S viluppare le relazioni tra i due paesi. È questo il principio alla base del piano presentato il 6 marzo dal governo di Seoul per risarcire i sudcoreani costretti ai lavori forzati durante i trentacinque anni d’occupazione giapponese (dal 1910 al 1945).
La proposta, però, non prevede che Tokyo si assuma le sue responsabilità storiche né tantomeno che le aziende giapponesi colpevoli di crimini di guerra chiedano scusa e risarciscano le vittime. Niente di quanto annunciato finora è nel solco della sentenza della corte suprema sudcoreana che nel 2018 aveva condannato alcune imprese giapponesi, tra cui la Mitsubishi, a ripagare i danni.
Sembra piuttosto una vittoria del governo giapponese, che aveva criticato quella sentenza definendola una violazione del diritto internazionale.
È un passo indietro anche rispetto al discorso pronunciato nel 2022 dal presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol che, nella giornata dell’indipendenza, si era impegnato a raccogliere lo spirito della dichiarazione congiunta tra Corea del Sud e Giappone del 1998, basata su due pilastri: “Affrontare a viso aperto il passato” e “costruire una relazione orientata al futuro”.
Da colpevoli a spettatori
La soluzione proposta dall’amministrazione Yoon si concentra esclusivamente sul futuro e contrasta con il principio del diritto internazionale umanitario secondo cui le vittime vanno messe al centro. “È come se Seoul fosse saltata nel fuoco con le mani legate dietro la schiena”, afferma un osservatore di lungo corso delle relazioni tra Corea del Sud e Giappone. “E questo potrebbe condurre a un conflitto molto più grave rispetto a quello causato dall’accordo sulle ‘donne di conforto’” firmato dai leader dell’epoca dei due paesi, Park Geun-hye e Shinzo Abe, il 28 dicembre del 2015 .
Il piano, inoltre, prevede che i danni causati dalle aziende giapponesi siano risarciti dalla Fondazione per le vittime della mobilitazione forzata dal Giappone imperiale, un ente con sede a Seoul e finanziato da fondi privati. Ma affidare l’onere dei rimborsi a terzi rischia di indebolire la decisione della corte, secondo cui l’accordo del 1965, che ha ristabilito le relazioni diplomatiche tra Corea del Sud e Giappone, non “estingueva le rivendicazioni di singoli cittadini coreani”, riconoscendo così alle vittime dei lavori forzati il diritto a rivalersi direttamente sulle aziende che hanno violato il diritto internazionale. Questa soluzione attribuisce ai colpevoli un ruolo da spettatori , ignorando lo spirito della sentenza che cercava di “rimediare ai danni causati dalla colonizzazione illegale e dalle guerre di aggressione” alla luce di quanto stabilito dalla costituzione della Repubblica di Corea.
Ecco perché molti esperti di relazioni tra Corea e Giappone, tra cui il docente dell’università nazionale di Seoul Nam Ki-jeong, temono che il rimborso indiretto previsto da Yoon “potrebbe essere interpretato a favore del Giappone, secondo il quale il dominio coloniale era legale”.
In Corea del Sud ci sono ancora 66 processi in corso, e le 1.124 vittime coinvolte dovrebbero vincere, a meno che la corte suprema non ribalti la sentenza del 2018. Di sicuro il governo di Yoon non può dichiarare unilateralmente “risolta” la questione.◆ gim
◆ Nel 1910 la Corea è stata annessa al Giappone e l’occupazione è durata fino al 1945. In trentacinque anni almeno duecentomila coreane diventarono jūgun ianfu, “donne di conforto”, cioè schiave sessuali. E altrettante persone furono costrette ai lavori forzati nelle aziende giapponesi. Il tema è stato affrontato per la prima volta solo nel 1965, con il ripristino delle relazioni diplomatiche tra i due paesi: il Giappone versò trecento milioni di dollari di riparazioni, considerando la controversia conclusa. Nel 2018, però, la corte suprema sudcoreana ha riconosciuto alle vittime dei lavori forzati la possibilità di rivalersi direttamente sulle aziende giapponesi, e Seoul ha appoggiato la decisione. La recente proposta del presidente Yoon Suk-yeol è un segnale di distensione verso Tokyo, dettato dall’esigenza di bilanciare l’influenza della Cina nella regione. The Diplomat.
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Questo articolo è uscito sul numero 1503 di Internazionale, a pagina 30. Compra questo numero | Abbonati