Quando ero bambina, nell’Albania comunista la felicità si chiamava Aniushka. Aniushka era una grossa bambola cecoslovacca che stava a casa dei miei vicini. Poiché lavoravano per il partito, una volta erano potuti andare a Praga e avevano riportato Aniushka per arredare la loro camera da letto. In Albania non la vendeva nessuno.
Aveva i capelli folti e neri raccolti in uno chignon, e indossava un abitino stile impero di raso arancione, decorato con dei merletti. Le labbra erano color rosso acceso e aveva gli occhi blu, con lunghe ciglia scure che le davano un’espressione sognante. Seduta maestosamente sul letto con l’abito steso sul materasso, dava all’anonimo arredamento comunista una solenne aria asburgica. Passavo ore a fissarla, desiderando ardentemente di toccarla. A volte mi sedevo su una sedia davanti alla soglia della camera da letto – non mi era permesso avvicinarmi di più – e mi chiedevo se un giorno, magari, le sarebbe piaciuto essere un giocattolo invece di un oggetto ornamentale.
Dopo la caduta del comunismo, le persone hanno cominciato a riarredare le case con letti e armadi in stile occidentale. Anche il tempo di Aniushka era finito, e i miei vicini mi hanno chiesto se mi sarebbe piaciuto averla. “Ti piaceva tanto quando eri piccola”, mi hanno detto. Io però non la volevo più. Forse ero diventata troppo grande per i giocattoli. Oppure era difficile immaginare Aniushka, con la sua aria imperiale, in un luogo diverso dall’austero letto comunista dei miei vicini.
Probabilmente però il motivo era un altro. C’è qualcosa di destabilizzante nel ricordare desideri fortissimi che con il tempo sono sbiaditi, come se in realtà non fossero mai stati davvero intensi o non ci fossero mai appartenuti.
Aniushka rappresentava davvero la felicità, o è la nostra idea di felicità che, per natura, si basa su tutto ciò che è inaccessibile?
C’è qualcosa di destabilizzante nel ricordare desideri fortissimi che con il tempo sono sbiaditi, come se in realtà non fossero mai stati davvero intensi o non ci fossero mai appartenuti
Il poeta tedesco Johann W. von Goethe la pensava così. La felicità, diceva, è una palla a cui corriamo dietro ovunque rotoli, e quando si ferma la spingiamo avanti con i piedi. Palla o bambola, questa interpretazione mi sembra plausibile. Rimango sempre perplessa quando la ricerca della felicità viene presentata come una cosa ovvia, una specie d’istinto che dovrebbe essere comune a tutti. Dopo la fine della guerra fredda, in Albania sulle magliette si leggeva spesso la frase “Don’t worry, be happy”, non preoccuparti, sii felice. E perché mai? Non credo che eliminando la preoccupazione resterebbe molto della felicità. Ogni azione richiede un misto d’insicurezza, incoerenza del gesto, tentazione del male, incertezza della soddisfazione. Se astraiamo tutto questo dalla ricerca della felicità, è difficile dire che cosa rimanga.
Sono ancora più perplessa, e in qualche misura preoccupata, quando la ricerca della felicità si eleva dalla sua condizione di obiettivo individuale e diventa il fondamento della vita politica. Prendiamo la dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America, in cui la ricerca della felicità è presentata come una “verità di per se stessa evidente”, un diritto inalienabile dato in dono a tutti gli esseri umani. Qualcuno potrebbe obiettare che qui c’è un problema di esclusione. La correttezza storica di questo giudizio è filosoficamente speculare agli errori di una teoria morale che promuove “la massima felicità per il maggior numero” di persone.
È una delle frasi più famose di Jeremy Bentham, padre fondatore dell’utilitarismo e tra i maggiori ispiratori del pensiero economico liberale. “E il minor numero?”, verrebbe da chiedergli. E tutti quelli che non sanno qual è la loro felicità? Si può misurare la felicità? La felicità di una persona può essere davvero cercata senza causare l’infelicità di un’altra? E se la felicità, per sua natura, incapsulasse la soddisfazione di desideri che sono sempre relativi e relazionali, e magari anche distruttivi?
C’è una concezione della felicità che trovo persuasiva, ma solo perché non riguarda affatto la felicità. Il filosofo tedesco Immanuel Kant sosteneva che la felicità non può mai essere il principio guida delle nostre azioni. Al massimo è qualcosa che possiamo sperare di raggiungere se facciamo il nostro dovere. Facciamo ciò che è giusto perché è giusto farlo, non perché ci aspettiamo una ricompensa. La felicità può arrivare (o non arrivare) in seguito a un comportamento virtuoso, ma non dev’essere la condizione del nostro agire.
Alcuni trovano questa concezione insopportabilmente triste, insopportabilmente protestante o insopportabilmente entrambe le cose. Altri dicono: ma se trasformiamo il rapporto con gli altri in un elenco di obblighi morali che relegano i sentimenti e la soddisfazione al secondo posto, non togliamo ogni gioia alla vita?
Io, invece, ho sempre trovato quest’idea allo stesso tempo liberatoria e responsabilizzante. Ci spinge a concentrarci sul mondo nella sua pienezza e a interagire con gli altri, consapevoli della nostra finitezza, coscienti dell’arbitrarietà delle inclinazioni e della contingenza dei desideri. C’incoraggia ad accettare la preoccupazione e ad apprezzare lo sforzo, a cercare il significato della vita al di là del piacere individuale. Non penso affatto che sia triste. E comunque, cosa c’è di più spaventoso di “Don’t worry, be happy”, l’imperativo di cercare qualcosa che per definizione è irraggiungibile? ◆ fas
Lea Ypi è una filosofa e scrittrice albanese. Insegna filosofia politica alla London school of economics, nel Regno Unito. Il suo ultimo libro pubblicato in italiano è Libera (Feltrinelli 2022). Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian con il titolo What a Czechoslovakian doll taught me about happiness – and its dark side.
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Questo articolo è uscito sul numero 1515 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati