“Se siete neutrali di fronte all’ingiustizia, allora siete dalla parte dell’oppressore”. Questa famosa citazione di Desmond Tutu è stata usata e abusata ripetutamente dopo l’invasione russa in Ucraina. In molti casi è stata impiegata per fare pressione sui governi affinché abbandonino la loro neutralità e si schierino con la Nato. E pazienza se l’oppressore a cui si riferiva Tutu era il Sudafrica dell’apartheid, un regime attivamente sostenuto dall’alleanza atlantica. In occidente come in Russia, il presente è caratterizzato da un’amnesia continuamente alimentata.
Recentemente Finlandia e Svezia hanno scelto di rinnegare la loro tradizionale politica di neutralità. Entrambi i paesi hanno chiesto di aderire alla Nato, un passo che è stato giustamente considerato storico. La Finlandia ha mantenuto una posizione neutrale da quando è stata sconfitta dall’Unione Sovietica durante la seconda guerra mondiale, firmando nel 1948 un Trattato di amicizia, cooperazione e mutuo soccorso con Mosca. La Svezia, invece, ha combattuto numerose guerre con la Russia tra il cinquecento e il settecento, ma dopo il 1814 è riuscita a tenersi fuori dai conflitti. L’adesione alla Nato cancella una tradizione secolare che ha definito l’identità nazionale del paese scandinavo.
La spinta verso l’adesione è stata raccontata dai mezzi d’informazione in modo euforico. Mentre in Svezia è emerso un dibattito limitato ma comunque vivace, in Finlandia c’è stato poco spazio per il dissenso. Il quotidiano più letto del paese, Helsingin Sanomat, ha messo in prima pagina un disegno con due rematori che spingono una barca verso un orizzonte da cui la stella a quattro punte della Nato sorge come fosse il Sole. La barca si allontana da un’incombente nave militare con la stella rossa. Il simbolismo non potrebbe essere più chiaro. O forse sì: alcune settimane prima il sito del quotidiano svedese Dagens Nyheter mostrava un’animazione del simbolo della Nato che si trasforma in quello della pace.
In questo contesto non sorprende che il sostegno per l’adesione alla Nato sia solido: circa il 60 per cento in Svezia e il 75 per cento in Finlandia. Se si osservano con maggiore attenzione gli aspetti demografici, però, emergono delle crepe in questa versione dei fatti. Secondo la stampa atlantista “la questione Nato” è una svolta generazionale: i giovani sono ansiosi di entrare nell’alleanza, mentre i loro genitori restano irrimediabilmente legati all’anacronistica posizione di non allineamento assunta durante la guerra fredda. Secondo l’ex primo ministro conservatore svedese Carl Bildt, la classe politica “dovrà affrontare lo scontro tra la generazione più vecchia e i giovani che guardano il mondo con occhi nuovi”.
Il peso degli ambienti imprenditoriali sulla scelta di aderire alla Nato è stato molto maggiore rispetto a quello dell’opinione pubblica
In realtà è vero il contrario: in Svezia la fascia demografica più ostile alla Nato è quella dei giovani maschi di età compresa tra 18 e 29 anni. Non c’è da stupirsi: sono loro che rischiano di essere chiamati alle armi per partecipare a una futura operazione militare. Smentendo l’idea secondo cui lo shock dell’aggressione russa avrebbe spinto gli svedesi a sostenere unanimemente la Nato, l’opposizione sembra essere in aumento. Il 23 marzo il 44 per cento degli intervistati era favorevole alla Nato, mentre il 21 per cento era contrario. A metà maggio le percentuali erano cambiate: 43 per cento favorevole e 32 per cento contrario. Il sostegno all’adesione aumenta con l’età, e gli anziani sono i più convinti. Gli ultimi sondaggi in Finlandia hanno evidenziato una tendenza simile. Secondo un’indagine di Helsingin Sanomat il tipico sostenitore della Nato è istruito, di mezza età o più anziano, maschio, conservatore, con un lavoro dirigenziale e un reddito di almeno 85mila euro all’anno, mentre il tipico oppositore ha meno di trent’anni, guadagna meno di ventimila euro l’anno ed è di sinistra.
Alcuni dei più ardenti sostenitori della Nato si trovano tra le élite imprenditoriali. Ad aprile il presidente finlandese Sauli Niinistö ha organizzato un “incontro segreto Nato” a Helsinki. Tra i presenti c’erano il ministro delle finanze svedese Mikael Damberg, militari di alto rango e importanti esponenti degli ambienti economici dei due paesi, a cominciare dal miliardario svedese Jacob Wallenberg, il cui patrimonio familiare rappresenta un terzo del mercato azionario di Stoccolma. Wallenberg è il più entusiastico promotore dell’adesione alla Nato tra i grandi imprenditori svedesi, nonché un partecipante abituale del gruppo Bilderberg, un club dell’élite che diffonde il vangelo dell’atlantismo e del libero mercato. Nelle settimane che hanno preceduto la decisione svedese di aderire alla Nato il Financial Times ha scritto che la posizione della dinastia Wallenberg avrebbe avuto un “impatto considerevole” sulla scelta del governo socialdemocratico, su cui l’imprenditore avrebbe una grande influenza.
All’incontro di Helsinki i rappresentanti del governo svedese sono stati avvertiti che il loro paese sarebbe diventato meno attraente per i capitali stranieri se fosse rimasto “l’unico stato dell’Europa del nord fuori dalla Nato”. Questo argomento, insieme all’intensa pressione della Finlandia, è stato uno dei fattori decisivi che hanno spinto il ministro della difesa Peter Hultqvist a cambiare rotta e a schierarsi per l’adesione. Secondo il quotidiano svedese Expressen la vicenda dimostra che l’influenza della comunità imprenditoriale sulle scelte di politica estera è maggiore di quanto si pensi.
Non è difficile capire perché. La Saab, grande produttrice di armi, prevede di realizzare importanti profitti grazie all’adesione alla Nato. Il valore delle azioni dell’azienda, il cui azionista di maggioranza è la famiglia Wallenberg, è quasi raddoppiato dopo l’inizio dell’invasione russa. L’amministratore delegato Micael Johansson ha dichiarato che l’adesione della Svezia alla Nato creerà grandi opportunità per la Saab nel campo della difesa missilistica e della sorveglianza. L’azienda si aspetta di trarre grande profitto dall’espansione dei bilanci militari europei, e i suoi profitti operativi sono già aumentati del 10 per cento rispetto al primo trimestre del 2021, arrivando a 32 milioni di dollari.
Nessun dibattito
Il peso degli ambienti imprenditoriali sulla scelta di aderire alla Nato è stato molto maggiore rispetto a quello dell’opinione pubblica. La Svezia ha indetto un referendum su ogni grande decisione della storia recente, come l’adesione all’Unione europea (approvata) e l’adozione dell’euro (bocciata), ma in questo caso gli elettori non sono stati consultati. L’unica politica di rilievo ad aver chiesto un voto sull’adesione è stata Nooshi Dadgostar, del Partito della sinistra, ma la sua richiesta è stata seccamente respinta. Nel timore che l’ingresso nella Nato possa essere bocciato una volta svanita l’isteria della guerra, il governo ha adottato una “terapia d’urto”, forzando la decisione in un momento in cui l’Ucraina occupa ancora le prime pagine dei giornali e la gente ha paura. È stato spiegato che per organizzare un referendum ci vorrebbero mesi. Il voto finirebbe per sovrapporsi alla campagna per le elezioni di settembre, un’eventualità che i socialdemocratici al governo vogliono evitare a ogni costo.
Anche se la Russia ha difficoltà a sconfiggere l’Ucraina, sentiamo dire che è una minaccia immediata per Stoccolma e Helsinki
In Finlandia tra i partiti tradizionali l’opposizione alla Nato è molto limitata. La questione ha assunto toni nazionalisti e gli oppositori sono accusati di non avere a cuore la sicurezza del paese. Il parlamento ha votato largamente a favore dell’adesione, con 188 sì e appena otto no. Di questi ultimi, uno veniva dai Veri finlandesi (estrema destra), un altro da un ex esponente dello stesso partito e gli altri sei dall’Alleanza di sinistra. Gli altri dieci deputati di questo partito, però, hanno votato a favore, e uno di loro ha addirittura proposto una legge per punire chi cerca d’influenzare l’opinione pubblica per conto di una potenza straniera, che potrebbe esporre i critici della Nato a conseguenze penali.
Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha in parte rallentato questa spinta. Dopo aver accusato Finlandia e Svezia di sostenere il terrorismo curdo, ha promesso di bloccare la loro adesione alla Nato fino a quando non soddisferanno le sue richieste (l’ingresso di un nuovo paese deve essere approvato all’unanimità dai membri dell’alleanza). Erdoğan ha attaccato Finlandia e Svezia a causa del loro rifiuto di estradare 33 esponenti del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) e del movimento gülenista, accusato di aver organizzato il tentato colpo di stato del 2016, e ha preteso che la Svezia cancelli l’embargo sulle armi imposto dopo l’invasione turca della Siria nel 2019.
La questione curda ha un ruolo sproporzionato nella politica svedese. Nel 2021, quando i socialdemocratici hanno perso la maggioranza in parlamento, la premier Magdalena Andersson è stata costretta a negoziare direttamente con il deputato ed ex miliziano curdo Amineh Kakabaveh, da cui dipendeva il destino del governo. In cambio del suo voto, Kakabaveh ha chiesto che la Svezia sostenesse i curdi siriani. I socialdemocratici hanno accettato. Nei giorni scorsi Kakabaveh ha accusato Andersson di essersi “arresa” a Erdoğan e ha minacciato di privare il governo del suo sostegno. I socialdemocratici hanno evitato di trasformare le elezioni di settembre in un referendum sulla Nato, ma il loro governo è ancora molto debole e sarà sotto pressione nei prossimi mesi. Molti temono che Stoccolma stringerà un accordo segreto con Erdoğan, sacrificando gli attivisti curdi e i dissidenti turchi in cambio del via libera per l’ingresso nella Nato. Un altro ostacolo, anche se minore, è il presidente croato Zoran Milanović, che ha promesso di bloccare l’adesione finché la legge elettorale in Bosnia Erzegovina non sarà cambiata per garantire una maggiore rappresentanza alla comunità croata.
Una scelta di campo
I mezzi d’informazione in patria e all’estero hanno spesso sostenuto che per Finlandia e Svezia entrare nella Nato significa “schierarsi con l’occidente”, prendere posizione nello “scontro di civiltà” descritto da Samuel Huntington. Questa retorica non è nuova. Poco prima che il Montenegro entrasse nell’alleanza, nel 2017, il premier Milo Đukanović aveva dichiarato che non si trattava di una decisione “a favore o contro la Nato”, ma di una scelta “di civiltà e cultura”. Ma è strano vedere due paesi dell’Europa settentrionale che non si considerano pienamente occidentali. Un opinionista conservatore ha scritto che la Svezia sta finalmente diventando “un paese occidentale normale”. Poi si è chiesto se il governo abolirà presto il monopolio di stato sugli alcolici, il Systembolaget. Questo rende l’idea di cosa significhi davvero “schierarsi con l’occidente”: legarsi a un blocco guidato dagli Stati Uniti e allo stesso tempo cancellare qualsiasi istituzione apparentemente socialista, un processo che è già in corso da decenni.
L’abbandono della neutralità come opzione morale segue il cambio di significato dell’internazionalismo, specialmente per la sinistra dei paesi nordici. Durante la guerra fredda i socialdemocratici svedesi avevano espresso il principio della solidarietà internazionale attraverso il sostegno ai movimenti di liberazione nazionale nel cosiddetto sud del mondo. Nessuna figura ha incarnato questo spirito meglio di Olof Palme, che si era fatto fotografare mentre fumava un sigaro con Fidel Castro e aveva duramente criticato i bombardamenti statunitensi su Hanoi e Haiphong, in Vietnam, paragonandoli ai massacri di “Guernica, Oradour, Babi Yar, Katyn, Lidice, Sharpeville e Treblinka”.
Durante il crollo della Jugoslavia, negli anni novanta, questo “internazionalismo attivo” è stato però rielaborato come “responsabilità di proteggere”. Secondo la stessa logica, oggi ci si aspetta che gli stati si uniscano in un’“alleanza delle democrazie” per combattere la tirannia e il terrorismo, se necessario attraverso un cambio di regime.
La decisione di entrare nella Nato però non poggia solo su una vuota idea di solidarietà, ma è presentata come una questione di sopravvivenza, una risposta difensiva alla “minaccia russa”. Nel caso della Svezia, dovremmo credere che oggi la sicurezza del paese è più a rischio che durante le due guerre mondiali, e che l’unica soluzione sia far parte di un’alleanza militare rafforzata. Anche se la Russia sembra avere difficoltà a sconfiggere un paese molto più debole come l’Ucraina, sentiamo dire che rappresenta una minaccia immediata per Stoccolma e Helsinki.
In questo panico creato ad arte, le vere minacce per lo stile di vita nordico sono completamente ignorate: la scomparsa dello stato sociale, la privatizzazione e la mercificazione dell’istruzione, l’aumento della disuguaglianza e l’indebolimento del sistema sanitario universale. I governi di Svezia e Finlandia corrono per allinearsi con “l’occidente”, ma non sembrano avere altrettanta fretta di affrontare queste crisi sociali.◆as
Lily Lynch è la direttrice della rivista online Balkanist.
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Questo articolo è uscito sul numero 1462 di Internazionale, a pagina 54. Compra questo numero | Abbonati