La prima volta è successo a cena. Stavo dicendo una cosa a mio marito, che è cresciuto a Parigi, dove abitiamo, e improvvisamente non mi è venuta una parola. Era colpa della r, lettera di cui in quel periodo cercavo di perfezionare la pronuncia francese. Il fatto che non ne fossi capace era l’ultimo segno della mia americanità: ci riuscivo solo se mi concentravo, ricacciando il suono indietro nella bocca ed espirando allo stesso tempo. Stavo provando a dire in inglese qualcosa tipo “riscaldare” o “riciclare” e la r si rifiutava di uscire. La parola era come un pezzo di pane incastrato in gola.

Poi si sono fatti strada altri cambiamenti. Mi sono accorta che quando mio marito mi parlava in inglese, gli rispondevo in francese. Mi chiamava mia madre e le parlavo con l’accento francese. Le bozze dei miei articoli tornavano indietro con un’insolita quantità di commenti degli editor. Ho raccontato a un’amica che al supermercato qualcuno aveva rovesciato un liquido sul “tapis-roulant della cassa”, le parole “nastro trasportatore” mi erano scomparse nel mezzo della frase. Anche quando tornavo a casa mia, a New York, mi accorgevo di stringere le labbra a culo di gallina come per pronunciare la ◆ francese, invece di allargarle nelle vocali che scandiscono il discorso in inglese.

Mia madre è statunitense e mio padre è francese; si sono separati quando avevo tre mesi. Sono cresciuta parlando una lingua con metà della mia famiglia e l’altra con l’altra metà

Mia madre è statunitense e mio padre è francese; si sono separati quando avevo tre mesi. Sono cresciuta parlando una lingua con metà della mia famiglia, a New York, e l’altra lingua con l’altra metà, in Francia. Secondo un caposaldo della letteratura accademica sulle persone bilingui, le diverse lingue tirano fuori diversi aspetti della personalità. Nel mio caso, non erano due personalità, ma due vite separate. In una vivevo con mia madre nell’Upper West Side e andavo a scuola a piedi in Columbus avenue. Nell’altra andavo per funghi nei boschi dell’Alsazia o scrivevo commedie con i miei cugini e con i miei tre fratellastri, che all’epoca non capivano una parola d’inglese. Le due esperienze con le diverse lingue erano completamente distinte, come se mi avessero dato due copioni con due diversi cast. In ciascuno c’era un genitore, dei nonni, degli zii e delle zie; in ciascuno una lingua, una casa, una Madeleine.

Mi sono trasferita a Parigi nell’ottobre 2020, appena compiuti i trent’anni. È stata in parte una decisione razionale e in parte un azzardo dettato dal covid. Per anni avevo lavorato come giornalista e redattrice, occupandomi di politica europea, e avevo fatto la corrispondente in Germania e in Spagna usando la lingua del posto. Sul lavoro non avevo mai usato il francese, che tecnicamente conoscevo molto bene. Provarci mi sembrava una buona idea.

Quando sono arrivata in Francia, però, mi sono resa conto che la mia padronanza della lingua aveva i suoi limiti: non avevo mai parlato in francese con delle persone adulte che non avessero il mio stesso dna. Lo storico culturale Thomas Laqueur, che è cresciuto in West Virginia parlando tedesco, ha avuto un’esperienza simile, scrive la linguista Julie Sedivy in Memory speaks (La memoria parla), un saggio sulla perdita della lingua in cui l’autrice racconta di come ha dovuto imparare da capo il ceco. Sedivy cita Laqueur, che racconta di quando aveva scoperto che il tedesco, in realtà, non era un linguaggio segreto della sua famiglia. Stava litigando con il fratello per un ghiacciolo davanti al negozio di alimentari vicino a casa, quando

venne da noi una signora e ci disse, in tedesco, che ci avrebbe dato una moneta così potevamo averne uno a testa. Non mi ricordo se poi comprai un altro ghiacciolo o no, ma mi ricordo che ero emozionatissimo perché avevo scoperto un altro esemplare della nostra specie linguistica. Corsi a casa per dare la grande notizia.

Il mio battesimo con il francese parlato in età adulta è stato meno felice. Dopo aver tentato invano di contattare alcune fonti per un articolo, ho fatto leggere a un’amica le mie email rimaste senza risposta. Lei mi ha fatto notare in modo gentile che stavo urlando in faccia alle persone che speravo d’intervistare.

Rispetto all’inglese, il francese è più lento, più formale, meno diretto. E richiede un tipo di cortesia che, se tradotta letteralmente in inglese, può sembrare servile, quasi passivo-aggressiva. Ho cominciato ad appuntarmi le frasi da usare per interagire in modo garbato. “Vi pregherei, cara Signora, di essere così gentile di volere…”; “La prego di voler accettare, caro signore, l’assicurazione della mia più profonda stima”. Ho sempre avuto l’impressione che il francese mi renda il viso più tirato e serio, come se tutte le mie energie siano concentrate nell’emissione precisa di certe vocali. L’inglese, invece, mi spinge ad allargare le labbra in un sorriso.

Anche tornare all’inglese, però, non era così facile. Avevo paura che le nuove espressioni imparate in francese lo contaminassero. Sono la direttrice di una rivista, The Dial, che ho fondato anche con l’obiettivo di far conoscere più giornalisti e scrittori stranieri ai lettori anglofoni. Ma lavorando sui testi di autori ucraini, argentini o turchi, cercando di semplificare la sintassi o le espressioni idiomatiche più insolite per tradurle in una prosa più scorrevole in inglese, ho cominciato a dubitare di me stessa: stavo usando l’inglese in modo corretto?

Una volta, mentre ero a New York, ho ringraziato il cassiere di un minimarket chiamandolo “caro signore”. I miei stessi pensieri sembravano contorcersi in una serie di proposizioni subordinate, come se avessi paura che esprimendomi in modo diretto sarei risultata sgarbata. Non stavo solo migliorando in francese: stavo peggiorando in inglese.

Per molto tempo, la domanda centrale della linguistica è stata come si apprende una lingua. Negli ultimi anni, però, è emerso un nuovo campo di studi chiamato “erosione linguistica”. Il focus non è l’apprendimento, ma l’oblio: cos’è che fa perdere una lingua?

Alle persone che si trasferiscono in altri paesi capita spesso di dimenticare alcuni termini della loro lingua, di usare strani giri di parole o di parlare con un accento straniero. Questa impermanenza ha spinto i linguisti a rimettere in discussione alcuni aspetti dell’apprendimento di una lingua. Anziché considerare il bilinguismo come un processo cumulativo in cui ogni lingua è complementare all’altra, alcuni studiosi le vedono come sorelle che cercano di attirare l’attenzione dei genitori. Quando ne arriva una nuova, scatta la competizione. “Non c’è un’età in cui una lingua, anche quella nativa, si è talmente consolidata nel cervello da non poter essere scalzata o trasformata da un’altra”, scrive Sedivy. “Come una famiglia che accoglie un nuovo figlio, la mente non può accogliere una nuova lingua senza che abbia un impatto sulle altre già presenti”.

Dopo il secondo anno passato in Francia ho cominciato a temere che il francese stesse alterando il mio inglese, che stessi perdendo la capacità fondamentale di usare la lingua che consideravo più vicina al mio cuore. Non era una preoccupazione oziosa. Alcuni anni prima, quando vivevo a Berlino, l’inglese degli expat di lunga data mi era sembrato manierato e strano: parlavano più lentamente e infarcivano il discorso con espressioni in tedesco che suonavano forzate e bizzarre. Da editor, era una tendenza che avevo notato anche nei traduttori: più stavano a contatto con la nuova lingua, più la loro prosa in inglese prendeva una specie di nota teutonica. Sarebbe successo anche a me?

Anche le lingue in apparenza saldamente radicate in noi sono soggette a erosione. “Quando ci sono due lingue che convivono nel nostro cervello”, dice Monika S. Schmid, esperta di erosione linguistica dell’università di York, nel Regno Unito, “ogni volta che diciamo qualcosa, ogni volta che usiamo una parola, ogni volta che mettiamo insieme una frase, dobbiamo fare una scelta. A volte ne prevale una, a volte l’altra”. Le persone bilingui, spiega, “di solito sono molto abili a gestire questo genere di situazioni e a usare la lingua che vogliono senza troppe interferenze tra le due”. Spesso, però, c’è un prezzo da pagare: l’accento, la grammatica o una parola che non quadra.

Cosa permette a una lingua di attecchire o meno? L’età è un fattore importante, spiega Schmid. “Se osserviamo un bambino di otto, nove o dieci anni e vediamo come sa usare la nuova lingua e quanto la conosce, sostanzialmente è un madrelingua a tutti gli effetti”. I bambini, però, dimenticano le lingue con la stessa facilità con cui le apprendono. È opinione condivisa tra i linguisti che una lingua acquisita nella prima infanzia tenda ad avere una maggiore risonanza emotiva per chi la parla. Se però si smette di parlarla prima dei dodici anni, si rischia di perderla completamente. Secondo Schmid, il ricordo sfuma a tal punto che, quando in età adulta si prova a riprenderla, non si ha praticamente nessun vantaggio rispetto a chi la impara da zero. Anche la lingua con le connessioni primordiali più profonde può sbiadire nei recessi della memoria.

Nel suo saggio, Sedivy cita uno studio su un gruppo di adulti nati in Corea e adottati in Francia fra i tre e gli otto anni di età. Arrivati nelle loro nuove case, da bambini avevano subito imparato il francese e si erano dimenticati della loro prima lingua. I ricercatori li avevano messi a confronto con un gruppo di francofoni monolingui e notarono che non erano in grado d’identificare delle frasi in coreano significativamente meglio del gruppo di controllo. Anche i momenti più intimi dell’infanzia possono andare perduti insieme alla lingua che li ha accompagnati.

Secondo i ricercatori, una prima lingua usata fino a un’età più avanzata può essere sorprendentemente resiliente e riaccendersi quando si torna nel paese di origine. Ma perdere la padronanza della propria lingua capita anche a chi si trasferisce in un altro paese da adulto. Marel Keijzer, linguista dell’università di Groningen, nei Paesi Bassi, e studiosa di bilinguismo, ha intervistato un gruppo di olandesi che da adulti sono emigrati in Australia. Secondo una classica teoria dello sviluppo linguistico, mi ha spiegato Keijzer, le nuove abilità linguistiche si sovrappongono alle vecchie come gli strati di una cipolla. Di conseguenza, al ritorno nei Paesi Bassi si aspettava di riscontrare un semplice ritorno del linguaggio nativo: gli strati accumulati successivamente avrebbero dovuto cadere per primi.

La realtà si è rivelata più complicata. In uno studio scritto a quattro mani con Schmid, Keijzer ha riscontrato che gli olandesi emigrati in Australia non confermavano ciò che aveva previsto. “Si notava più olandese nel loro inglese, ma anche più inglese nel loro olandese”, osserva. Lo schema non era quello di un semplice recupero, ma di una commistione. “Erano meno capaci di separare le due lingue”. Invecchiando, gli immigrati non tornavano alla loro lingua di origine; semplicemente, avevano difficoltà a tenere distinti i due vocabolari.

In Alfabet/Alphabet: a memoir of a first language (Alfabeto/Alphabet, memorie di una prima lingua), la poeta Sadiqa de Meijer, che è nata ad Amsterdam, racconta della sua esperienza con l’uso della lingua olandese in Canada. Da quando non la parla più regolarmente, scrive, è diventata “comicamente formale”. Un’amica le ha fatto notare che ha cominciato a parlare “come un libro stampato”. A meno che non si trovi nei Paesi Bassi, osserva, “ormai per me l’olandese è soprattutto una lingua scritta. La capacità di affrontare conversazioni casuali si sta atrofizzando”. La più piccola delle sue figlie la rifiuta. “Smettila di olandesizzarmi!”, dice. Secondo De Meijer, “le persone che parlano una lingua che hanno imparato dopo la prima infanzia vivono in uno stato di astrazione cronica”.

Questa astrazione era quella che temevo anch’io. Da un certo punto di vista, era una preoccupazione trascurabile: in un mondo in cui le altre lingue sono continuamente cancellate dall’inglese, chi si lamenterebbe di aver perso il contatto con questa? Gli europei che intervistavo per lavoro criticavano la natura imperialista dell’inglese, che li costringeva a esprimere le loro idee in una lingua imposta dalla globalizzazione. Quello che mancava a me, però, non era l’inglese universale degli accademici o la lingua briosa dei post online, ma i suoni inconfondibili con cui ero cresciuta: il tono quasi maleducato dell’inglese di New York e la sua cadenza affrettata, quel modo di inghiottire la fine delle parole come se il senso fosse chiaro senza bisogno di finire la frase. Mi mancava il vocabolario variegato della mia città, dove la lingua inglese, più che globalizzata, sembrava internazionale, arricchita dalle parole uniche di generazioni d’immigrati. Ho cominciato ad ascoltare il Brian Lehrer show sulla Wnyc, una radio di New York, scoprendomi emozionata ogni volta che qualcuno chiamava da Staten Island.

L’idea che la mia confidenza con l’inglese stesse calando ha fatto affiorare sentimenti complicati, alcuni meno lusinghieri di altri. Quando uno studente di giornalismo mi ha scritto per chiedermi il permesso di parlare di me nella sua dissertazione sulle “esperienze dei giornalisti anglofoni non nativi”, l’ho preso come un affronto personale. Anche gli altri si erano accorti che faticavo a trovare la parola giusta?

Franco Matticchio

Un cambiamento nell’uso del linguaggio, deliberato o inconscio, spesso influisce sulla percezione di noi stessi. Il linguaggio è inestricabilmente legato alle nostre emozioni. È il modo in cui esprimiamo il nostro dolore, il nostro amore, la nostra paura. Questo, osserva Monika S. Schmid, significa che anche la perdita di una lingua può essere legata all’emozione. Per la sua dissertazione, ha intervistato alcuni ebrei germanofoni, emigrati nel Regno Unito e negli Stati Uniti poco prima della seconda guerra mondiale, per analizzare il loro rapporto con la lingua d’origine. A ciascuno ha inviato un questionario chiedendo quanto fosse difficile parlare il tedesco a distanza di anni e se lo usavano, “per esempio, quando scrivevano un diario o mentre sognavano”.

Una donna ha scritto: “Ero fisicamente incapace di parlare in tedesco. Nel 1949, quando sono tornata in Germania per una visita di pochi giorni, mi sono accorta di non riuscire a spiccicare una parola di tedesco, nonostante la guardia di frontiera fosse un vecchio signore gentile. Ho dovuto rispondergli in francese”.

Il marito concordava: “Nel risponderle, mia moglie le avrà detto che non poteva e non voleva parlare in tedesco perché i nazisti avevano ammazzato i suoi genitori. Tra di noi non abbiamo mai parlato in tedesco, neanche nell’intimità”.

Un altro ha risposto: “Sento che la mia famiglia ha fatto tanto per la Germania e per Düsseldorf, quindi mi sento tradito. Il mio paese sono gli Stati Uniti e la mia lingua è l’inglese”.

Schmid ha diviso gli emigrati in tre gruppi, ognuno associato a un momento della storia. Il primo gruppo era partito prima del settembre 1935, prima delle leggi razziali. Il secondo era partito tra l’entrata in vigore delle leggi razziali e la notte dei cristalli, nel novembre 1938. L’ultimo gruppo era composto da quelli che erano partiti tra la notte dei cristalli e l’agosto 1939, poco prima che la Germania invadesse la Polonia.

Lo studio di Schmid ha rilevato che tra tutti i fattori potenzialmente in grado d’influire sull’erosione linguistica, l’irruzione del nazismo nelle loro vite aveva avuto l’impatto maggiore. La data dell’emigrazione, osserva Schmid, prevaleva su qualsiasi altro fattore: i tedeschi espatriati dopo il 1939 avevano più difficoltà a essere percepiti come “madrelingua” da chi era arrivato prima, e spesso avevano una relazione più debole con la lingua di origine:

A quanto pare, la causa principale dell’erosione linguistica non è tanto l’opportunità di uso del linguaggio o l’età al momento dell’emigrazione. Ciò che conta è l’identità e la percezione di sé del parlante. Chi vuole appartenere a una comunità linguistica e vuole esserne riconosciuto come parte integrante riesce a comportarsi di conseguenza per un lasso di tempo estremamente lungo. D’altro canto, chi rifiuta quella comunità linguistica – o ne è stato emarginato e perseguitato – può adattare il suo comportamento linguistico in modo da sembrarne estraneo.

In altre parole, la nostra vicinanza a una lingua non è solo il frutto della nostra capacità di usarla. È una forma d’identità che può essere modificata dalle circostanze o anche dalla forza di volontà.

La perdita della lingua spesso maschera altre perdite più grandi. Lily Wong Fillmore, linguista ed ex professoressa dell’università di Berkeley ha raccontato la storia di una famiglia emigrata in California anni dopo aver lasciato la provincia cinese del Guang­dong, nel 1989. Uno dei figli, Kai-fong, aveva cinque anni quando è arrivato negli Stati Uniti e parlava e capiva solo il cantonese. Mentre la sua sorellina più piccola aveva imparato l’inglese quasi immediatamente e si era fatta subito degli amici, Kai-fong era timido e non aveva avuto la stessa esperienza a scuola. I compagni lo prendevano in giro per i suoi capelli. I maschi ridevano dei pantaloni di poliestere che gli aveva cucito la nonna. A un certo punto, lui e i suoi compagni hanno cominciato a prendersi a sassate.

Quando Kai-fong ha cominciato a imparare l’inglese ha smesso di parlare in cantonese, anche con i suoi familiari. Scrive Wong Fillmore: “Quando la nonna gli parlava, il nipote la ignorava o bofonchiava in inglese una risposta che lei non capiva. Più gli adulti lo sgridavano, più Kai-fong metteva il muso e si arrabbiava”. A dieci anni si faceva chiamare Ken e non capiva più bene il cantonese. La famiglia ha cominciato a dividersi in base all’uso della lingua. I due ultimi figli, nati negli Stati Uniti, non hanno mai imparato il cantonese. È una storia “che molte famiglie immigrate hanno vissuto in prima persona”, scrive Wong Fillmore.

Franco Matticchio

In ambito scientifico, il riconoscimento della facilità con cui può deteriorarsi la padronanza di una lingua è il frutto della revisione di alcuni princìpi fondamentali della linguistica: in particolare, l’idea che una “lingua nativa” plasmi il nostro io più intimo. Questo concetto è inestricabile dal nazionalismo ottocentesco, sostiene Jean-Marc Dewaele, professore della University of London. In un articolo scritto in collaborazione con i linguisti Thomas H. Bak e Lourdes Ortega, Dewaele osserva che molte culture collegano le prime parole alla maternità: in francese, la lingua nativa è la langue maternelle, in spagnolo lengua materna, in tedesco Muttersprache. Il turco, che chiama la prima lingua ana dili, applica lo stesso principio, e così la maggior parte delle lingue dell’India. Il polacco è un’eccezione perché collega la lingua alla paternità. L’espressione per lingua nativa è język ojczysty, dalla parola ojciec, padre.

Il fatto di attribuire alla prima lingua un valore speciale è il frutto di una visione del mondo che mette l’appartenenza nazionale al centro della vita dell’individuo. L’espressione native speaker (parlante nativo) è stata usata per la prima volta dal politico e filologo George Perkins Marsh, che – con più di un’ombra di pregiudizio – sottolineava l’importanza dell’“inglese nato in casa”. Tra le sue raccomandazioni c’era la necessità di adottare “speciali precauzioni” per evitare che la lingua fosse “corrotta e volgarizzata dall’associazione con esseri depravati e temi indegni”.

L’idea di un’unica lingua nativa si è affermata nella linguistica alla metà del novecento, un periodo singolarmente monolingue della storia umana. La cultura statunitense, focalizzata sull’assimilazione, era particolarmente ostile al principio che più lingue potessero convivere in una sola persona. I genitori erano incoraggiati a insegnare ai figli solo l’inglese, anche quando si esprimevano meglio nella loro lingua di origine. Si riteneva che l’acquisizione simultanea di più lingue provocasse ritardi nello sviluppo e nell’apprendimento del linguaggio. Come ha osservato Aneta Pavlenko, linguista della Drexel university e dell’università di York, le famiglie plurilingui erano guardate con sospetto dai politici e sono state ignorate dai linguisti statunitensi fino a tutti gli anni settanta. “I bilingui precoci”, quelli che avevano imparato due lingue da bambini, “erano esclusi dalla ricerca in quanto soggetti ‘insoliti’ o ‘complicati’”, scrive. Viceversa, i bilingui tardivi, quelli che avevano imparato una seconda lingua a scuola o in età adulta, erano considerati “rappresentativi della loro prima lingua”. Il fatto che ne parlassero anche un’altra era completamente trascurato. Questa focalizzazione sull’importanza di un’unica lingua potrebbe aver oscurato i dati storici, creando l’impressione che la specie umana sia più monolingue di quanto non sia in realtà.

Pavlenko ha cercato di dimostrare che parlare una sola lingua non è storicamente la regola ma è piuttosto l’eccezione. Il suo ultimo libro, una raccolta di saggi di diversi studiosi, affronta il tema dell’“amnesia” storica dei ricercatori sulla prevalenza del multilinguismo nel mondo. Sono citati vari esempi in cui l’uso di più lingue era considerato la norma: la Sicilia del medioevo, dove lo stato amministrativo redigeva documenti in latino, in greco e in arabo, o il primo sistema giudiziario della Pennsylvania, dove nel settecento e nell’ottocento capitava frequentemente che si tenessero udienze in tedesco. Secondo Pavlenko, ancora oggi esiste una spaccatura: i professori universitari statunitensi che lavorano in inglese (spesso la loro unica lingua) lo considerano lo standard per la ricerca. Gli europei, obbligati a usarlo come seconda lingua, sono più inclini a vedere la padronanza di un’unica lingua come un’eventualità più rara rispetto al conflitto tra lingue diverse.

Secondo Dewaele e i suoi colleghi, “il principio di un’unica lingua nativa, determinata interamente dalle prime esperienze dell’infanzia, non è supportato dalla neurologia e dalla neuroscienza”. Ci sono stati molti casi di pazienti che hanno ricominciato a parlare la loro prima lingua dopo un infarto o dopo l’insorgere della demenza, ma è altrettanto comune che dopo la guarigione i pazienti riprendano a usare la lingua che parlavano prima di ammalarsi.

Tutto questo ha portato alcuni linguisti a rifiutare l’idea di un “parlante nativo” che, come dice Dewaele, “ha un lato oscuro”. Può essere un principio restrittivo, colpevole di far sentire le persone indesiderate in una nuova casa. Chi ha studiato una lingua, osserva Dewaele, spesso ne conosce la grammatica meglio di chi l’ha imparata in famiglia. Per questo motivo, preferisce parlare di “utilizzatore della prima lingua”, un’espressione un po’ goffa che però stacca in modo netto la persona dalla lingua che parla.

Quando mi sono resa conto di essere diventata l’ascoltatrice più assidua della Wnyc fuori dell’area metropolitana di New York, mi sono messa alla ricerca di tutti quegli scrittori che si sono allontanati volontariamente dalla loro lingua nativa. Nonostante la convinzione un tempo diffusa che uno scrittore sia in grado di produrre opere originali solo nella lingua madre, esistono libri meravigliosi scritti in lingue acquisite. Vladimir Nabokov ha cominciato a scrivere in inglese poco dopo essersi trasferito negli Stati Uniti. Samuel Beckett usava il francese per veicolare le sue idee più innovative. Jhumpa Lahiri, che ha cominciato a scrivere in italiano dopo i quarant’anni, ha detto in un’intervista alla Paris Review: “È solo con l’italiano che mi sento al centro di me stessa. Solo quando scrivo in italiano riesco a spegnere tutte le altre voci giudicanti, tranne forse la mia”.

Potevo anch’io cominciare a vedere l’inglese e il francese non come due personalità ma come stati d’animo diversi intercambiabili a seconda delle circostanze? Alcuni aspetti del francese che un tempo trovavo freddi cominciavano a rivelare dei vantaggi. La rigidità nel rivolgersi agli sconosciuti aveva i suoi pregi, permettendomi di mantenere la privacy in un mondo ossessionato dalla condivisione. Anche le mie conversazioni in inglese hanno cominciato a cambiare: finalmente parlavo con i miei interlocutori come un’adulta e non più come una bambina.

L’autrice Yoko Tawada, che si è trasferita in Germania dal Giappone quando aveva poco più di vent’anni, scrive libri sia in giapponese sia in tedesco: usa fluentemente entrambe le lingue. Il suo ultimo romanzo tradotto in inglese, Scattered all over the Earth (Sparso per tutta la Terra), descrive un Giappone sprofondato sott’acqua, vittima del cambiamento climatico. Una donna giapponese, forse l’ultima rimasta sulla Terra, si mette sulle tracce di un uomo che parla la sua lingua: alla fine scopre che non è giapponese, ma che fa solo finta quando lavora in un ristorante di sushi.

Usare nuove lingue o essere semplicemente multilingui può dare diversi vantaggi dal punto di vista creativo. Tawada gioca con gli omonimi e con l’imbarazzo provocato dalla traduzione letterale.

Quella che emerge dai suoi romanzi, ha osservato la studiosa Yasemin Yildiz, non è un’unica lingua, ma un tramite, uno strumento che l’autrice usa per inventare sul momento. Yildiz cita un saggio di Tawada in cui una narratrice racconta di come imparare il tedesco le abbia insegnato a vedere il linguaggio in modo diverso. Scrivere in una seconda lingua non è una costrizione, ma una nuova forma d’invenzione. Nella nostra prima lingua raramente proviamo una “gioia giocosa”, scrive. “I pensieri sono talmente aggrappati alle parole che né gli uni né le altre possono volare liberi”. Una nuova lingua è come un levapunti, che strappa via tutto ciò che si attacca e si aggrappa.

Mentre in passato l’opinione prevalente in ambito universitario spingeva le persone verso il monolinguismo, l’ipotesi della ricerca più recente secondo cui il radicamento di una lingua cambia a seconda delle circostanze può ridare autoconsapevolezza a chi parla più lingue. In Notes on mother tongues: colonialism, class and giving what you don’t have (Appunti sulle lingue madri: colonialismo, classe e dare quello che non si ha), Mirene Arsanios descrive la sua incertezza su quale lingua usare con il figlio. Sua madre, venezuelana, parlava spagnolo, suo padre, libanese, parlava francese; nessuna delle due le sembrava la lingua giusta da trasmettere al bambino. “Come altre lingue nate da un passato colonialista, la mia è sempre stata connotata da un problema linguistico, qualcosa di simile alla rimozione di una lingua nativa, di una sintassi endemica al cervello e al cuore”.

La risposta è una moltitudine di lingue o l’adozione di una sola? “Avere molte lingue è la mia lingua dominante”, scrive Arsanios. Doveva abituarsi all’idea che stava trasmettendo al figlio non una sola lingua, ma una serie di domande e identità che non sono mai del tutto risolte. Alla fine del libro descrive gli scambi verbali con lui, “in una lingua reciproca, abbondante e senza madre”.

Tutti gli studiosi con cui ho parlato hanno sottolineato che ogni persona bilingue è unica: dietro le categorie generali c’è una vita umana, con tutte le sue complessità. L’acquisizione e l’uso di una lingua possono essere più complicati di quanto ipotizzato dalle rigide distinzioni tra lingua nativa e non nativa e, allo stesso tempo, più personali.

Mia nonna, la madre di mia madre, è cresciuta a Vienna parlando in tedesco in quella che era a sua volta una famiglia multilingue. Sua madre era austriaca; suo padre, nato nell’attuale Serbia, parlava in tedesco con un forte accento ungherese. Durante la seconda guerra mondiale avevano girato per mezza Europa: prima erano stati a Budapest, poi a Trieste, poi a Lille e infine in Portogallo, dove si erano imbarcati per New York su un cargo che trasportava sughero.

Quando arrivarono negli Stati Uniti, sua madre non voleva che parlasse tedesco in pubblico. “Percepiva l’animosità verso i tedeschi”, mi ha raccontato recentemente. Mia nonna, però, non voleva rinunciarci. Il tedesco era anche la lingua di Schiller, diceva. Non si è mai impegnata troppo per parlare il tedesco, ma non per questo l’ha dimenticato. Le piaceva la poesia tedesca, e a 95 anni ancora recita versi in lingua (spesso senza che nessuno glielo chieda).

Quando le ho detto dello studio di Schmid era un po’ scettica all’idea che l’uso della lingua sia stato influenzato dal trauma. Mi ha detto che il fatto di non parlare il tedesco dopo la seconda guerra mondiale le sembrava assurdo, anche perché secondo lei quello di Hitler era un pessimo tedesco. Piuttosto, mi ha rimproverato perché non le ho chiesto del suo legame emotivo con il francese, che parlava da bambina a Lille quando andava a scuola, o con l’italiano, che aveva imparato a Trieste. Entrambe le lingue erano fonte di ricordi vaghi che andavano e venivano mentre cercava di riportare alla memoria le parole.

Recentemente mia nonna si è rimessa in contatto con una sua vecchia compagna di scuola dei tempi di Vienna, fuggita anche lei dall’Europa durante la guerra: l’ha riconosciuta da una foto sul New York Post. Tra loro parlano in inglese. La sua amica Ruth, dice, parla inglese con l’accento tedesco, ma non parla più il tedesco. ◆ fas

Madeleine Schwartz vive a Parigi, dove ha fondato e dirige The Dial, una rivista che pubblica articoli di autori di tutto il mondo. Insegna giornalismo all’università Sciences Po di Parigi. Questo articolo è uscito sul New York Times con il titolo Can you lose your native tongue?

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Questo articolo è uscito sul numero 1571 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati