così rapidamente. Con il qat gli abitanti di Socotra si sono lasciati andare, mi ha risposto, anche se ci sono molti problemi che meriterebbero più attenzione: “Prima ricevevi lo stipendio e potevi comprare quello che ti serviva per la casa e da mangiare. Ora non basta a coprire le spese di base”.
Mona Ahmed, una donna che gestisce un piccolo vivaio di piante autoctone in un villaggio fuori Hadibu, è stata meno allarmista. Aveva una risposta per il futuro dell’isola: “C’è un proverbio tra le donne di Socotra. ‘Se il tempo ti consuma, gratta la terra’”. In altre parole, torna alla terra.
Davanti alla casa di Mona c’era un piccolo boschetto di alberi di incenso, con i rami nodosi che si schiudevano in piccoli ombrelli di foglie verde-argento. Era una minima parte di quello che esisteva prima delle tempeste del 2015. Un recinto rudimentale costruito con le foglie delle palme da dattero teneva lontane le capre. Nonostante la sua determinazione, Mona aveva una preoccupazione: la siccità, per la quale non vedeva facili rimedi. Il suo giardino era in sofferenza, e l’acqua scarseggiava. “Da quando ero bambina non ricordo di aver vissuto una siccità come questa”, ha detto. “Speriamo che da Dio verrà il bene”.
Ho incontrato per la prima volta Nasser Abdu a Hadibu, nel ristorante di uno dei pochi alberghi di Socotra, un edificio a due piani circondato da piante endemiche di proprietà dell’Almaz, un’azienda che fa capo alla famiglia dell’ex presidente yemenita Ali Abdullah Saleh. È stato come tornare al passato dell’isola, quando l’influenza dei paesi del Golfo non era così forte.
Nasser è sulla trentina e vive in armonia con la terra, e non solo con l’idea di poterne ricavare un profitto. È un grande sostenitore della salvaguardia ambientale, un campo in cui ha cominciato a lavorare dopo una laurea in biologia all’università di Sanaa (c’è solo un’università privata a Socotra, la Socotra archipelago university, fondata nel 2021 e finanziata dagli Emirati).
Nasser è magro ed entusiasta e svolge regolarmente attività di volontariato con una cooperativa locale di cui è uno dei fondatori. La cooperativa promuove la pulizia delle spiagge, iniziative per la giornata della Terra e campagne di sensibilizzazione sull’uso eccessivo della plastica. “Una volta la consapevolezza ambientale faceva parte delle nostre abitudini”, ha spiegato. “Le persone non si trovavano di fronte a problemi come la plastica e l’abbattimento degli alberi. Ora dobbiamo sensibilizzarle su questi nuovi aspetti. Prima non avevamo la plastica e le comunità si riunivano per risolvere i problemi. Se ne discuteva insieme. Si trovava un accordo e si stabiliva una regola: lì non si pesca; questi alberi non vanno tagliati”. Con l’urbanizzazione, però, queste pratiche comunitarie sono state abbandonate in gran parte dell’isola.
Che l’ambiente fosse qualcosa da tutelare in sé e per sé, e non in quanto conseguenza delle buone pratiche agricole e di pesca, è un’idea che è stata introdotta a Socotra dagli esperti stranieri alla fine degli anni novanta. La consapevolezza che Nasser ha acquisito sarebbe considerata un ottimo risultato dai progetti di sensibilizzazione ambientale finanziati dall’Onu. In altre parole, sono stati gli stranieri a dire agli abitanti di Socotra che la loro isola era come le Galápagos, che le sue piante non crescevano in nessun altro posto del mondo, e quindi dovevano essere apprezzate per la loro unicità, piuttosto che per la loro utilità.
La settimana successiva ho incontrato di nuovo Nasser, che stava realizzando una presentazione sulla tutela dell’ambiente nella scuola di un villaggio a Homhil, una regione rurale nel nordest di Socotra. Ci era andato con una piccola delegazione dell’Epa, nell’ambito di un programma di salvaguardia ambientale rivolto ai più giovani. Sotto lo sguardo degli insegnanti, un’aula piena di studenti delle scuole medie concentrava tutta la sua attenzione su Nasser. Il generatore che aveva portato per alimentare il suo laptop borbottava lì fuori.
Nasser camminava tra le file di scolari tenendo in mano una sottile busta di plastica. I raggi di sole della tarda mattinata illuminavano l’aria polverosa intorno a lui. Spiegava agli studenti che quella busta era fatta di petrolio e che la plastica avrebbe inquinato la Terra per “migliaia di anni”. Parlava con un senso di urgenza. Le città di Socotra, d’altronde, sono disseminate di buste di plastica come questa.
La siccità estiva era finalmente finita. Presto i voli da Abu Dhabi sarebbero aumentati da uno a due alla settimana
Poi ha mostrato un breve video sul suo laptop, tenendolo sollevato così che tutti gli studenti potessero vedere. Il filmato riproduceva immagini di discariche di tutto il mondo. I bambini cercavano di stare attenti – in fondo era un film, in un’isola in cui i televisori sono pochi – ma quella lezione offriva un magro contributo a fronte di una questione molto più ampia. Gli studenti di Socotra sanno già che l’inquinamento è un problema. Però sanno anche che ormai è radicato nella vita locale e che sono pochi gli strumenti per combatterlo, a parte le capre mangiatrici di spazzatura. Perciò l’efficacia della lezione era destinata a rimanere sul piano della sensibilizzazione, niente di più.
Senza esperienza
Dopo la presentazione, Nasser ha salutato tutti e ha caricato il generatore sul pickup. Lui e i volontari si sono rimessi in viaggio verso Hadibu. Gli uomini dell’Epa sono rimasti a Homhil per chiacchierare con un uomo della comunità locale, Salah Omar.
Omar, un tipo impetuoso e un po’ scettico, si occupa di curare un piccolo vivaio nel quale coltiva alberi di incenso e alberi del drago. Dà anche una mano al campeggio di Homhil, dove alloggiano i turisti. Voleva più sostegno dall’Epa per installare delle recinzioni migliori che tenessero le capre alla larga dalle sue piantine, e più fondi per il campeggio. Ma l’Epa era al verde: lo Yemen devastato dalla guerra non aveva soldi da stanziare per i programmi ambientali. Parlavano in soqotri, e da quello che riuscivo a capire non sembrava che Omar fosse molto contento. A un certo punto la conversazione si è fatta un po’ accesa. A peggiorare le cose c’è stato Abu Isa che, con una formazione da agricoltore, non ha resistito alla tentazione di segnalare ai funzionari che Omar aveva piantato gli alberelli di incenso troppo vicini tra loro.
La discussione si è conclusa, con un po’ di tensione e risultati incerti. Poi, dopo che i funzionari se ne sono andati, io e Abu Isa ci siamo seduti con Omar a parlare del suo progetto visionario. “La mia famiglia dice che sono pazzo”, ha detto parlando del suo vivaio. “Loro dicono: ‘Noi coltiviamo palme da dattero, ma tu invece coltivi alberi’”.
In quel periodo non c’erano turisti a Homhil. La principale attrazione dell’area, una piscina naturale di acqua dolce affacciata sull’oceano Indiano sulla costa meridionale sottostante, era completamente asciutta a causa della siccità. La veduta dal campeggio era una collina riarsa. La terra assetata cancellava ogni senso di bellezza, e mi sono chiesta se i turisti evitassero Homhil a causa della siccità.
Omar però aveva un’altra teoria sulla mancanza di turisti. Sospettava che le agenzie di viaggio, che si sono moltiplicate negli ultimi anni – alcune delle quali gestite da italiani e russi –, tenessero i turisti lontano da Homhil, perché per stare qui dovevano pagare una tassa, circa 15 dollari a persona, alla cooperativa locale (nella vicina Arher, una popolare zona costiera, non ci sono tasse di questo tipo; l’area è disabitata quindi non ci sono cooperative a riscuotere). La cooperativa di Homhil invece dipende da queste entrate per finanziare i servizi essenziali: la scuola, un ambulatorio medico e i pasti per i momenti di aggregazione della comunità.
Per quanto i turisti possano voler contribuire all’economia di Socotra, la verità è che molti di loro visitano l’isola durante gite così organizzate e restrittive che la loro reale interazione con la cultura soqotri è trascurabile, fatta eccezione per il contatto con le guide turistiche, un lavoro molto ambito sull’isola, e per Abdullah e la sua grotta. Dopo i danni del ciclone, e ora con la siccità, Homhil fatica ad attirare attenzione.
Ho chiesto a Salah quale poteva essere l’ostacolo principale per attirare più turisti a Homhil. Ci ha pensato su, giocherellando con dei sassolini e poi ha detto: “La strada”. La litoranea asfaltata che collega Qalansia e Arher si trova a circa un’ora dal villaggio. La strada per Homhil è sterrata, ripida e insidiosa. Abu Isa ha ricordato di averci portato dei turisti che avevano gridato per tutto il tragitto. Gli abitanti di Homhil si lamentano di questa situazione da più di dieci anni.
“Poi c’è un altro problema. Non abbiamo esperienza in agricoltura. C’è l’acqua. C’è la terra. Ma gli strumenti e le conoscenze di base sono a zero”.
“Non ci sono corsi di formazione per gli abitanti?”, ho chiesto, pensando ai progetti internazionali di sviluppo agricolo. Tradizionalmente gli abitanti di Socotra coltivano quasi esclusivamente datteri.
“Ci sono progetti che durano più o meno un anno”, mi ha detto, “poi chiudono la baracca e lasciano l’isola”.
Come altri forestieri prima di me, mi affascinava la sua posizione remota, anche se in realtà non è mai stata davvero isolata
È un tipico problema dei progetti di sviluppo: i fondi sono soggetti ai capricci degli amministratori stranieri e alle loro priorità. I progetti possono interrompersi perché finiscono i soldi proprio mentre stanno cominciando a funzionare. Inoltre, capita che siano concepiti più per raggiungere i risultati desiderati dai donatori internazionali che per giovare alla comunità locale. Essendo una figura autorevole in un’area destinataria di progetti ambientali, Omar era consapevole dei pro e dei contro dell’intervento straniero. Gli specialisti e i ricercatori internazionali visitavano Homhil, ha spiegato, e poi replicavano i progetti realizzati dal gruppo precedente, ripetevano gli stessi studi, le stesse valutazioni, consumando fondi che per un abitante del villaggio erano esorbitanti. Intanto Homhil non aveva ancora una strada decente, e Omar non aveva i soldi per un recinto migliore per il suo vivaio, o una formazione adeguata per gestirlo.
“Per me non è un problema se il direttore di un progetto prende uno stipendio alto”, ha detto Omar. “Ma dal momento che arriva a Socotra, deve mettersi a lavorare”. Ha raccontato che di recente era arrivato a Homhil un nuovo gruppo di esperti, ma senza specificare quale istituto l’avesse mandato. Non ho capito se volesse nascondermi qualche informazione o se semplicemente l’alternarsi continuo di esperti internazionali rendesse difficile tenerne traccia.
“Hanno chiesto: ‘Che suolo avete? Cosa vi serve? Dov’è il campeggio?’”, ha ricordato Omar. “All’epoca io ero nella cooperativa e gli ho dato una lista. ‘Ci serve acqua per i villaggi. Ci serve un campeggio. Ci servono i pannelli solari’. Il tizio ha risposto: “Ok”. Si è scritto tutto. ‘Ma voglio dirti una cosa’, gli ho detto io. ‘Ho una condizione: non commettete gli stessi peccati delle persone del gruppo precedente. Se ne andavano in Europa, poi tornavano. Portavano qui degli esperti dall’Europa. E poi continuavano così, a spendere soldi per viaggiare avanti e indietro. Così sono finiti i soldi’”. Non sembrava ottimista sul fatto che la situazione sarebbe cambiata.
Lattine tra i coralli
Più tardi quel giorno, io e Abu Isa ci siamo messi in viaggio sulla ripida strada sterrata che porta a un altro campeggio vicino al mare a Di-hamri, dove mi hanno fatto pagare dieci dollari per un tè e un po’ di pane con formaggio fuso. Da Omar, anche se i turisti devono pagare per stare al campeggio di Homhil, il tè sarebbe stato sicuramente offerto in segno di ospitalità (e probabilmente poi sarebbe diventato anche un pranzo gratuito). Come a Homhil, il campeggio era un prolungamento dei progetti internazionali di tutela ambientale destinati a promuovere l’ecoturismo.
Dopo il tè, sono scesa alla spiaggia per fare il bagno. A poca distanza dalla riva c’era una barriera corallina ricca di colori e di vita marina. Mentre nuotavo ho notato delle lattine incastrate tra i coralli, sacchetti di plastica che galleggiavano come meduse. Ho pensato agli sforzi di Abdullah per rimuovere i rifiuti dalla laguna di Detwah. Cos’altro ci si può aspettare in un paese sprofondato nella guerra? Quando le bandiere che sventolano ovunque, dall’aeroporto alle basi militari ai fatiscenti edifici comunali, appartengono a un paese che non esiste?
Se un giorno Socotra dovesse entrare nella fase successiva del turismo – più alberghi, meno campeggi – forse le aziende faranno di più per pulire queste acque. Ma anche con tutti i voli in arrivo da Abu Dhabi, sembra una prospettiva lontana. Eppure anche se la vita nello Yemen a volte si muove lentamente, altre volte può cambiare in modo drastico da un giorno all’altro. E Socotra, dopotutto, fa ancora parte dello Yemen. Il suo futuro incerto e il suo caos politico lo dimostrano. In uno dei miei ultimi giorni sull’isola sono tornata dalle montagne con un altro uomo di nome Ali. Era un beduino con una risata contagiosa e un pickup in grado di affrontare le strade di montagna meglio di quello di Abu Isa. Eravamo sull’altopiano di Diksum e le nuvole incombevano basse, avvolgendo le chiome degli alberi del drago in un bozzolo di grigiume. L’auto ci sballottava sulla strada, dallo stereo uscivano le note dell’oud tipiche della musica yemenita. A un certo punto ha cominciato a piovere, prima in modo leggero, poi abbastanza forte, era la prima pioggia da mesi.
La siccità estiva era finalmente finita. Presto i voli da Abu Dhabi sarebbero aumentati da uno a due alla settimana. Gli abitanti dell’isola avrebbero fatto a gara per stare dietro all’afflusso di stranieri: più tour, più soggiorni in campeggio, più visite ad Abdullah nella sua grotta, più ricercatori per studiare la flora e la fauna di Socotra. E la fondazione Khalifah avrebbe continuato a realizzare i suoi progetti in giro per l’isola, lasciando un’impronta su Socotra, proprio come gli occupanti britannici avevano fatto un secolo prima. Stavolta, però, non sarebbe stata solo una manciata di soldati in un isolato avamposto coloniale. Lo sviluppo delle infrastrutture emiratine, e il controllo delle potenze estere sull’isola, sembravano qualcosa di più.
Ma nulla di tutto questo importava in quel momento. Importava solo che finalmente aveva cominciato a piovere. Dopo mezz’ora di tornanti per scendere verso la costa e la strada di Hadibu, io e Ali siamo passati accanto a piccole baracche che vendevano sigarette yemenite e succhi di frutta sauditi. Alcuni autostoppisti camminavano a bordo strada, coprendosi la testa con qualsiasi cosa per cercare di non bagnarsi.
“Maysa! Maysa!”, gridava Ali in soqotri a tutti quelli che superavamo. “Sta piovendo!”. ◆ fdl
Laura Kasinof è una giornalista, autrice e filmmaker statunitense. È stata corrispondente del New York Times dallo Yemen e sull’esperienza ha scritto il libro Don’t be afraid of the bullets: an accidental war correspondent in Yemen (Arcade 2014). I suoi articoli sono stati pubblicati su Foreign Policy, Harper’s, The Atlantic e Guernica. Oggi si occupa di immigrazione, religione e delle conseguenze delle politiche statunitensi nel mondo.
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Questo articolo è uscito sul numero 1574 di Internazionale, a pagina 12. Compra questo numero | Abbonati