Al pari dell’architettura di Asmara, riconosciuta dall’Unesco come città modernista africana, il ciclismo in Eritrea è un’eredità coloniale che è stata trasformata dalla passione e dalla resilienza dei suoi abitanti. Questo sport fu introdotto dagli italiani alla fine dell’ottocento e oggi è diventato un elemento vitale della cultura e dell’identità nazionale.

Sono cresciuto ad Agordat, una città dell’Eritrea occidentale, a 175 chilometri dalla capitale Asmara. In giro si vedevano alcune biciclette, ma erano un lusso per pochi e il ciclismo non era ancora radicato nella cultura locale. Mio padre ne aveva una e spesso mi portava in giro facendomi sedere sulla canna. Ho imparato ad andare in bicicletta quando avevo circa dodici anni, la stessa età in cui il campione di ciclismo eritreo Biniam Girmay, 24 anni, ha vinto la sua prima gara di mountain bike ad Asmara.

Da bambini ad Agordat non avevamo la possibilità di usare i tricicli o bici più piccole, quindi abbiamo imparato a pedalare su quelle per adulti. Per essere un centro agricolo, Agordat era ben progettata, con strade ampie e aperte, un lascito della pianificazione coloniale italiana. Nonostante gli effetti negativi del colonialismo, abbiamo continuato ad approfittare delle infrastrutture costruite in quegli anni, comprese le strade larghe, perfette per andare in bicicletta. C’era un unico problema: non erano asfaltate perciò spesso foravamo. Quasi ogni giorno alla fine della scuola qualche ragazzo coraggioso cercava di mettersi in mostra con le ragazze sfoggiando la sua abilità in bicicletta, anche se non so se questo li rendesse davvero più popolari.

In città c’era un negozio di noleggio di bici, un precursore dei bike sharing di oggi. In un piccolo centro dove tutti si conoscevano, il noleggio si basava sulla fiducia. Era difficile, però, tenere conto delle ore perché pochi avevano un orologio e a volte scoppiavano delle liti se qualcuno riconsegnava la bici in ritardo. In ogni città eritrea c’erano un negozio di biciclette e un’officina per le riparazioni, molto frequentate, soprattutto durante le vacanze.

Anche se ad Agordat mancavano club di ciclismo o gare ufficiali, il terreno pianeggiante della città aveva reso il passatempo molto popolare. Ad Asmara le biciclette sono affettuosamente chiamate bish­keleta, un termine derivato dall’italiano; ad Agordat, sono chiamate ajelet, più vicino all’arabo. L’Italia, che colonizzò l’Eritrea tra il 1890 e il 1941, introdusse le biciclette nel 1898, inizialmente per le consegne postali a Massaua. Con il passare del tempo si diffusero tra gli italiani della colonia, tanto che nel 1936 fu creata una federazione ciclistica e l’anno successivo si svolse la prima gara ad Asmara. Gli eritrei però erano esclusi sia dal centro della capitale sia dalle gare. Quando nel 1939 ebbero finalmente la possibilità di competere con gli italiani, vinse l’eritreo Ghebremariam Ghebru, infrangendo il mito della supremazia dei fascisti italiani.

L’edificio futurista Fiat Tagliero, Asmara, Eritrea, 28 gennaio 2020 (Robert Haidinger, Laif/Contrasto)

In netto contrasto

Oggi l’Eritrea è considerata uno dei paesi africani più forti nel ciclismo, con un’ampia base di appassionati. Ogni domenica le gare ad Asmara attirano migliaia di persone per le strade, che tifano le loro squadre e i loro corridori preferiti.

I primi club nacquero nella capitale negli anni trenta. Le gare locali, come il Gran premio della liberazione, erano appuntamenti molto seguiti e le due ruote un simbolo di modernità e d’orgoglio nazionale. Da allora il ciclismo si è radicato profondamente nella cultura eritrea. I giovani di oggi prendono a modello i campioni, mentre eventi come il giro d’Eritrea offrono ai talenti emergenti l’opportunità di mettersi in luce a livello nazionale e nel resto dell’Africa.

Negli ultimi anni il ciclismo eritreo ha fatto passi da gigante sulla scena mondiale, sfidando i limiti posti dalle dimensioni e dalle risorse del paese. L’Eritrea è da anni una potenza nel ciclismo africano, ma ora lo sta mostrando anche fuori del continente. Ciclisti come Biniam Girmay – che quest’anno ha fatto la storia vincendo la maglia verde al tour de France, cioè il riconoscimento per chi arriva primo nella classifica a punti – sono il simbolo di una ritrovata unità nazionale. Ne hanno parlato anche i mezzi d’informazione occidentali come il Washington Post, la Bbc e l’Economist che in un vecchio articolo intitolato Saddled with problems (Problemi in sella) ha definito il ciclismo la “quinta religione non ufficiale di stato” dell’Eritrea.

Il successo nel mondo del ciclismo è in netto contrasto con la reputazione dell’Eritrea in altri settori. Per anni il paese ha fatto notizia all’estero per le gravi violazioni dei diritti umani, per il servizio militare a tempo indeterminato e per l’esodo disperato dei suoi giovani. Nello sport si parlava dell’Eritrea per le frequenti defezioni dei suoi calciatori in occasione di competizioni in altri paesi africani, con più di 65 giocatori scappati tra il 2006 e il 2019. Sedici sono andati in Kenya, diciannove in Tanzania, ventidue in Uganda e dieci in Botswana.

Oggi i ciclisti eritrei vincono gare in tutto il mondo e hanno anche trovato il modo per arrivare al successo senza dover lasciare il paese. Questa differenza si può spiegare con il sostegno internazionale e le maggiori opportunità offerte agli atleti, oltre che a un più forte senso di identità nazionale legato alla cultura ciclistica eritrea. Il calcio enfatizza il lavoro di squadra e gli obiettivi collettivi, mentre il ciclismo spesso mette in risalto la resistenza individuale e la gloria personale.

Vantaggio geografico

Oltre all’eredità e alla cultura, la geografia dell’Eritrea offre dei vantaggi a chi pedala per professione. La capitale Asmara si trova a circa 2.400 metri di altitudine. L’allenamento ad alta quota aiuta gli atleti a sviluppare resistenza e capacità polmonare, perché il corpo deve adattarsi alla scarsità di ossigeno. Questo favorisce i ciclisti eritrei quando gareggiano a quote più basse nelle competizioni internazionali.

Il paesaggio eritreo è anche molto vario, con regioni montuose, dolci colline e pianure, e una serie di terreni impegnativi, dalle ripide salite degli altipiani ai lunghi tratti pianeggianti lungo la costa del mar Rosso. Questo permette ai ciclisti eritrei di allenarsi per le salite, gli sprint e le gare di resistenza. Inoltre il clima è relativamente mite e secco, soprattutto nelle regioni dell’altopiano, dove le temperature sono gradevoli tutto l’anno. Ci si può allenare all’aria aperta in maniera continuativa, senza dover interrompere a causa del maltempo.

Le strade sono larghe e ben tenute. Una via famosa che porta da Asmara alla città portuale di Massaua è piena di curve strette e ripidi pendii, l’ideale per affinare le tecniche di discesa e salita. È affascinante vedere le persone che vivono lungo la strada andare in bici ogni giorno nella capitale e fare ritorno a casa. Durante i tratti in salita, si aggrappano al retro dei camion che viaggiano lenti verso la città, mentre in discesa sfrecciano con agilità, navigando abilmente nel traffico e schivando i cammelli che sbucano ogni tanto.

La geografia dell’Eritrea ha indubbiamente contribuito al successo dei ciclisti che negli ultimi anni sono emersi sulla scena internazionale. Nel 2014 Nat­nael Berhane è stato il primo africano a vincere la Tropicale Amissa Bongo, una corsa ciclistica a tappe che si svolge ogni anno a gennaio in Gabon. Nel 2015 Daniel Teklehaimanot, che correva per la squadra sudafricana Mtn-Qhubeka, è stato il primo eritreo a partecipare al tour de France. Lo stesso anno era arrivato in testa alla classifica della montagna nel giro del Delfinato, una corsa che si disputa sulle Alpi nel sudest della Francia.

Nel 2021 Biniam Girmay ha portato ancora più in alto il suo paese, quando è stato il primo africano nero a salire sul podio dei campionati del mondo su strada dell’Unione ciclistica internazionale (Uci), l’organizzazione con sede ad Aigle, in Svizzera, che supervisiona le federazioni ciclistiche nazionali di tutto il mondo. I ciclisti eritrei si sono comunque sempre distinti nelle gare africane, con campioni come Merhawi Kudus e Henok Mulubrhan, Amanuel Ghebreigzabhier e Natnael Tesfatsion.

Le sfide del successo

Essere un ciclista di successo è impegnativo. Quelli che ce la fanno sono relativamente più ricchi, meglio nutriti, più resistenti mentalmente e fisicamente, e possono allenarsi regolarmente. Anche quando ottengono i riconoscimenti internazionali, gli atleti eritrei devono affrontare sfide significative. Il governo di Asmara dà la priorità alle spese militari, a scapito degli investimenti nello sport. I club ciclistici hanno poche risorse, attrezzature obsolete e strutture per gli allenamenti inadeguate. Questo si riflette anche nella nomina dei commissari sportivi, che sono spesso alti funzionari militari o politici poco interessati a questo sport. La mancanza di soldi e di sponsor privati, e le infrastrutture carenti rendono difficile per i ciclisti eritrei sviluppare le proprie capacità.

Inoltre le restrizioni ai viaggi ostacolano la loro partecipazione a gare internazionali, perché ottenere i visti e l’approvazione del governo può essere complicato. Allo stesso tempo i paesi europei si mostrano riluttanti a concedere visti agli eritrei, perché dal paese provengono moltissimi rifugiati. Nel 2014 tre giovani eritrei – Meron Teshome, Metkel Eyob e Tesfom Okubamariam – erano stati invitati al centro di allenamento dell’Uci, ma la Svizzera gli ha negato il visto d’ingresso.

Molti atleti di famiglie povere spesso devono destreggiarsi tra gli allenamenti intensi e altri lavori per sbarcare il lunario e permettersi una dieta adeguata, una situazione che limita ulteriormente i loro progressi. All’inizio degli anni novanta un pugile eritreo si accasciò tragicamente sul ring e morì dopo pochi colpi. Alcuni commentarono: “Come si può praticare il pugilato se per sopravvivere si mangia ogni giorno lo shiro?”. Lo shiro è un piatto popolare e poco costoso a base di ceci.

La minaccia di defezioni, soprattutto tra i calciatori, ha messo a dura prova anche l’ambiente sportivo, perché la “migrazione sportiva” sottrae talenti locali. I ciclisti che hanno ottenuto i riconoscimenti internazionali e corrono per squadre continentali o mondiali hanno avuto la fortuna di essere riusciti a superare enormi ostacoli. Per i giovani atleti che vivono ancora in Eritrea, invece, assicurarsi le sponsorizzazioni e ottenere il permesso dal regime per gareggiare all’estero è ancora molto difficile.

Nonostante tutto il ciclismo resta un simbolo di resilienza e orgoglio nazionale. I ciclisti incarnano lo spirito di determinazione che ha caratterizzato il paese nella sua storia. Perché questo successo possa essere duraturo, però, è necessario che la prossima generazione di atleti riceva più sostegno. Il ciclismo eritreo, nato da un’eredità coloniale, si è evoluto in un’attività praticata con passione, ma il suo futuro dipenderà da quanto il paese saprà coltivare i suoi talenti, tenuto conto della sua realtà sociopolitica. ◆ gim

Mohamed Kheir Omer è uno scrittore e ricercatore nato in Eritrea. Oggi vive e lavora in Norvegia.

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Questo articolo è uscito sul numero 1587 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati