Lo schermo è nero, poi appare la prima inquadratura. Hayao Miyazaki, uno dei più grandi registi di sempre, il più importante nella storia del cinema d’animazione, è seduto davanti a una stufa di ghisa con un tubo che sale verso il soffitto, accanto a una finestra socchiusa. Fuori, il sole brucia tra i rami degli alberi. Tre piccole mele sono appoggiate su un ripiano di mattoni rossi dietro la stufa. Ha un grembiule avorio chiuso con un unico bottone sul lato sinistro sopra una camicia bianca ben stirata. Lo stesso tipo di grembiule che indossa da anni come tuta da lavoro e divisa per mostrarsi in pubblico per ricordarci che è allo stesso tempo un artista e un artigiano, sempre attento a non imbrattarsi di pittura.
Barba e baffi bianchi corti e curati, capelli bianchi che sembrano sfumare in un alone di luce mentre mi guarda tranquillo dietro gli occhiali neri da gufo attraverso gli undicimila chilometri che separano Tokyo da New York.
Ho un’ora per fargli delle domande. È un dono prezioso, perché Miyazaki da tempo preferisce non parlare con la stampa se non quando è strettamente necessario (vale a dire quando lo costringono a promuovere un film) e non concede un’intervista a un giornale in inglese dal 2014. Il nostro colloquio è stato organizzato dal nuovo Academy museum of motion pictures di Los Angeles, che a settembre ha allestito la prima retrospettiva della sua opera in Nordamerica, con il cauto assenso dello Studio Ghibli (la casa di produzione di Miyazaki). Jessica Niebel, la curatrice, parla di lui come di un autore esemplare che “è riuscito a restare fedele a se stesso” girando film “accessibili a persone di ogni luogo”.
So di essere fortunata ad avere questo tempo, eppure sento che c’è qualcosa di sbagliato nell’incontrarlo in questo modo, da lontano (a causa della pandemia) e attraverso un computer, un dispositivo che lui notoriamente evita.
Usa una tavolozza di colori saturi, brillanti ma mai sgargianti, che risaltano sui toni grigi
Perché, in un’epoca di tecnologia avanzatissima, i suoi film d’animazione la rifiutano in modo radicale. Il mio vicino Totoro (1988) racconta la delicata amicizia tra due bambine e un’enorme creatura della foresta che grugnisce e che solo loro possono vedere. Nell’epopea ecologista della Principessa Mononoke (1997) la protagonista, una ragazza cresciuta dai lupi, compare per la prima volta mentre succhia il sangue da una ferita sul fianco della madre lupa (l’eroe, un principe in esilio, vede la sua faccia imbrattata di sangue e s’innamora). La favola fantasmagorica della Città incantata (2001) è la storia di una ragazzina timorosa che deve farsi coraggio e salvare i suoi genitori imprudenti (trasformati in porci) lavorando in un bagno pubblico frequentato da una rumorosa varietà di divinità. Miyazaki disegna sempre i confini più selvaggi dell’immaginazione e i ritmi più folli del movimento (le onde tempestose che diventano simili ad anguille in Ponyo sulla scogliera, del 2008, le case che si alzano e sobbalzano per la forza del terremoto in Si alza il vento, del 2013) quasi interamente a mano. E a differenza di Walt Disney, l’unica figura di statura paragonabile alla sua nell’animazione, Miyazaki, ottant’anni, non si è mai ritirato nel ruolo dell’impresario che dà ordini dall’alto: allo Studio Ghibli, che ha fondato insieme al regista Isao Takahata nel 1985, ha sempre lavorato in trincea, parte di una squadra di produzione di un centinaio tra animatori e artisti tra le cui scrivanie ha girato ogni giorno per decenni (la sua, di scrivania, è poco più grande delle loro). Disegna ancora lui la maggior parte dei fotogrammi di ogni film. Solo occasionalmente ha usato immagini create al computer, e in alcuni film nemmeno una volta.
“Sono convinto che lo strumento di un autore di film d’animazione sia la matita”, mi dice (parliamo con l’aiuto di un’interprete, Yuriko Banno). Le matite giapponesi sono particolarmente buone, osserva: la grafite è delicata e sensibile, e il legno è quello del sugi (cedro giapponese), anche se, riflette, “in Giappone non vedo più molti alberi dal legno pregiato”.
La porcilaia
Miyazaki vive con la moglie Akemi, anche lei in passato disegnatrice. Si sono conosciuti quasi sessant’anni fa, quando erano colleghi alla Toei Animation, si sono sposati nel 1965 e lei, su richiesta del marito, ha smesso di lavorare per crescere i loro due figli; ma, come ha ammesso una volta Miyazaki, “non gliel’ha ancora perdonato”. Abitano a Tokorozawa, a nord di Tokyo, dove la Fondazione Totoro (sostenuta in parte dai Miyazaki) ha comprato più di dieci ettari di bosco per preservarne le querce e gli alberi della canfora. Oggi però mi parla dal suo piccolo atelier privato vicino allo Studio Ghibli, a Koganei, un sobborgo di Tokyo. A volte lo chiama affettuosamente butaya, “porcilaia” in giapponese (gli piacciono i porci, e spesso fa degli schizzi di sé con l’aspetto di un maiale). Di fronte è parcheggiata la sua Citroën 2CV grigio-nuvola, con un minuscolo motore a due cavalli e un tettuccio apribile che quando piove perde (il modello è uscito di produzione nel 1990); una sua versione color vinaccia appare in una scena di caccia lungo la scogliera nell’esordio alla regia di Miyazaki, Lupin III. Il castello di Cagliostro (1979). Ogni dicembre, per salutare i bambini che passano, Miyazaki mette sul davanzale della cucina delle adorabili caprette di peluche, ricordo del suo lavoro negli anni settanta alla serie tv Heidi. La bambina della Alpi. Quando l’Academy museum gliene ha chiesta una da esporre alla mostra, ha esitato. I bambini ne avrebbero sentito la mancanza.
Il butaya doveva essere uno studio in cui il regista avrebbe potuto dedicarsi a progetti personali una volta in pensione. L’ha costruito nel 1998, dopo aver dichiarato che non avrebbe più fatto film, poi l’anno dopo è tornato allo Studio Ghibli con l’idea di una storia. Sarebbe diventata La città incantata, che nel 2003 ha vinto l’Oscar come miglior film d’animazione, unico film non occidentale premiato in questa categoria.
Nel 2013 Miyazaki ha annunciato di nuovo di aver chiuso con il cinema, e questa volta, dopo aver realizzato undici lungometraggi in 34 anni, è stato preso sul serio: lo Studio Ghibli ha chiuso il reparto produzione. Eppure ora sta lavorando a un nuovo film. “Perché mi andava”, dice, e sorride come un ladro brizzolato tornato in scena per un ultimo colpo.
Magnifici, profondi, illimitati nelle loro possibilità: tutto giusto, ma i film di Miyazaki sono soprattutto avvincenti. È un maestro della suspense, sia che costringa una ragazzina in fuga a scivolare giù lungo un tubo traballante che si stacca dal muro mentre lei corre (La città incantata) sia che insegua una strega alle prime armi in equilibrio precario su una scopa perché ha dimenticato come si vola e deve impararlo di nuovo in gran fretta per salvare un amico (Kiki – Consegne a domicilio, 1989). Il suo stile visivo è al tempo stesso intimo e maestoso, un insieme di linee fluide, morbide e di un accumularsi di dettagli – a differenza degli anime più diffusi e delle loro caricature e movimenti a scatti, usati perché richiedono meno fatica – che gli consente di evocare l’immediatezza della vita senza essere vincolato ai suoi contorni precisi. Usa una tavolozza di colori saturi, brillanti ma mai sgargianti, che risaltano sui toni grigi e cinerei, e fa attenzione agli imprevedibili mutamenti di luce e ombra, soprattutto alle ombre nelle ombre che danno leggerezza e profondità alla notte. È espressivo allo stesso modo nei primi piani e nelle panoramiche, e virtuosistico nei suoi cieli sterminati: crea nuvole che sono quasi personaggi a sé stanti, che si tratti di cumuli alti e incombenti, di ampie nuvole pietrose o di spirali voluttuose come corolle di fiori macchiate dal tramonto o dall’azzurro sempre più intenso del giorno.
E con quanta facilità Miyazaki passa da un registro all’altro, dal tono sommesso a quello chiassoso, spesso nella stessa scena, come in quella comica dell’imponente Totoro, con i suoi artigli giganti, accanto a due bambine alla fermata di un autobus nell’oscurità. Piove, una bambina gli offre un ombrello, un oggetto che lui non ha mai visto prima. Un rospo lo osserva dall’altro lato della strada, come se fosse altrettanto perplesso. Sugli alberi si distinguono alcune gocce particolarmente grandi che cadono da un ramo e atterrano rumorosamente sull’ombrello. Totoro sobbalza. Arrivano altre gocce, un tamburellare sempre più fitto, e i suoi occhi si spalancano. Solleva il corpo in aria e atterra con un botto, e tutte le gocce intrappolate negli alberi precipitano provocando la sua tempesta personale. E poi – perché ovviamente c’è dell’altro – arriva l’autobus, solo che è un gatto velocissimo con fari al posto degli occhi e una porta che si apre sul suo fianco per caricare Totoro in gran fretta.
Ma Miyazaki è anche un realista. Verso la fine del Castello errante di Howl, il suo film del 2004 dedicato quasi interamente alla magia – una strega trasforma una ragazzina in una donna anziana, un mago assume le sembianze di un oscuro uomo-uccello, un castello si solleva e sferraglia in giro su zampe dotate di artigli – un dirigibile panciuto si profila minaccioso all’orizzonte e comincia a sganciare bombe su una città lastricata di ciottoli. Dalle case si levano fiamme e nuvole nere; il cielo si tinge di rosso. Non ci sono guerre nel romanzo della scrittrice britannica Diana Wynne Jones da cui il film è tratto. È un ricordo di Miyazaki.
È nato nel 1941, lo stesso anno dell’attacco aereo giapponese a Pearl Harbour, e aveva quattro anni quando gli aerei statunitensi bombardarono la città di Utsunomiya, dove la sua famiglia era stata evacuata da Tokyo. In Il regno dei sogni e della follia, documentario di Mami Sunada dedicato allo Studio Ghibli uscito nel 2013, racconta di aver visto un bagliore alla finestra e di essersi nascosto sotto un ponte, con le gambe in un canale. Mentre le bombe incendiarie continuavano a cadere, suo padre gli fece risalire la sponda del fiume per raggiungere un piccolo camion e scappare. Mentre Miyazaki e suo padre si sistemavano sul fondo, una donna con un bambino chiese di salire, ma fu lasciata a terra. “Li lasciammo a terra”, dice Miyazaki. Un mese dopo, gli Stati Uniti lanciarono le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, e il Giappone si arrese. Seguirono altre umiliazioni: la rinuncia dell’imperatore al suo status divino, lo smantellamento delle forze armate del paese e l’abiura ufficiale della guerra, sancita nella costituzione. Anche se Miyazaki era troppo giovane per capire appieno la portata di quegli eventi, quel periodo rimane una pietra angolare del suo lavoro, com’è stato ed è per molti artisti giapponesi diventati adulti durante la guerra o subito dopo.
Forse il più straziante film giapponese sulla guerra è Una tomba per le lucciole, che Isao Takahata adattò da un racconto di Akiyuki Nosaka del 1967. Racconta la storia di due bambini che restano senza casa dopo un’incursione aerea, ed è carico dei ricordi dello stesso Takahata, che a nove anni fuggì da un bombardamento e si ritrovò a vagare per due giorni senza nulla da mangiare e con i piedi bruciati dall’asfalto fuso.
C’è un rimpianto lievemente luttuoso per un Giappone più antico
Si potrebbe sostenere che la stessa nascita del cinema d’animazione giapponese, sia nel suo filone mostro/supereroe sia nelle sue vene più liriche, sia stata una reazione allo shock della sconfitta e alla paura per la pioggia radioattiva e la minaccia delle mutazioni genetiche. Il mostro Godzilla apparve per la prima volta in un film del 1954. Era un dinosauro emerso dal fondo dell’oceano dopo un test nucleare statunitense che rigurgitava radiazioni su Tokyo in una rievocazione viscerale di un’incursione aerea. Se Godzilla era l’incarnazione della paura e della rabbia, Astro Boy – conosciuto in Giappone come Tetsuwan Atomu e introdotto dal pioniere dell’animazione Osamu Tezuka in un manga del 1951, diventato una serie tv nel 1963 – sublimava l’ansia nell’eroismo: un ragazzo robot con il corpo alimentato a energia atomica è abbandonato dal suo creatore (il che lo apparenta a tanti orfani di guerra), ma impara a usare le sue abilità per combattere per la pace.
I film di Miyazaki, con i loro aerei da guerra e le intrusioni di arredamento e abbigliamento occidentali, continuano a tornare al momento traumatico in cui il Giappone – che fino a metà dell’ottocento era rimasto isolato – fu costretto ad abbracciare l’occidente e i suoi valori. La popolazione devastata obbedì con una fretta confusa, quasi a cancellare la vergogna della storia recente e la complicità in una guerra ingaggiata da un governo nazionalista per la fede nella superiorità culturale giapponese.
Secondo Niebel, dell’Academy museum, il pubblico giapponese è attratto dalle opere di Miyazaki perché è sostanzialmente nostalgico. C’è un rimpianto lievemente luttuoso per un Giappone più antico, libero dall’arroganza imperialistica e dal materialismo occidentale. Ma parte della grandezza dei suoi film è che possono essere amati anche da spettatori che non percepiscono mai la corrente oscura sotto la superficie. In Porco rosso (1992), il protagonista può essere un veterano di guerra inasprito, ma è anche, letteralmente e deliziosamente, un maiale che pilota un aeroplano, e lo fa strepitosamente bene.
Il padre di Miyazaki non rimase a guardare durante la guerra. Gestiva una fabbrica di munizioni che produceva ali per i pericolosi caccia acrobatici Mitsubishi A6M Zero, negli ultimi mesi di guerra adattati per le missioni kamikaze. In un lungo articolo pubblicato nel 1995 dall’Asahi Shimbun, Miyazaki descrive il padre come una sorta di imbroglione che corrompeva i funzionari perché accettassero pezzi difettosi. Dopo la resa del Giappone, quando non c’erano più aerei da fornire, il padre usò gli avanzi di duralluminio, una lega di alluminio che aveva contribuito a rendere leggeri e pericolosi gli Zero, per fare miseri cucchiai da rifilare a clienti impoveriti con un disperato bisogno di articoli casalinghi. Successivamente convertì per un breve periodo la fabbrica in una sala da ballo, prima di riportare a Tokyo la famiglia.
Anche se non mise mai piede nell’azienda del padre (l’accesso era vietato in quanto zona militare), Miyazaki era affascinato dagli aerei e dal senso liberatorio del volo fin da bambino (Ghibli è sia il vento caldo e polveroso che spazza il deserto libico sia il nome di un aeroplano, il Caproni Ca.309 Ghibli, un bombardiere da ricognizione italiano della seconda guerra mondiale). Questa ossessione si manifesta in quasi tutti i suoi film: negli esseri umani che si trasformano in creature volanti o semplicemente camminano nell’aria; nelle macchine fantasiose come i flapper di Laputa – Castello nel cielo (1986), alimentati da quattro ali traslucide; nelle riproduzioni di velivoli del mondo reale, come in Porco rosso, in cui l’idrovolante distrutto del protagonista, ispirato all’idrovolante da corsa italiano Macchi M.33 degli anni venti, è ricostruito da una squadra interamente femminile per prepararlo al duello finale; e in Si alza il vento, che racconta la storia (non completamente) vera del progettista dello Zero, Jirō Horikoshi, che nel film come nella realtà si oppone alla guerra, e che nel ritratto di Miyazaki è restio a vedere le sue splendide macchine usate come emissari di morte, una controfigura del padre di Miyazaki, o dell’uomo che avrebbe potuto essere.
Crescendo, Miyazaki ha rimproverato al padre di aver lucrato sulla guerra e di non aver mai manifestato vergogna o rimorsi. Eppure, ha scritto nel 1995, “io sono come lui”, un uomo pieno di contraddizioni; un cineasta che condanna la proliferazione delle immagini ma vi contribuisce; un artista che ha dedicato la sua carriera ai bambini ma non era quasi mai a casa per prendersi cura dei figli; un ambientalista che non riesce a rinunciare alle sigarette e alla sua auto rantolante; un luddista dichiarato che va in estasi per la meccanica dei veicoli moderni ma cerca “di non disegnarli in un modo che alimenti ulteriormente l’infatuazione per la potenza”, come ha scritto; un pacifista che ama gli aerei da guerra; un pensatore con una visione cupa del modo in cui la civiltà ha dissipato i doni del pianeta, ma che ciò nonostante fa dei film che affermano l’urgenza della vita umana.
Questo abbracciare le contraddizioni potrebbe essere il motivo per cui i film di Miyazaki, seppure molto amati in occidente (anche se non hanno l’incredibile successo che riscuotono in Giappone, dove gli ultimi cinque insieme hanno incassato quasi cento miliardi di yen, 778 milioni di euro), per certi versi confondono il modo di pensare occidentale. Sono assenti i temi dominanti del monoteismo – la caduta da un’originaria condizione di grazia, seguita dalla redenzione – e la chiara dicotomia tra bene e male. “Non sono un dio che decide cos’è bene e cos’è male”, mi dice Miyazaki. “Siamo esseri umani e facciamo errori”. Nel suo mondo ci sono pochi autentici cattivi, solo personaggi che fanno cose cattive. Nella Principessa Mononoke Lady Eboshi scatena l’inferno sulla foresta, ma dà anche rifugio alle lavoratrici del bordello e ai malati di lebbra. Senza-volto, il sudario nero che divora le persone nella Città incantata, soffre semplicemente di solitudine e, una volta placato, risputa fuori le sue vittime. Disney, quindi, non ha mai avuto nessuna influenza su Miyazaki. Il regista giapponese è arrivato a dire, in una conferenza del 1988, che odiava i film di Disney e il loro facile sentimentalismo: “Secondo me non mostrano altro che disprezzo per il pubblico”.
Più eroine che eroi
Curiosamente, considerando gli ostacoli sul lavoro che affrontano le donne in Giappone (un’anomalia tra i paesi sviluppati), le eroine di Miyazaki sono più numerose degli eroi. Nel mondo degli anime, questi personaggi sono chiamati shōjo, ragazze di un’età intermedia, non più bambine e non ancora donne; ma mentre le shōjo in genere sono figure passive al centro di narrazioni romantiche, le ragazze di Miyazaki mostrano indipendenza e capacità formidabili. Lavorano, organizzano la vita familiare, combattono battaglie e salvano ragazzi in punto di morte; il tutto con assoluta naturalezza, senza mai strombazzare idee sul potere femminile. Anche se alcune sono principesse, resistono alle convenzioni delle favole: la principessa Mononoke non vive in un palazzo; Chihiro, nella Città incantata, è goffa e non ha i grandi occhi che negli anime indicano bellezza e vulnerabilità; mentre Sophie, la timida modista del Castello errante di Howl, passa buona parte del film nelle vesti di una vecchia curva. Anche quando l’incantesimo si spezza e lei torna giovane, i suoi capelli rimangono bianchi. Serve a ricordarci che qualcosa si è perso per sempre, che anche la magia più potente non può azzerare tutto e far ricominciare da capo. I film d’animazione statunitensi, invece, tendono ancora a concludersi con un lieto fine, o con la sconfitta dei nemici. Miyazaki propone qualcosa di più vago e perfino inquietante.
La resurrezione in Nausicaä della Valle del vento è un’assoluta eccezione, perché nella sua opera la morte non è mai battuta, ma nella migliore delle ipotesi solo rinviata. Il principe Ashitaka della Principessa Mononoke, con il corpo gradualmente consumato dalla chiazza scura di una maledizione, non guarisce mai del tutto: sul suo braccio resta un’ombra, e il senso del dovere lo separa dalla ragazza che ama – lui si sente in obbligo verso gli esseri umani della Città del ferro, lei verso i lupi della foresta – anche se promettono di vedersi ancora. Perfino la crudeltà è più neutralizzata che punita, come quando la strega delle lande desolate del Castello errante di Howl, dall’aspetto giovanile, è costretta a riacquistare la sua vera età e si rivela una vecchia barcollante che Sophie imbocca senza lamentarsi, anche se è ancora vittima della sua maledizione. Forse è possibile guarire, ma non che tutto torni come prima.
In un appunto di regia del 1991 per Porco rosso, una farsa con un vanitoso pilota statunitense che punta a una carriera di star di Hollywood e una rabbiosa banda di pirati del cielo che si dimostra impotente di fronte a un gruppo di scolarette, Miyazaki avverte: “Dobbiamo trattare tutti i personaggi con rispetto. Dobbiamo amare la loro stupidità ed evitare a tutti i costi un errore molto frequente: pensare che disegnare un cartone animato significhi disegnare qualcuno più sciocco di te”. Al centro del film c’è un agguerrito cacciatore di taglie che assume l’aspetto di un maiale per il rimorso di essere sopravvissuto alla prima guerra mondiale mentre i suoi colleghi piloti sono morti. La donna che ama, ma che crede di non meritare, si lamenta di questa “maledizione”, ma solo lui può liberarsene, smettendo di condannare quella parte di sé.
“Nella città dove vivo ho amici preziosi, ma ci sono anche persone che detesto”, mi dice Miyazaki. “La società umana è questo”. Anche i suoi amici hanno difetti, e non solo loro. “È uno specchio di chi sono”, dice. Si può essere tentati di leggere le affermazioni di Miyazaki come frutto di semplice umiltà e presentarlo, contro la sua volontà, come una specie di santo laico. Per molti aspetti è un ruolo che gli si adatta alla perfezione: il benevolo zio del quartiere che dà gioia ai bambini con il suo lavoro, raccoglie i rifiuti dal fiume nei giorni liberi e da venticinque anni compie silenziosi pellegrinaggi in un sanatorio vicino a casa sua che ospita i malati di lebbra, segregati per legge in questo tipo di strutture per gran parte del novecento. Un paziente era diventato suo amico e Miyazaki gli ha tenuto la mano mentre moriva. Ma Takahata, il mentore di Miyazaki alla Toei Animation negli anni sessanta e settanta e, alla fine, il suo più grande rivale, liquida questa agiografia nella postfazione di una raccolta di saggi, interviste e conferenze di Miyazaki, scrivendo: “Hayao Miyazaki è un uomo che lotta. Piange, scherza, ama le persone, si aspetta troppo dal loro talento, geme per i suoi sogni spezzati, s’infuria”.
Era un bambino timido e cagionevole di salute che si rifugiava nel disegno
Contraddizioni sensate
Il brillante e notoriamente perfezionista Takahata, che una volta impiegò otto anni per finire un film, è morto nel 2018, ma la sua ombra incombe ancora. Miyazaki ha lavorato per quindici anni insieme a Takahata prima di diventare regista, e anche se i suoi film battevano sistematicamente Takahata al botteghino, lui desiderava moltissimo l’approvazione del suo mentore (Suzuki, nell’autobiografia del 2014, insiste che Takahata era l’unico spettatore di cui Miyazaki abbia mai voluto l’approvazione). Secondo Takahata le contraddizioni di Miyazaki avevano senso: è un autore capace di governare e perfezionare ogni dettaglio dei suoi film, ma al tempo stesso un idealista eternamente deluso dal mondo reale che sfugge al controllo, e così si mette a sbraitare. Lo stesso Miyazaki ha sempre ammesso di essere incline alla rabbia. Per aiutare il suo staff di animatori a capire come andava disegnato il furibondo dio cinghiale diventato demone nella Principessa Mononoke, la cui carne si contorce in forme simili a sanguisughe, spiegò che lui stesso a volte provava una rabbia così forte da non poterla contenere nel suo corpo.
Takahata ha raccontato che quando lavorava da poco alla Toei Animation, Miyazaki qualche volta spaventava i colleghi “cominciando a urlare all’improvviso: ‘che vada in fiamme questo studio maledetto!’”. Non era un’esclamazione puramente metaforica, sottolinea Takahata, considerando la storia di terremoti e incendi di Tokyo e la precaria posizione del Giappone in un luogo dove s’incontrano e si spostano ben quattro placche tettoniche.
Allora Miyazaki parlava con la maliziosità del provocatore, ma più tardi nella sua carriera l’insistenza su certe realtà ha preso una piega più seria. J. Raúl Guzmán, dell’Academy museum, aiutando ad allestire la retrospettiva ha saputo che alcuni spettatori giapponesi rimasero sconvolti dalle descrizioni di una violenta tempesta oceanica in Ponyo e del grande terremoto del Kantō del 1923 in Si alza il vento, che il padre di Miyazaki aveva vissuto da ragazzo. Le scene erano un doloroso ricordo della vulnerabilità del paese – così doloroso che dopo il terremoto e lo tsunami del 2011, che provocò l’incidente alla centrale nucleare di Fukushima Daiichi, la rete Nippon tv mise al bando Ponyo per mesi.
Sulla scia dell’incidente lo Studio Ghibli appese al tetto uno striscione con una scritta contro l’energia nucleare. Ma il paese era diviso su come rispondere al disastro. Mettendo a nudo la debolezza del Giappone, il disastro di Fukushima ha rafforzato anche il neonazionalismo. Ci sono stati appelli perché sia rivista la costituzione postbellica del Giappone, in cui si dichiara che “il popolo giapponese rinuncia per sempre alla guerra come diritto sovrano della nazione nonché alla minaccia o all’uso della forza come strumenti per risolvere le controversie internazionali”, e perché il ruolo delle forze armate non sia più limitato alla difesa del paese. Miyazaki ha espresso con forza e pubblicamente la sua opposizione alla riforma, guadagnandosi la feroce reazione online dei commentatori di destra. Ma urlano al vuoto: Miyazaki non ha neppure un computer.
Nessuna idealizzazione
Dopo la guerra il Giappone era devastato, occupato dal nemico, le sue città in macerie. Erano in molti a soffrire la fame per la mancanza di viveri; sulle strade i soldati statunitensi distribuivano caramelle ai bambini ma, ha scritto Miyazaki, lui “si vergognava troppo” della sconfitta per avvicinarsi. Era un bambino timido e cagionevole di salute che si rifugiava nel disegno, l’unica abilità che gli consentiva di attirare l’attenzione e l’ammirazione dei coetanei. Anche sua madre era malata – soffrì per anni di tubercolosi spinale – e passò lunghi periodi in ospedale, come la madre del Mio vicino Totoro e la giovane moglie di Si alza il vento. Ma il denaro che il padre aveva accumulato durante la guerra aiutò la famiglia a mantenere uno stile di vita agiato, e nel 1959 Miyazaki approdò alla prestigiosa università Gakushūin di Tokyo, creata nell’ottocento come scuola per la nobiltà e che ha avuto tra i suoi studenti l’imperatore Naruhito e Yoko Ono.
Era un momento di grandi cambiamenti per il Giappone, con l’agricoltura tradizionale che cedeva il passo a un intenso sviluppo industriale e l’economia che cresceva a velocità sbalorditiva. Studiando l’industria giapponese, Miyazaki cominciò a considerarsi un marxista. Fu attirato dalle proteste del 1960 contro l’Anpo – il trattato di sicurezza con gli Stati Uniti – e contro le misure autoritarie del governo, anche se rimase ai margini. Aveva cominciato a disegnare manga al liceo e dopo la laurea cominciò a lavorare alla Toei, dove presto diventò il segretario generale del sindacato degli illustratori, negoziando migliori condizioni di lavoro. Anche se si è allontanato dal marxismo, pensa ancora che “può insegnarci molte cose”, mi dice. È solo che nessuna singola filosofia al mondo “può consentire a tutti di vivere felici”.
Miyazaki non vuole inquadrare il suo lavoro in termini esplicitamente ideologici o morali. La missione dei suoi film, dice, è “dare conforto, riempire il vuoto che si può avere nel cuore o nella vita quotidiana”. Ma i suoi film sono ossessionati dal dolore per i danni che gli esseri umani hanno fatto alla natura. Può essere in parte un residuo dello shintoismo, la religione originaria del Giappone, in cui i kami – al tempo stesso entità sovrannaturali e l’essenza divina dentro di loro – risiedono in tutte le cose (Miyazaki non ha un credo preciso, ma ha detto che “pulire il giardino è già un atto religioso”).
Da adolescente, alla fine degli anni cinquanta, Miyazaki camminava per le strade in perenne costruzione di Tokyo, soffocato dalla polvere. Nel 1964, quando organizzava i lavoratori della Toei, il Giappone ospitò le Olimpiadi e inaugurò il primo treno ad alta velocità, che divorava i 515 chilometri tra Tokyo e Osaka in quattro ore. Nel 1968 il paese era già diventato ricco, secondo solo agli Stati Uniti per prodotto interno lordo, e uno dei più inquinati della terra (grazie all’introduzione di severe normative ambientali, oggi è tra i meno inquinati). Nella Città incantata, un fetido spirito gocciolante va nel bagno pubblico per ripulirsi, e l’intrepida eroina afferra quella che crede sia una spina nel suo fianco ma si rivela essere una bicicletta. Questo dà la stura a un torrente di schifezze che si riversano fuori dalla sua sagoma fangosa: un frigorifero, un water, un semaforo. In realtà è un antico spirito del fiume, avvelenato dall’inquinamento. Anche Haku, il giovane apprendista, è uno spirito del fiume, ma ha dimenticato le sue origini da quando il fiume è stato interrato e pavimentato per fare spazio a nuovi palazzi. Verso la fine, il film presenta la fantasia di un mondo riconquistato dalla natura, con l’acqua che riempie il letto di un fiume asciutto e si estende fino a creare un ampio mare indisturbato eccetto per un treno che ne sfiora veloce la superficie.
C’è un curioso connubio di fatalismo e speranza nell’opera di Miyazaki. Nella Principessa Mononoke lo spirito della foresta, malgrado gli sforzi dei due protagonisti, viene ucciso, eppure la foresta continua a vivere. “Per me, il folto della foresta è collegato in qualche modo al buio in fondo al mio cuore”, ha detto Miyazaki in un’intervista del 1988. “Sento che se venisse cancellato, allora anche il buio nel mio cuore scomparirebbe, e la mia esistenza diventerebbe vuota”. Allo stesso tempo, Miyazaki è contrario a idealizzare la natura e dipingerla come puramente benevola, rifiutando ancora una volta il dualismo bene-male. I cinghiali, i lupi e gli oranghi della Principessa Mononoke non riescono a mettersi d’accordo su come proteggere la foresta, e quando è colpito da un proiettile il dio cinghiale soccombe all’odio e cerca di devastare il villaggio del principe Ashitaka. Perfino in quel momento, il primo istinto di Ashitaka non è ucciderlo, ma supplicarlo di andarsene. “Quando incontri qualcosa di molto strano che non hai mai conosciuto prima, invece di spaventarti prova a entrarci in comunicazione”, mi dice Miyazaki.
Mentre negli anni cinquanta il ricordo ancora vivo delle distruzioni della guerra faceva nascere mostri come Godzilla, spettri dell’imperialismo fallito, l’opera di Miyazaki è significativa perché ripete che possiamo imparare a vivere accanto a figure sconosciute, perfino terrificanti. Miyazaki una volta ha detto che avrebbe voluto fare una versione della Bella e la bestia, ma che a interessarlo era la bestia. Una traccia della favola appare nel Castello errante di Howl. C’è una scena in cui la protagonista segue le impronte insanguinate di un uccello lungo un corridoio buio alla ricerca del mago ferito. Lo trova in un mucchio di piume, incapace di tornare a essere pienamente umano, mentre prova a sopravvivere nella sua tana luccicante piena dei giocattoli del bambino sepolto dentro di lui. Ashitaka, nella Principessa Mononoke, deve combattere contro una bestia tutta sua: quando scaglia le frecce contro il dio cinghiale diventato demonio si avvicina troppo ed è contagiato dalla furia della creatura. Anche lui comincerà a odiare, lo informa la chiazza che cresce sul suo braccio. L’unico modo di salvarsi è dominare il vero mostro: quello dentro di sé.
In occidente abbiamo sempre bisogno di sapere come finisce una storia
Un’amicizia creativa
Lo Studio Ghibli forse non sarebbe mai esistito se Suzuki, 73 anni, non avesse trovato il modo di superare la furia di Miyazaki. I due si sono conosciuti nel 1979 quando, come direttore di una rivista sul cinema d’animazione, Suzuki si presentò sul posto di lavoro di Miyazaki per ottenere un’intervista (parlo online con Suzuki da solo, in un’intervista in cui si rivela tanto loquace quanto Miyazaki è evasivo). Come ricorda Suzuki, il regista, alle prese con la pre-produzione del suo primo lungometraggio, non volle avere nulla a che fare con lui e lo accusò di “spennare i ragazzini”, spingendoli a comprare la sua rivista. Invece di arrendersi, Suzuki occupò la scrivania accanto a quella di Miyazaki e si mise a lavorare alla rivista. I due sedettero curvi senza parlarsi tutto il giorno e fino a notte inoltrata, quando alle quattro del mattino Miyazaki si alzò per tornare a casa. Disse a Suzuki che sarebbe tornato alle nove, e così anche Suzuki tornò a quell’ora. Passarono un’altra giornata in silenzio. Solo il terzo giorno Miyazaki cominciò a parlare.
Così nacque un’amicizia che si sarebbe trasformata in un’intima collaborazione creativa. Per il film successivo, Nausicaä della Valle del vento, Miyazaki si consultò con Suzuki su questioni che andavano dalla complessità dello stile grafico alla scena finale, che Suzuki lo convinse a cambiare (nella prima versione la protagonista semplicemente muore, e questo a detta di Suzuki privava il pubblico della catarsi). Dopo l’uscita di quel film Suzuki si rese conto che dovevano fondare un loro studio perché nessun altro avrebbe pagato il conto per produzioni che richiedevano tanto lavoro. Anche se nel corso degli anni ha rivestito diverse posizioni allo Studio Ghibli, il suo vero ruolo è quello di confidente e consigliere di Miyazaki. Avevano l’abitudine di parlarsi quasi tutti i giorni e ora si vedono una volta alla settimana; durante la nostra conversazione Miyazaki dice che Suzuki è seduto accanto a lui, fuori dallo schermo, e lo sollecita a finire il nuovo film, che lo impegna già da quattro anni. Quando non sono d’accordo su un’idea, Suzuki, almeno stando a quello che dice Miyazaki, tende ad avere la meglio.
Suzuki mi racconta che quando Miyazaki si è presentato da lui, poco più di un anno dopo essersi ritirato, per dirgli che voleva fare un altro film, la sua reazione “è stata tipo ‘Fammi il piacere!’’”. Ha cercato di convincerlo a lasciar perdere, suggerendo che le opere migliori erano ormai alle sue spalle. Nel 2013, il suo ultimo film, Si alza il vento, ha avuto meno successo al botteghino dei quattro precedenti, forse perché trattava esplicitamente della responsabilità del Giappone nella guerra, un argomento scomodo ancora oggi. Ma alla fine Suzuki ha ceduto perché, dice, “lo scopo dello Studio Ghibli è fare i film di Miyazaki”. Cosa succederà allora quando Miyazaki si ritirerà davvero? Il figlio maggiore, Goro, di 54 anni, ha fatto alcuni film per lo studio, tra cui Earwig e la strega. Realizzato interamente in digitale, è uscito negli Stati Uniti nel 2020 ed è stato accolto da recensioni per lo più critiche che non attaccavano tanto il film quanto la distanza dalla tradizione Ghibli (il figlio minore di Miyazaki, Keisuke, 51 anni, è un incisore).
Discutendo le differenze tra film d’animazione statunitensi e giapponesi, Suzuki sottolinea che in occidente abbiamo sempre bisogno di sapere come finisce una storia. Allo Studio Ghibli l’ultima scena spesso è un mistero. Dato che ogni film richiede molti disegni, la produzione deve cominciare quando Miyazaki non è neppure a metà dello storyboard. Mentre lavorava alla Città incantata, Senza-volto all’inizio era solo un passante; solo più tardi Miyazaki decise di promuoverlo a personaggio di rilievo. In seguito il direttore dell’animazione lo pregò di non disegnare altri nuovi personaggi, così lui tirò fuori l’idea che Yubaba, la crudele strega padrona dei bagni pubblici, ha una gemella identica dal cuore d’oro, questo si rivelò un elemento cruciale per la trama e allo stesso tempo l’eco di uno dei suoi temi preferiti: che in tutti ci sono bene e male.
Senza risposta
Miyazaki e Suzuki non vogliono dire molto del prossimo film, oltre al fatto che si basa su un romanzo del 1937 di Genzaburō Yoshino, E voi come vivrete? (Kappalab 2019). È la storia di un quindicenne di Tokyo, basso per la sua età e dispettoso, a cui è da poco morto il padre. Ma il suo film potrebbe essere qualunque cosa – Suzuki l’ha definito “una fantasia su scala grandiosa” – perché Miyazaki più che prendere in prestito le storie, le libera dalle loro origini. Tutto ciò che Suzuki è disposto a svelare è che si riconosce in uno dei personaggi, non umano.
◆ Hayao Miyazaki ha realizzato la regia, la sceneggiatura e lo storyboard di undici lungometraggi, molti dei quali disponibili in Italia su Netflix, e quattro serie tv animate.
Lungometraggi
Lupin III – Il castello di Cagliostro (1979)
Nausicaä della Valle del vento (1984)
Laputa – Castello nel cielo (1986)
Il mio vicino Totoro (1988)
Kiki – Consegne a domicilio (1989)
Porco rosso (1992)
Principessa Mononoke (1997)
La città incantata (2001)
Il castello errante di Howl (2004)
Ponyo sulla scogliera (2008)
Si alza il vento (2013)
Le avventure di Lupin III (1971–1972)
Conan il ragazzo del futuro (1978)
Le nuove avventure di Lupin III (1980)
Il fiuto di Sherlock Holmes (1981)
Serie tv Le avventure di Lupin III (1971–1972) Conan il ragazzo del futuro (1978) Le nuove avventure di Lupin III (1980) Il fiuto di Sherlock Holmes (1981)
È ora. Miyazaki si strofina la testa e accende una sigaretta, una delle sue caratteristiche Seven Stars con il filtro a carbone attivo. Posso fare un’ultima domanda. “Il titolo del suo prossimo film è E voi come vivrete?”, dico. “Ci darà lei la risposta?”.
Il sorriso arriva solo dopo le sue parole: “Sto facendo questo film perché non ho la risposta”. ◆ gc
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1440 di Internazionale, a pagina 44. Compra questo numero | Abbonati