Nel film Il caso Scorpio è tuo l’ispettore Callaghan punta la sua pistola contro un criminale e dice di non essere sicuro che in canna ci sia una pallottola. Poi pronuncia la famosa battuta del film: “Devi fare a te stesso una domanda: ‘Mi sento fortunato?’. Eh, pivello?”.
In un certo senso, questa domanda coglie alla perfezione lo stato del dibattito sulla crisi climatica alla vigilia della conferenza di Glasgow (Cop26). Quantificare l’incertezza è sempre un aspetto cruciale della scienza. Nell’esempio dell’ispettore Callaghan, prima di decidere se vale la pena di fuggire, un criminale intelligente penserà che se nel tamburo della pistola c’è una pallottola ha una possibilità su sei di morire.
Nel nostro caso, per stabilire se i riluttanti governi che parteciperanno al vertice stanno incautamente sfidando la sorte dell’umanità, la cosa migliore è concentrarsi sulle conoscenze scientifiche consolidate, le cui incertezze possono essere quantificate. È ragionevole diffidare delle ipotesi più catastrofiche e, ovviamente, anche chiedersi quanto possa essere accurata una previsione specifica e dettagliata. Ma non è ragionevole negare che stiamo correndo dei rischi già ben accertati. Misurare ciò che può e non può essere ragionevolmente messo in dubbio è indispensabile per stabilire quanto possiamo sentirci “fortunati”. Ma separare ciò che è sicuro da ciò che è incerto può essere arduo in un “dibattito” condizionato dalle emozioni, dalla politica, dal denaro e dal sensazionalismo, oltre che dalla scienza.
Non è difficile comprendere perché ci stiamo allontanando dalla scienza. Alcune persone di sinistra potrebbero accogliere con favore una totale riforma del modello economico della moderna civiltà industriale, un passaggio che giudicano, a torto o a ragione, indispensabile per affrontare la crisi climatica. I puritani austeri, invece, possono abbracciare con entusiasmo gli scenari più bui perché implicano la necessità di imporre subito drastici limiti alla produzione di energia, ai consumi e ai viaggi. Altri, in particolare i libertari, considerano queste restrizioni della “libertà personale” inaccettabili, e hanno quindi una ragione ideologica per dubitare delle previsioni apocalittiche. Di conseguenza, anche senza arrivare agli interessi personali che distorcono la lettura della scienza, la reazione immediata di ogni persona alla questione del cambiamento climatico tende a intrecciarsi profondamente con il suo dna politico.
Il dibattito ha raggiunto un nuovo livello dopo che questa estate il Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc) ha pubblicato una nuova analisi complessiva della situazione climatica globale, un rapporto terrificante che prevede conseguenze disastrose se le emissioni di gas serra non saranno ridotte nei prossimi dieci anni. Il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha definito il rapporto “un allarme rosso per l’umanità”, e la nuova amministrazione degli Stati Uniti sembra decisa a usare il vertice di Glasgow per cercare di recuperare un ruolo di guida sulla questione climatica.
Ma quanto possono essere ragionevolmente sicuri Washington e l’Ipcc? Finché non ci troveremo d’accordo su cosa ha senso o non ha senso dubitare, nell’attuale clima intellettuale sarà difficile sviluppare valide proposte, per non parlare di ottenere un ampio consenso politico su scelte dolorose.
Scetticismo interessato
Da un certo punto di vista può sembrare strano che uno scienziato di ampie vedute parli dei limiti del dubbio. Perché, per certi aspetti, il metodo scientifico si basa sul dubbio: non fidarti mai di nulla, chiediti sempre se sei veramente sicuro e preparati a falsificare e gettare a mare qualsiasi ipotesi se i risultati di un esperimento non concordano con le tue previsioni. E ci sono molti dubbi e ogni sorta di incertezze alle frontiere della scienza del clima. Uno dei tratti distintivi della buona scienza è non solo ammettere l’esistenza delle incertezze, ma anche tentare di quantificarle con cura. Le politiche sul clima possono essere considerate una risposta organizzata della società al dubbio. Almeno in teoria, i governi e le ong dovrebbero valutare varie alternative, cercando di prevedere quali politiche possono produrre i migliori risultati, riconoscendo che la loro comprensione potrebbe essere incompleta e che i risultati potrebbero essere diversi dalle aspettative.
Prima delle decisioni e delle conferenze come la Cop26, può essere utile discutere di questioni come l’utilità (o l’inutilità) economica e ambientale delle tasse sull’anidride carbonica, i limiti alle emissioni, i sussidi per le energie rinnovabili e le tecnologie a emissioni zero, le tariffe doganali sui gas serra, gli investimenti nelle tecnologie come la cattura e il sequestro dell’anidride carbonica e così via. L’incertezza dovrebbe far parte integrante di questa discussione, e i costi dovrebbero essere valutati tenendo conto dei possibili danni e di quanto sono probabili le potenziali conseguenze degli interventi proposti.
Ma è improbabile che dedicheremo tempo e risorse a misure così dirompenti se sulle principali conseguenze del cambiamento climatico restano dubbi tali da permettere a governi e cittadini di assumere razionalmente un atteggiamento del tipo “aspettiamo e vediamo”. In paesi come gli Stati Uniti, la propaganda che alimenta questo tipo di dubbi è stata straordinariamente efficace nell’impedire una risposta organizzata. Bisogna distinguere tra l’ammissione che c’è un tipo di incertezza che ogni scienza deve affrontare (compresa quella sul clima) e l’eccessivo scetticismo creato ad arte, che favorisce la paralisi convincendoci che non sappiamo assolutamente nulla. È vero che nessuna scienza raggiunge mai conclusioni definitive: anche la classica legge di gravità di Newton, che prevede accuratamente la maggior parte dei fenomeni fisici che possiamo osservare direttamente, è stata soppiantata dalla teoria della relatività generale. La relatività generale potrebbe a sua volta essere soppiantata da qualcosa come la teoria delle stringhe. Tuttavia dobbiamo contrastare la nostra naturale tendenza a saltare dalla consapevolezza che non sappiamo tutto sull’universo alla conclusione che non sappiamo quasi nulla. Anche se non abbiamo la minima idea di quale sia la causa gravitazionale della sempre più rapida espansione del nostro universo, conosciamo le forze gravitazionali del nostro sistema solare in modo abbastanza accurato da far atterrare un rover su Marte nel punto che avevamo stabilito.
Nel caso del clima, lo scetticismo è favorito dal fatto che tante cose restano da chiarire. Per fare previsioni regionali dettagliate servono modelli complessi (e talvolta interattivi) dell’atmosfera, degli oceani e delle terre emerse, e bisogna fare molti rilevamenti in tutto il mondo. Inoltre, i dati sugli eventi climatici passati a volte sono scarsi e le conclusioni che ne ricaviamo sono continuamente aggiornate con l’arrivo di nuove informazioni.
Prendiamo un paio di esempi recenti. Poco prima della pubblicazione del nuovo rapporto dell’Ipcc, la rivista Science scriveva che la maggior parte dei modelli climatici su cui si basava il documento prevedeva tassi di riscaldamento implausibilmente rapidi. Se venivano proiettati all’indietro e confrontati con i dati paleoclimatici del punto più freddo dell’ultima era glaciale, circa duecentomila anni fa, questi ultimi suggerivano che la Terra si era raffreddata di neanche sei gradi, mentre i modelli suggerivano un’escursione almeno doppia. Se le proiettiamo in avanti, le stime basate sui dati e sulle tendenze attuali suggeriscono che se il tasso di anidride carbonica nell’atmosfera raddoppierà rispetto ai livelli preindustriali l’aumento della temperatura sarà compreso tra i 2,6 e i 3,9 gradi centigradi, mentre molti dei modelli considerati dall’Ipcc prevedono un riscaldamento superiore a 5 gradi.
Allo stesso modo, un recente rapporto del Lamont-Doherty Earth observatory della Columbia university e dell’università di Utrecht suggerisce che in passato l’innalzamento del livello dei mari sia stato meno significativo di quanto si pensava, e un altro studio condotto quest’anno a Utrecht ha suggerito che nel prossimo secolo l’aumento del livello dei mari sarà del 25 per cento inferiore alle previsioni, perché il riscaldamento globale degli oceani è più lento di quanto suggerito dalle stime precedenti.
La domanda che conta
Queste sono questioni scientifiche reali che non possono essere ignorate. Se sentite un attivista affermare che tutte queste incertezze sono superate ed è ormai un fatto che restano solo dodici anni per salvare il mondo, non dategli retta. Sia lui che voi fareste meglio a concentrarvi sulla vera domanda: visto che le previsioni cambiano e talvolta sono imprecise, c’è abbastanza incertezza sulla natura, la portata e le conseguenze del cambiamento climatico per giustificare un passo indietro rispetto agli sforzi per frenare le emissioni di gas serra?
La risposta è no. L’inevitabile incertezza della scienza climatica non mette in discussione le previsioni basate su conoscenze certe. Per tornare al paragone con la gravità, ignorare le verità scientifiche consolidate a causa delle incertezze sulle ultime scoperte è come pensare che visti i dubbi sulla gravità quantistica ci si può gettare dal settimo piano perché si potrebbe anche cadere verso l’alto invece che verso il basso.
Le basi scientifiche del cambiamento climatico risalgono a più di 150 anni fa e funzionano, perché sono state verificate nell’arco di più di un secolo con esperimenti facilmente replicabili, elementari come misurare quanto si riscaldano le ampolle riempite con diversi gas. Inoltre le previsioni climatiche generali basate su questa scienza fondamentale concordano con le osservazioni fatte negli ultimi sessant’anni.
Quando si ha una teoria generale ben fondata le cui previsioni concordano perfettamente con le cause note e gli effetti osservati, è molto probabile che la strada sia quella giusta. Non si può mai escludere del tutto una strana cospirazione cosmica che, per coincidenza, riproduca esattamente gli effetti previsti da una serie di teorie consolidate. Ma il modo migliore di fare i conti con questa bizzarra possibilità può essere riassunto con il detto: “se cammina come un’anatra e starnazza come un’anatra, probabilmente è un’anatra”.
Le basi dell’emergenza
Questi sono i princìpi fisici fondamentali e le osservazioni che confermano la realtà del cambiamento climatico provocato dall’attività umana.
- Se l’energia in ingresso è uguale all’energia in uscita, la temperatura complessiva della Terra resta costante: possiamo misurare l’energia totale in ingresso quando il Sole è a picco, ed equivale a 1.361 watt per metro quadrato. In media, tenendo conto delle ore notturne e delle regioni in cui il Sole è a un angolo inferiore, sulla Terra questo input energetico si riduce di tre quarti, fino a un valore di 340 watt per metro quadrato. Ma qualunque sia questo numero, se la stessa quantità di energia che arriva sulla Terra viene dispersa nello spazio, la temperatura non aumenterà.
- Se non ci fosse l’atmosfera e la Terra irradiasse nello spazio 340 watt per metro quadrato, in base alle leggi della termodinamica che consideriamo valide da 175 anni (secondo cui tutti i corpi irradiano una quantità di energia proporzionale alla quarta potenza della loro temperatura) la temperatura superficiale media della Terra sarebbe di circa 18 gradi sotto zero.
- La temperatura media effettiva della Terra è di circa 15 gradi. Questo perché il pianeta è avvolto da un’atmosfera che trattiene molta energia termica. Circa il 30 per cento dell’energia solare che colpisce la Terra viene riflesso subito nello spazio dalla parte superiore dell’atmosfera. Il resto viene assorbito dall’atmosfera e dalla Terra. La superficie terrestre poi irradia questa energia in forma di radiazione infrarossa, ma prima che possa arrivare nello spazio deve attraversare l’atmosfera. È la proporzione di energia che viene assorbita a questo punto che determina quanto il nostro mondo si riscalda, e questo dipende dalla proporzione tra i gas che compongono l’atmosfera.
- Quando la percentuale di anidride carbonica aumenta, l’atmosfera diventa meno “trasparente” alla radiazione infrarossa. L’anidride carbonica assorbe l’energia termica, così come l’acqua. Questo fu dimostrato per la prima volta nel 1860 dallo scienziato irlandese John Tyndall, che misurò la quantità di radiazione termica che si trasmetteva attraverso ampolle con gas diversi. Mentre si dirige verso lo spazio, tutta l’energia irradiata deve passare attraverso la parte superiore dell’atmosfera, dove c’è pochissimo vapore acqueo, quindi è sostanzialmente l’anidride carbonica a determinare quanto quello strato sia trasparente all’energia termica in uscita: più ce n’è, meno energia arriva nello spazio. E se viene emessa meno radiazione verso lo spazio, mentre la quantità di radiazione proveniente dal Sole rimane la stessa, l’equilibrio viene alterato (questa deviazione si chiama “forzante radiativo”). C’è dell’energia termica in più che torna sulla superficie terrestre, riscaldandola.
- Il forzante radiativo prevedibile in base all’eccesso di anidride carbonica nell’atmosfera è compreso tra 1,5 e 3 watt per metro quadrato su tutta la superficie terrestre, un dato confermato dai rilevamenti. Anche con più anidride carbonica di prima, se la nuova miscela di gas restasse stabile prima o poi l’equilibrio sarebbe ripristinato: un pianeta e un’atmosfera più caldi rilascerebbero abbastanza energia termica nello spazio da compensare la radiazione solare in arrivo. Ma se si continua a pompare anidride carbonica nell’atmosfera, il forzante radiativo aumenterà e l’equilibrio non sarà ristabilito: la temperatura del sistema Terra-atmosfera continuerà a salire.
Queste sono le nozioni assodate di fisica e chimica che costituiscono la base dell’attuale scienza del riscaldamento globale. Sono confermate da una vasta gamma di osservazioni, tra cui le misurazioni della radiazione in entrata e in uscita effettuate dai satelliti e da terra e i rilevamenti dell’anidride carbonica e delle temperature in tutto il mondo. La previsione fondamentale, secondo cui la produzione di gas serra dovuta alle attività umane tra il 1900 e il 2020 avrebbe aumentato la temperatura della Terra di circa 1,2 gradi centigradi, è stata verificata.
La maggior parte della superficie terrestre è coperta d’acqua, e gli oceani regolano la distribuzione della temperatura. In questo caso i rilevamenti sono particolarmente significativi. Nel 2019 la temperatura media degli oceani era di 0,075 gradi più alta rispetto alla media del periodo tra il 1980 e il 2010. Può non sembrare molto, ma equivale al calore prodotto dalla detonazione di 3,6 miliardi di bombe atomiche come quella di Hiroshima, ovvero più di quattro al secondo, giorno e notte, 365 giorni all’anno negli ultimi 25 anni.
Ci vuole un po’ prima che l’energia aggiuntiva che si accumula sulla Terra a causa del forzante radiativo sia distribuita completamente e uniformemente nelle profondità oceaniche. Anche se l’emissione di gas serra s’interrompesse oggi, nei prossimi secoli il forzante radiativo che è già stato provocato determinerebbe un ulteriore aumento della temperatura degli oceani di quasi 0,5 gradi.
Mezzo metro basta
Nel valutare il probabile impatto dei cambiamenti climatici tra tante incertezze, questo ulteriore riscaldamento degli oceani è significativo. È noto da millenni che l’acqua si espande quando si riscalda, e il cambiamento della temperatura degli oceani in questo secolo produrrà un aumento del livello dei mari di almeno 25 centimetri.
Senza contare le preoccupanti incertezze sullo scioglimento dei ghiacciai e delle calotte glaciali. Recentemente è stato riferito che sulla sommità nevosa della Groenlandia è piovuto per la prima volta nella storia documentata. Nell’ultimo decennio la calotta glaciale della Groenlandia ha continuato a sciogliersi a un ritmo per lo più costante, a volte accelerato. Anche secondo le stime più prudenti, lo scioglimento dei ghiacci della Groenlandia e di quelli dell’Antartide occidentale, sommato all’espansione dovuta all’aumento delle temperature oceaniche, produrrà un aumento minimo complessivo del livello delle acque di circa mezzo metro entro il 2100, anche se il mondo dovesse ridurre le emissioni di gas serra in linea con le promesse fatte all’ultimo importante vertice sul clima prima di Glasgow, quello di Parigi del 2015.
Mezzo metro può non sembrare tanto, ma dipende dal punto di vista. Se qualcuno tenesse sospesa una palla da bowling a cinquanta centimetri dal vostro piede, non vi sembrerebbe poco. Ma un piede rotto guarisce. Più di cento milioni di persone vivono nelle aree costiere che si troveranno sotto la linea dell’alta marea entro la fine di questo secolo. Molte di queste persone perderanno per sempre le loro proprietà e i loro mezzi di sostentamento.
Nel 2020 ho passato diverse settimane nella regione del fiume Mekong, dove più di 14 milioni di persone dipendono direttamente dalla salute dell’ecosistema, e più di 60 milioni dipendono indirettamente dalle più fertili risaie del mondo. Se il mar Cinese meridionale renderà salmastra l’acqua delle pianure, le risaie lasceranno il posto alle paludi di mangrovie e un sistema fluviale che oggi produce più pesce di quello pescato negli Stati Uniti non esisterà più.
Per gli abitanti del Vietnam meridionale, che è quasi tutto a meno di un metro sul livello del mare, e di molti altri luoghi immediatamente minacciati dall’innalzamento dei mari, stabilire se le temperature aumenteranno di 2 o 4 °C o se il livello del mare aumenterà di più di un metro è una questione piuttosto accademica. Non ci sono dubbi ragionevoli sul fatto che queste comunità dovranno presto affrontare gli effetti degli sconvolgimenti climatici in corso, dovuti non alle future emissioni di anidride carbonica, ma al cambiamento già reso inevitabile dalle emissioni passate.
In sintesi, sappiamo quasi con certezza che se vogliamo evitare alcune delle peggiori conseguenze per le popolazioni più povere del mondo nelle regioni equatoriali, dobbiamo intervenire al più presto sugli effetti già noti del cambiamento climatico. Davanti all’aumento della siccità, sarà importante garantire l’accesso a tecniche agricole moderne, all’acqua pulita e a fonti di energia affidabili, e per far fronte all’innalzamento dei mari bisognerà costruire infrastrutture costiere.
Scoppio ritardato
Dato che le conseguenze dei cambiamenti climatici in altre parti del mondo potrebbero manifestarsi solo tra molti decenni o addirittura secoli, alcuni potrebbero non cogliere l’urgenza di ridurre le emissioni di gas serra. Ma qui entra in gioco un’altra nozione fondamentale della chimica atmosferica, indipendente dalle attuali incertezze sui modelli degli sviluppi climatici: la certezza che l’aumento della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera non s’invertirà per almeno mille anni.
L’umanità pompa ogni anno nell’atmosfera più o meno dieci miliardi di tonnellate di anidride carbonica, e circa cinque resteranno lì per un millennio. L’effetto cumulativo è misurabile: negli ultimi sessant’anni, per esempio, la concentrazione di questo gas nell’atmosfera è salita di più del 30 per cento. Se le emissioni resteranno invariate, entro il 2050 la presenza di anidride carbonica nell’atmosfera sarà raddoppiata rispetto all’era preindustriale, quando ce n’erano 600 miliardi di tonnellate. E quasi tutta questa anidride carbonica in più rimarrà nell’atmosfera per il prossimo futuro, anche se l’uso di combustibili fossili sarà fermato o ridotto immediatamente.
Se ci poniamo l’ambizioso obiettivo di limitare l’aumento della concentrazione totale di anidride carbonica nell’atmosfera a meno del doppio rispetto ai livelli preindustriali, come previsto dall’accordo di Parigi, ogni decennio in cui continueremo a emettere anidride carbonica ai livelli attuali renderà necessarie riduzioni più severe e quindi più dirompenti per la nostra società e per la nostra economia. Se avessimo cominciato a ridurre le emissioni nel 2010, sarebbe bastato un taglio del 3,7 per cento ogni anno. Cominciare nel 2020 comportava già un calo del 9,0 per cento all’anno. Aspettare un altro decennio significherebbe che le riduzioni necessarie diventerebbero probabilmente impossibili.
Oltre a questo, c’è la questione dei punti di non ritorno climatici, che potrebbero provocare cambiamenti drastici e irreversibili a causa del ciclo di retroazione tra i vari effetti: la possibile scomparsa della calotta glaciale della Groenlandia è un esempio particolarmente inquietante. Se dovesse scomparire del tutto, come è successo a volte in un lontano passato, il livello dei mari aumenterebbe di circa sette metri, abbastanza da inondare quasi tutte le principali città costiere della Terra, un esito che sarebbe senza dubbio disastroso.
I modelli suggeriscono che un aumento medio della temperatura di 5-7 gradi destabilizzerebbe in modo irreversibile la calotta glaciale, che scomparirebbe nel giro di qualche secolo o di un millennio. Alcuni modelli, tuttavia, suggeriscono che anche un aumento della temperatura di appena 2 gradi basterebbe a minarne irreversibilmente la stabilità, sebbene più lentamente. I due scenari prevedono tempi diversi, ma il risultato finale sarebbe lo stesso.
Non possiamo dire con certezza quando potrebbe essere raggiunto un simile punto di non ritorno. I cicli di retroazione sono intrinsecamente diabolici, perché implicano l’interazione tra più processi. Quindi, anche se possiamo prevedere dove potrebbero verificarsi, è molto difficile stabilire esattamente fino a che punto la situazione può precipitare prima che si verifichino. I dubbi sulla probabilità e sui tempi sono del tutto legittimi, quelli sull’importanza della posta in gioco no.
Vista l’incertezza su quanto sono imminenti gli effetti devastanti a livello globale, potremmo scommettere sui modelli in base a cui la calotta resisterà fino a un aumento della temperatura di cinque gradi e oltre. Oppure potremmo cercare di evitare che le temperature raggiungano il valore più basso da cui, secondo altre proiezioni, potrebbero cominciare i problemi. Si torna alla domanda dell’ispettore Callaghan: ci sentiamo fortunati?
Con il passare del tempo, con lo sviluppo di modelli migliori e la disponibilità di più dati, le incertezze legate alle previsioni climatiche diminuiranno. Ma anche oggi che i dubbi sono ancora molti, non bastano a cancellare le realtà fondamentali del cambiamento climatico. Né possono essere usati come scusa per non agire.
Come ha detto una volta l’ex editore del New York Times: è bene mantenere sempre la mente aperta, ma non così aperta da far cadere fuori il cervello. ◆ bt
Lawrence M. Krauss è un fisico teorico statunitense. Ha scritto The physics of climate change (Head of Zeus 2021).
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Questo articolo è uscito sul numero 1433 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati