Più la scienza cerca di comprendere cosa ci rende individui unici, dotati di una coscienza propria, e più si scopre quanto siamo in realtà legati e interdipendenti, perfino all’interno delle nostre scatole craniche. Studiando diversi cervelli in interazione tra loro, gli scienziati hanno trovato qualcosa di sorprendente: la sincronizzazione intercerebrale, ovvero il fenomeno per cui due o più cervelli finiscono per ritrovarsi sulla stessa lunghezza d’onda.
Fino a vent’anni fa questo campo di ricerca era considerato come una scienza occulta. E per buoni motivi: la prima volta che dei ricercatori hanno applicato degli elettrodi su due cervelli allo stesso tempo, infatti, il loro obiettivo era affermare l’esistenza di una “comunicazione extrasensoriale” tra due coppie di gemelli situati in due stanze diverse. Era il 1965 e la serissima rivista Science aveva accettato di pubblicare l’esperimento.
Le critiche non mancarono. Secondo molti osservatori il fatto di ritrovare segnali elettrici sincronici nei cervelli di due coppie di gemelli identici poteva spiegarsi con la similitudine biologica degli individui e con i contesti simili in cui erano immersi. Per non parlare della debolezza statistica dello studio: due coppie di gemelli non sono un campione rappresentativo. In ogni caso il mondo della parapsicologia sposò subito l’idea di una comunicazione extrasensoriale, e questo spiega la reticenza degli scienziati a ripetere esperimenti simili.
All’inizio degli anni duemila diversi gruppi di ricercatori si sono concentrati sull’osservazione simultanea di cervelli diversi, usando due tipi di strumenti: la risonanza magnetica funzionale (fmri), che misura indirettamente l’attività nervosa attraverso il tasso di ossigenazione dei capillari sanguigni, e l’elettroencefalogramma (eeg), che registra direttamente l’attività elettrica di gruppi di neuroni. Quando si verifica la sincronizzazione, i picchi e le valli dei segnali elettrici finiscono per essere sovrapponibili.
Inizialmente la maggior parte degli studi si basava sull’osservazione di due individui impegnati in un’interazione controllata: compiti online, esercizi teatrali, simulazione di volo con pilota e copilota, giochi di carte, prove musicali. Altri invece analizzavano più cervelli separatamente, per esempio valutandone la reazione alla stessa scena di un film (come Il buono, il brutto, il cattivo). Dagli esperimenti è emerso che le onde elettriche di alcune popolazioni di neuroni di cervelli diversi si sincronizzavano.
“In precedenza questo fenomeno era stato osservato tra diverse aree del cervello, ma non tra cervelli distinti”, ricorda Julia Sliwa, ricercatrice del Centre national de la recherche scientifique
(Cnrs) francese. Quei risultati però non rappresentavano una grande sorpresa. Immersi in un ambiente simile, infatti, i nostri cervelli tendono a reagire nello stesso modo. Dopo tutto siamo fatti con lo stesso stampo.
Ma c’è dell’altro. Osservando coppie di individui impegnati in interazioni spontanee, senza che facessero la stessa cosa o guardassero lo stesso film, i ricercatori hanno scoperto che l’accoppiamento cerebrale si verificava ugualmente. “I cervelli sono più sincronizzati per il semplice fatto di essere impegnati in un’interazione sociale”, spiega Guillaume Dumas, uno dei primi ad aver studiato le interazioni spontanee tra individui nel 2011. “All’inizio nessuno ci credeva”, ricorda. Le interazioni, tra l’altro, producevano sincronizzazioni estremamente precise, con le oscillazioni che si sovrapponevano con differenze di pochi millisecondi.
Da allora decine di ricercatori di tutto il mondo hanno studiato questa sincronia intracerebrale, che avviene tra gli esseri umani ma anche tra gli altri animali, dai topi ai pipistrelli fino alle scimmie. Anche gli animali, infatti, entrano in sincronia quando interagiscono tra loro. L’abbondanza di ricerche ha permesso di svelare in parte il funzionamento di questo misterioso fenomeno.
Innanzitutto la sincronizzazione non è sistematica, ma la sua precisione varia in base a diversi criteri. Naturalmente gli stimoli esterni possono incrementare la concordanza delle onde elettriche cerebrali. Se gli individui ballano insieme, se ascoltano le stesse parole o gli stessi suoni, se si guardano negli occhi o se si toccano, allora le sincronizzazioni saranno più evidenti.
“Più numerosi sono i canali per scambiare informazioni e più sarà facile la sincronizzazione”, conferma Dumas, che oggi dirige il laboratorio di psichiatria di precisione e fisiologia sociale dell’ospedale Sainte-Justine di Montréal, in Canada.
Cosa ancora più sorprendente, il livello di sincronizzazione è influenzato anche dal rapporto tra le persone coinvolte nell’interazione. Più è stretto e duraturo, più la sincronizzazione è forte. Le relazioni tra amici, coppie o genitori e figli presentano una maggiore sincronia rispetto a quelle tra estranei.
Di recente Dumas e i suoi colleghi hanno dimostrato che il livello della sincronizzazione tra una madre e suo figlio è più forte rispetto a quello tra un estraneo e il bambino, ma non se l’estraneo indossa una maglietta impregnata dell’odore materno e parla con il bambino guardandolo negli occhi. “L’olfatto e il contatto fisico possono incrementare i livelli di sincronizzazione tra gli individui”, spiega il neurobiologo.
L’olfatto e il contatto fisico possono far aumentare la sincronizzazione tra gli individui. Lo stress, invece, sembra interferire
Lo stesso vale per i rapporti tra pipistrelli: quelli che trascorrono più tempo vicini presentano onde elettriche più sincronizzate durante un’interazione di gruppo.
Infine esistono elementi peculiari di ciascun individuo che possono accrescere o interferire con la sincronia. Il livello di stress delle persone, per esempio, sembra correlato negativamente con la sincronizzazione. Quando una madre si dichiara stressata, si osserva una sincronizzazione più debole durante le sue interazioni con il bambino. Il livello di empatia è invece correlato positivamente alla sincronizzazione.
Se i soggetti sono attenti e motivati durante l’interazione, il livello di sincronizzazione cerebrale è migliore. In una classe, per esempio, gli studenti che sono più concentrati e apprezzano maggiormente l’attività proposta sono più in sincronia con il resto del gruppo. Inoltre più sono affezionati al professore e ai compagni e maggiore è la sincronia con loro.
È stato anche notato che le interazioni collaborative comportano una sincronizzazione più forte rispetto a quelle competitive.
Negli esperimenti sui pipistrelli, i ricercatori hanno voluto stabilire se il fenomeno potesse essere innescato da una vocalizzazione qualsiasi, dunque hanno insegnato ad alcuni esemplari a emettere suoni per ottenere cibo. Risultato: durante le vocalizzazioni condizionate non è stato registrato nessun fenomeno di sincronizzazione. Era come se gli altri pipistrelli non vi prestassero attenzione, perché il segnale non veicolava informazioni relative alle loro attività sociali.
Più che una correlazione
Non c’è bisogno di immaginare una specie di connessione bluetooth tra i nostri cervelli. Gli studi, soprattutto quelli condotti sui topi, hanno permesso di identificare popolazioni di neuroni che rispondono specificamente alle interazioni sociali e sembrano innescare la sincronizzazione, spiega Julia Sliwa.
Il fatto che questi neuroni seguano esattamente lo stesso schema di oscillazioni in cervelli diversi si spiega con le similitudini esterne (condivisione dello stesso ambiente visuale, sonoro e olfattivo durante l’interazione) e interne (i nostri cervelli e le nostre reti neurali sono simili), ma anche con gli effetti della comunicazione stessa (scambio di informazioni, necessità di attenzione, eccetera).
Secondo i ricercatori queste similitudini aumentano con la prossimità sociale. Più ci evolviamo nella stessa rete sociale e più le nostre reti neurali si somigliano. Potrebbe anche darsi che il meccanismo sia quello opposto, e che sia dunque la somiglianza delle reti neurali a favorire la tendenza a sviluppare rapporti stretti.
A prescindere da quale sia la direzione di questo processo, è probabile che il ciclo si alimenti da sé: più ci evolviamo insieme e più aumentano le similitudini; più comunichiamo e più creiamo similitudini. E più ci si ritrova in sincronia.
Resta da capire se questo fenomeno sia solo un effetto collaterale delle nostre interazioni sociali e delle nostre similitudini o se invece svolga un ruolo attivo. “Siamo convinti che la sincronizzazione sia qualcosa di più che una correlazione neuronale”, risponde Dumas.
In effetti diversi studi indicano che la sincronizzazione potrebbe facilitare la comunicazione e l’apprendimento. Suzanne Dikker, dell’università di New York, studia l’abbinamento intercerebrale nel contesto scolastico. Un suo recente esperimento suggerisce che gli studenti più in sincronia tra loro sono anche quelli che apprendono meglio. Dikker è convinta che “la sincronizzazione tra un cervello e l’altro” sia “uno strumento eccellente per studiare i diversi fattori che possono contribuire alla comunicazione e all’apprendimento”.
Un altro studio, pubblicato nel 2021, ha ritrovato la stessa correlazione analizzando il comportamento di alcuni studenti di informatica: il livello di sincronizzazione tra loro ma anche tra studenti e professori era positivamente correlato ai risultati dell’esame.
“È un po’ come se avessero creato un ‘super-individuo’”, ipotizza Sliwa. Secondo la biologa, anziché ricercare le chiavi dell’intelligenza esaminando unicamente il modo in cui i nostri neuroni interagiscono nella nostra scatola cranica, forse dovremmo interessarci anche al modo in cui i nostri cervelli si coordinano. Trinh Nguyen, dell’Istituto italiano di tecnologia, si concentra sui bambini e ha potuto osservare che maggiore è la sincronizzazione tra una madre e suo figlio, maggiori sono la rapidità e l’accuratezza con cui riescono a riprodurre delle figure con il tangram, l’antico rompicapo cinese.
“Abbiamo ottenuto risultati simili con i padri”, aggiunge la ricercatrice. “Inoltre è emerso che più la qualità delle interazioni genitore/figlio è elevata – ovvero non si riducono a un monologo del genitore ma costituiscono un vero scambio – più la sincronizzazione è forte. La cosa più impressionante è che la capacità di entrare in sincronizzazione si osserva già a quattro mesi di età”.
Coscienza collettiva
Al di là dell’impatto del fenomeno sulle nostre performance cognitive, i nuovi studi hanno evidenziato un altro elemento. Indipendentemente dalle caratteristiche delle interazioni (tra le coppie, tra gli estranei, all’interno di una classe o durante un concerto) più gli individui si sincronizzano e più riferiscono di provare una sensazione di piacere e appagamento.
Dal punto di vita evolutivo è logico, spiega Dumas. Le interazioni sociali sono infatti essenziali per il nostro sviluppo, in particolare per i bambini. Dunque è lecito immaginare che la capacità di entrare in sintonia con gli altri abbia facilitato la nascita della socialità, incoraggiandoci a interagire.
Uno studio pubblicato nel 2021 da Nature Neuroscience sembra confermare l’ipotesi: quando gli scienziati hanno attivato artificialmente una sincronia tra due cervelli di topi (attraverso la tecnica dell’optogenetica, che permette di stimolare i neuroni con raggi luminosi) hanno osservato una maggiore complicità tra gli animali, che si pulivano e annusavano a vicenda più spesso.
Queste scoperte potrebbero cambiare il modo in cui affrontiamo alcuni disturbi neurobiologici, a cominciare dall’autismo. Più che da una disfunzione di alcune regioni cerebrali, questi disturbi potrebbero infatti nascere da una minore capacità di entrare in sincronia. “In un certo senso queste persone si trovano fuori sincrono rispetto al loro ambiente sociale, e questo amplifica la loro alterazione”, ipotizza Dumas. Così si innesca un circolo vizioso: la mancata sincronizzazione ostacola la comunicazione.
Secondo Tom Froese, filosofo dell’istituto delle scienze e delle tecnologie di Okinawa, in Giappone, questo nuovo campo di ricerca trasforma profondamente la nostra comprensione della coscienza. Le oscillazioni neuronali che si propagano nelle diverse aree del nostro cervello sono considerate alla base della nostra coscienza, spiega Froese in un articolo intitolato “Quello che ci lega”, curato insieme ad Ana Lucía Valencia dell’università nazionale autonoma del Messico.
Il fatto che queste oscillazioni possano propagarsi anche tra diversi cervelli ci spinge a mettere in dubbio la nostra “visione standard della coscienza umana come fenomeno esclusivamente individuale”. È possibile immaginare una sorta di coscienza estesa o addirittura collettiva? Secondo gli esperti una cosa è certa: le interazioni tra i miliardi di neuroni all’interno di un cervello non bastano a definire la nostra coscienza. Ormai bisogna tenere conto anche dei fenomeni di sincronizzazione con i cervelli che ci circondano. ◆ as
◆ Uno studio pubblicato recentemente su Neurology ha individuato un collegamento tra l’isolamento sociale e la riduzione della massa cerebrale, un fenomeno spesso associato alle malattie neurodegenerative. I ricercatori dell’università Kyushu di Fukuoka, in Giappone, hanno sottoposto a risonanza magnetica 8.896 persone con un’età media di 73 anni non affette da demenza senile, scoprendo che negli individui con meno contatti il tessuto cerebrale occupava una porzione della scatola cranica minore che in quelli socialmente più attivi. La riduzione riguardava aree del cervello associate alla memoria e alla demenza, come l’amigdala e l’ippocampo. I soggetti più isolati presentavano inoltre un maggior numero di lesioni nella sostanza grigia, segno di danni cerebrali. In parte il fenomeno sarebbe collegato ai sintomi della depressione. Gli autori dello studio non hanno stabilito un nesso causale tra l’isolamento e la perdita di tessuto cerebrale, ma in precedenza altri studi hanno individuato un collegamento tra la solitudine e il rischio di declino delle funzioni cognitive e demenza negli anziani. Alcuni suggeriscono che mantenere frequenti contatti sociali possa incoraggiare uno stile di vita più salutare e abbassare i livelli di stress e la pressione sanguigna, che influiscono negativamente sulla salute del cervello. Ma il legame potrebbe essere anche inverso, dato che le persone con funzioni cognitive ridotte hanno maggiori difficoltà nelle interazioni sociali e hanno quindi più probabilità di restare isolate.
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Questo articolo è uscito sul numero 1535 di Internazionale, a pagina 62. Compra questo numero | Abbonati