Anitta, la popstar brasiliana di 31 anni musa del reggaeton e del funk, ha da poco lanciato il video della canzone Aceita (Accettalo), girato in bianco e nero con la regia di João Wainer e Ricardo Souza e in cui si vedono i rituali della religione afrobrasiliana del candomblé. La cantante ha detto che, appena sono uscite le prime immagini, duecentomila follower hanno smesso di seguirla sui suoi canali social.
Anitta ha più volte dichiarato che la sua sfera spirituale non comprende un solo credo: “Se un giorno mi vedrete in una chiesa cattolica o in una congregazione evangelica o a un rito dell’umbanda (la versione brasiliana della religione sincretica di origine africana, officiata in lingua portoghese-brasiliana), o praticare lo sciamanismo, sarà per il semplice motivo che mi piacciono. E siccome sono benvenuta anche dove si pratica il candomblé, non vedo perché non dovrei andarci”. Nel video compaiono situazioni che riguardano anche le altre religioni, non solo il candomblé. La reazione negativa d’intolleranza è un ennesimo sintomo di questi tempi segnati dal settarismo e da una vita sociale ridotta a guerra di tribù.
I conflitti religiosi, che oggi definiamo con la parola “polarizzazione”, non sono una novità. L’amplificazione prodotta da internet e le campagne d’odio sui social network potrebbero far credere che in passato i dibattiti e i confronti avvenissero in modo pacifico ed educato, e che siano stati gli algoritmi a rendere il clima più rabbioso e teso. Ma non è così.
Fin dalle loro origini nel Brasile coloniale le religioni di matrice africana sono state vittima di attacchi e persecuzioni anche dallo stato, con il consenso e la complicità di molti. Il primo codice penale della repubblica, per esempio, proibiva le pratiche dello “spiritismo, la magia e i suoi sortilegi, usare talismani e cartomanzia per suscitare odio o amore, somministrare cure per mali curabili e non curabili, e l’abuso della credulità popolare”. In questo modo si aprì la strada alla dura repressione della religiosità delle comunità nere, e non solo.
Oggi la costituzione brasiliana tutela la libertà religiosa, ma i terreiros, i locali di culto dell’umbanda e del candomblé, continuano a essere oggetto di episodi di intolleranza e razzismo, accolti con cinica indifferenza dai parlamentari e dalle autorità pubbliche. Il governo dell’ex presidente di estrema destra Jair Bolsonaro aveva avviato una crociata “terribilmente evangelica” per sabotare il carattere laico dello stato, alimentando il moralismo religioso, che favorisce la violenza dei fondamentalisti neopentecostali, dei miliziani e di chiunque si scagli contro le religioni di origine africana.
Il vecchio slogan
Ai culti afrobrasiliani, che dalla colonizzazione fino a oggi si sono affermati in tutto il Brasile, partecipano spesso anche persone della classe media e dell’élite bianca, ma il più delle volte lo fanno di nascosto e senza dare nell’occhio. Quest’atteggiamento falso e ipocrita contribuisce a mantenere nel ghetto i culti sincretici e a creare una separazione tra persone che professano la stessa religione.
L’intromissione della religione nella politica in Brasile ha raggiunto dimensioni preoccupanti: è un colossale festival di sacerdoti, pastori e pseudorappresentanti di dio e della Bibbia che blaterano stupidaggini e puntano il dito contro Tizio e Caio, considerati posseduti da Satana. I tanti Malafaia (un noto pastore evangelico di destra) e le tante Michelle (moglie evangelica dell’ex presidente Bolsonaro) che infestano lo spazio repubblicano con il loro rudimentale razzismo teocratico sono pericolosi per la democrazia. Alcune manifestazioni, come quella di febbraio a São Paulo promossa da Bolsonaro per far dimenticare il suo presunto coinvolgimento nella rivolta di Brasília dell’8 gennaio 2023, sono diventate occasioni per fare proselitismo e ingrossare le fila dei reazionari. Dio, patria e famiglia, il vecchio slogan fascista è stato riabilitato. Forse non ci aveva mai abbandonato. ◆ ar
Marcos Augusto Gonçalves è un giornalista e scrittore brasiliano, opinionista del quotidiano Folha de S.Paulo.
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Questo articolo è uscito sul numero 1564 di Internazionale, a pagina 28. Compra questo numero | Abbonati