“Permesso”, dice Verónica Vilches camminando sul letto del fiume La Ligua, completamente asciutto. Parla con i fiori selvatici che sono cresciuti grazie alle piogge di quest’inverno.
Sotto il sole implacabile e il vento incessante di Cabildo, una cittadina nel centro del Cile, Vilches si fa strada lungo un tratto dove molti anni fa l’acqua scorreva con forza. Un posto dove in estate le famiglie facevano il bagno per rinfrescarsi e i turisti montavano le tende sulla riva. Ora è estate e non c’è una goccia d’acqua: ci sono solo pietre e qualche traccia isolata di vegetazione. Mentre Cabildo s’inaridisce, le colline circostanti brillano per il verde delle grandi piantagioni di avocado, coltivate principalmente per l’esportazione in Europa.
“Non c’è bisogno di essere un esperto per parlare della realtà in cui viviamo”, dice la donna.
Siamo nell’epicentro della crisi idrica in Cile: la provincia di Petorca, nella regione di Valparaíso.
Negli ultimi dodici anni il Cile ha vissuto una siccità senza precedenti, soprattutto nelle zone centrali e meridionali. Dal 2010 si è registrato un calo costante delle precipitazioni. Le temperature sono aumentate e il deserto è avanzato da nord verso il centro. Il 2019 e il 2021 sono stati due anni di ipersiccità. Oggi quasi sei milioni di persone hanno problemi di approvvigionamento di acqua potabile (secondo il censimento del 2017, in Cile ci sono 17,5 milioni di abitanti). Nel 2019 il World resources institute ha stabilito che, in termini di stress idrico, il paese è il diciottesimo nel mondo e il primo nel continente americano.
Gli esperti non sono ottimisti: nei prossimi anni il Cile continuerà a essere a corto d’acqua. Gli effetti di qualsiasi soluzione si vedranno a lungo termine e nel frattempo aumenteranno i razionamenti, le interruzioni alla fornitura e i camion cisterna. Queste misure sono già state applicate in alcune località della regione di Valparaíso. Allo stato cileno è mancato il senso dell’urgenza e ora è troppo tardi.
La crisi idrica non si spiega solo con il cambiamento climatico, ma anche con la maggiore domanda d’acqua di settori produttivi come la silvicoltura, l’agricoltura e l’industria mineraria. A questo si aggiunge un modello inadatto alle condizioni critiche del paese: in Cile il diritto di sfruttamento dell’acqua appartiene ai privati. Lo stabiliscono la costituzione del 1980 e il codice dell’acqua dell’anno successivo.
Come spiega Pablo Jaeger, professore di diritto dell’acqua dell’università del Cile, la costituzione cilena prevede che i diritti di sfruttamento possano essere alienati – cioè venduti o trasferiti – dai loro proprietari (agricoltori, minatori, aziende sanitarie e chiunque usi l’acqua nelle attività produttive) senza l’intervento dello stato. I diritti di sfruttamento dell’acqua di un fiume, di un estuario o di una falda sotterranea, concessi gratuitamente dal ministero dei lavori pubblici attraverso la direzione generale delle acque (Dga), sono perpetui e trasferibili agli eredi. Nel 2022 la riforma del codice dell’acqua ha stabilito che i diritti valgono trent’anni.
Proprietari terrieri
Vilches è nata a Cabildo. È cresciuta in campagna, in mezzo alla natura, e fin da bambina ha difeso il diritto all’acqua. Oggi fa parte del movimento Secas, defensoras de las aguas. Lei e la sua famiglia vivono con cinquanta litri d’acqua al giorno, che equivalgono a circa dieci minuti di doccia. Cerca di arrangiarsi come può: fa le pulizie, imbianca le case o tiene in ordine qualche chiesa. A Cabildo e nelle zone rurali circostanti l’acqua arriva con i camion cisterna. In passato si vedevano polli, cavalli, mucche, capre e agnelli pascolare sulle colline, ma praticamente tutti gli animali sono morti di sete. Prima la gente coltivava frutta e verdura. Ora, senz’acqua, non si coltiva più niente.
“Bisogna mettere da parte l’acqua e usarla con cautela. Un giorno laviamo i vestiti, un altro ci facciamo la doccia o ci laviamo a pezzi per evitare sprechi. Ci rimane solo l’acqua sotterranea del fiume, perché in superficie non c’è più nulla. I problemi sono cominciati negli anni novanta con l’arrivo dei proprietari terrieri”, afferma Vilches. Tra le case e i negozi della via principale di Chincolco, nel comune di Petorca, c’è un bar. I proprietari Gerardo Castillo ed Erika Figueroa e il leader della comunità locale Gilberto Tapia sono seduti intorno a un tavolo vuoto.
“I proprietari terrieri hanno tolto la vegetazione autoctona per piantare alberi di avocado sui fianchi delle colline. Hanno prosciugato le falde acquifere e nel frattempo le piogge sono diminuite. Con drenaggi e pozzi, prendevano anche l’acqua che scendeva dal fiume in inverno”, dice Castillo, sessant’anni.
“Da quando le aziende hanno cominciato a comprare terreni per le loro piantagioni di avocado, gli alberi nativi che mantenevano l’ecosistema si sono seccati”, dice Tapia, 72 anni, che faceva parte del movimento per la difesa dell’accesso all’acqua, alla terra e alla protezione ambientale (Modatima).
Castillo e Tapia parlano di “febbre dell’oro verde”: si riferiscono all’arrivo dell’industria agroalimentare nella provincia di Petorca, alla fine degli anni novanta. I grandi agricoltori, attirati dal clima caldo della zona, comprarono migliaia di ettari di terreno sulle colline, diventarono proprietari dei diritti sull’acqua e piantarono avocado.
Lo scorso dicembre la scuola Fernando García Oldini, nella località di Hierro Viejo, ha dovuto sospendere le lezioni a causa dei tagli al rifornimento d’acqua. “A Petorca non solo si viola il diritto umano all’acqua, ma anche quello all’istruzione. Questo è inaccettabile. Il problema è strutturale”, ha dichiarato il preside della scuola, Nicolás Quiroz, al quotidiano Resumen.
“Gli esseri umani si sono accaparrati l’acqua”, afferma Figueroa, 52 anni, seduta all’altro capo del tavolo.
“Abbiamo già perso la fiducia nelle autorità, visto che nessuno si è occupato di Petorca”, gli fa eco Tapia.
Il Cile è il terzo paese produttore ed esportatore di avocado al mondo, dopo il Messico e il Perù. Secondo il censimento della frutta 2020, nella regione di Valparaíso si concentra più della metà delle piantagioni nazionali di avocado, il 67,2 per cento delle quali è destinato all’esportazione. Nella provincia di Petorca, la seconda area di produzione di avocado del Cile, su 8.134 ettari usati per la coltivazione, 5.078 sono destinati a questo frutto, si legge nel censimento. Tuttavia i dati forniti dal comitato cileno per l’avocado, un’associazione indipendente che rappresenta i coltivatori e i commercianti, indicano che nella provincia oggi ci sono 2.539 ettari di alberi di avocado, cioè l’8,7 per cento del totale nazionale. A causa della siccità la superficie coltivata a Petorca si è ridotta almeno del cinquanta per cento negli ultimi tre anni.
“In questa provincia le risorse idriche vengono solo dalle precipitazioni”, afferma il comitato in un’email. “Negli ultimi quarant’anni le precipitazioni si sono più che dimezzate. Ma la crisi idrica dipende anche dall’incuria dello stato. L’acqua per il consumo umano ci sarebbe, il problema è la mancanza d’infrastrutture idriche pubbliche per garantire alle comunità l’accesso all’acqua. Gli agricoltori hanno investito nelle infrastrutture necessarie per le coltivazioni, rendendosi autonomi dai servizi sanitari rurali (Ssr), mentre lo stato non ha fatto questi investimenti. La politica pubblica per l’acqua potabile nelle zone rurali ha fallito di fronte alla siccità”.
Gli Ssr sono i sistemi comunitari di acqua potabile, da cui dipende il nove per cento della popolazione cilena e che sono gestiti da chi li usa. Lo stato fornisce alle famiglie un pozzo, una pompa per estrarre l’acqua e l’infrastruttura necessaria per renderla potabile, poi sono gli stessi abitanti a garantire che tutti abbiano accesso all’acqua e a far pagare per il suo sfruttamento. Ma in molte zone i pozzi sono già asciutti e gli abitanti devono comprare l’acqua dai camion.
Quello che succede a Petorca si ripete su piccola scala anche nel resto del paese. Finché lo sviluppo economico sarà più importante delle persone, qualsiasi area – agricola, forestale o mineraria – potrebbe subire lo stesso destino. È solo una questione di tempo, spiega María Christina Fragkou, ricercatrice ambientale all’università del Cile.
Pochi controlli
“Ascolta”, dice Vilches. “Sono acque sotterranee, e questo è un pozzo illegale. Alcuni pozzi sono profondi più di cento metri. L’acqua va veloce, ma qui non segna nulla”, afferma indicando il contatore che dovrebbe registrare la quantità d’acqua che passa. Gli altri pozzi illegali sono in mezzo al fiume e nessuno dice niente. Tutta l’acqua finisce in collina, dove si trovano gli alberi di avocado. L’acqua c’è, il problema è che la rubano.
Da anni Vilches denuncia il furto d’acqua nella provincia di Petorca e soprattutto a Cabildo. Quello che dice è noto, ne ha parlato anche il presidente Gabriel Boric: “In Cile abbiamo un problema di siccità e uno di saccheggio. La distribuzione non funziona, ci sono attività produttive che usano male le risorse idriche, a scapito di altre”.
Ignacio Villalobos, sindaco di Petorca, afferma: “Oggi ci sono circa 1.200 pozzi registrati. Poi ce ne sono molti altri non registrati né regolamentati. D’altra parte, i diritti di sfruttamento dell’acqua non corrispondono al numero di ettari posseduti da alcune aziende agricole. Faccio un esempio: se ho quattrocento ettari di coltivazioni e solo cento litri d’acqua, ci sono trecento ettari che non potrei irrigare. Invece li irrigo. Da dove prendo l’acqua? È un furto, lo stato non mi ha autorizzato a usare questa risorsa. Sto prendendo l’acqua che appartiene a un altro utente, a un servizio sanitario o agli abitanti della zona. Mancano i controlli”, dice Villalobos.
Rodrigo Mundaca, uno dei fondatori del movimento Modatima e oggi governatore della regione di Valparaíso, da anni sostiene che Petorca è “l’epicentro della violazione del diritto umano all’acqua”. Mundaca ha denunciato il furto d’acqua nella provincia e ha ricevuto minacce di morte. “Come governatore non ho poteri di vigilanza in materia, ma stiamo mettendo a disposizione della direzione generale dell’acqua tutte le denunce di uso irregolare che ci arrivano dal territorio, dove il numero di supervisori è salito da quattro a sette”.
Il problema della scarsità d’acqua riguardava solo la gente comune
Anche Vilches è stata minacciata: “Sono stata chiamata terrorista e trafficante di droga. Mi è successo di tutto”, racconta. Sui muri dell’ufficio del comitato per l’acqua potabile del villaggio di San José e per le strade di Cabildo sono apparse scritte come “Morte a Verónica Vilches”. Poi, nel 2021, qualcuno ha dato fuoco alla macchina di sua madre e al portone di casa. Questi eventi la mettono in agitazione ogni volta che deve uscire.
Una battaglia persa
“È una sfilata di camion, quale le piace di più?”, chiede Vilches camminando per le strade di Cabildo. In pieno inverno – la stagione delle piogge in Cile – ci sono ancora i camion dell’acqua.
Questi veicoli raccolgono, trasportano e distribuiscono l’acqua potabile e ormai fanno parte del paesaggio urbano, anche se dovrebbero essere una “misura di mitigazione”, non una politica pubblica permanente. Attualmente 400mila famiglie ricorrono ai camion cisterna. Secondo uno studio condotto da geografi dell’università del Cile, nella provincia di Petorca i camion cisterna sono gestiti dagli agricoltori locali. Quindi lo stato compra l’acqua dalle aziende private per poi consegnarla alle case.
“Non manca l’acqua in termini assoluti, ma è mal distribuita”, afferma María Christina Fragkou, autrice di una ricerca sulle misure adottate dal Cile durante la siccità. Il comitato cileno per l’avocado si difende: “La situazione non ha nulla a che fare con l’industria che rappresentiamo. Nessun produttore di avocado associato al comitato vende acqua ai camion cisterna. La vendita d’acqua prolunga la crisi idrica, che dev’essere affrontata con investimenti pubblici a diretto beneficio delle comunità. Con una piccola parte di quello che si spende per i camion si potrebbero ottenere soluzioni stabili per far arrivare l’acqua a tutti”.
Secondo il governatore Mundaca, “alcuni proprietari terrieri non solo hanno l’acqua necessaria alla loro produzione agricola, ma addirittura gliene avanza per poterci guadagnare. Questo dimostra quanto sia perverso il modello privato di gestione dell’acqua e l’assenza di politiche pubbliche per renderla un bene comune accessibile a tutti: un diritto umano fondamentale”.
“Fanno tutti affari con l’acqua. Hanno dei pozzi profondi e acqua da vendere: è un business perfetto”, dice Gerardo Castillo. “A certe persone la siccità fa comodo. Per alcuni è un bene che non piova, perché così scavano pozzi sempre più profondi da cui estraggono l’acqua. Quei pozzi si trovano in luoghi strategici: sono vicino ai fiumi o alle falde acquifere sotterranee. Al cittadino comune si dà l’acqua solo quando i potenti lo vogliono, non quando si dovrebbe. Chi ha soldi può irrigare di più. I boschi di Petorca si sono seccati. La popolazione la considera una battaglia persa: l’acqua appartiene ai grandi imprenditori”.
Le radio locali della provincia di Petorca danno consigli per risparmiare acqua e nelle scuole si tengono lezioni su come gestire questa risorsa. Nei comuni di Cabildo, Petorca e La Ligua, i tre più colpiti dalla crisi idrica, tutti sono consapevoli del problema.
“La situazione è critica”, dice Lilian Cortés, 23 anni, proprietaria di una panetteria a Cabildo. “Abbiamo paura di restare senz’acqua. Mio fratello voleva investire nella zona, poi ha cambiato idea. Io ho una cisterna in cui raccolgo l’acqua per le emergenze. Ci sono clienti anziani che arrivano piangendo perché non hanno nulla da mangiare per i loro animali e devono ucciderli. Ora molti sono contenti perché nel 2022 ha piovuto di più, l’erba è cresciuta e gli animali si sono sfamati. La gente non vuole arrendersi”.
“In estate spesso l’acqua non arriva e quando arriva la pressione è al minimo”, dice dall’altra parte del bancone la commessa di un negozio di Cabildo. “Non possiamo lavare i vestiti né riempire le piscine, sarebbe da incoscienti. Inoltre l’acqua è pessima, piena di calcare, e bisogna farla bollire prima di berla”.
L’attività mineraria
Gli abitanti del Melón, poco più di ottanta chilometri a sud di Petorca, vivono una situazione simile. Secondo loro, però, la responsabilità è soprattutto delle miniere. Nel novembre 2019 il Movimiento popular pozo 9 occupò uno dei sedici pozzi dell’azienda mineraria Anglo American. “Non è siccità, la Anglo sta privando Melón dell’acqua”, recitava uno dei tanti striscioni dei manifestanti.
L’occupazione, segnata da sgomberi e arresti, si è conclusa nel febbraio 2020 con un accordo che sembrava una soluzione: sono stati realizzati due bypass, uno dal pozzo 9 al sistema di acqua potabile comunale e l’altro dal pozzo 4. Entrambi sono di proprietà dell’azienda mineraria, che opera nella zona dal 2002 e consuma 109 litri al secondo.
“Non avevamo acqua nelle nostre case e, quando arrivava, la pressione era bassa”, spiega Karen White, portavoce del movimento. “Ci dovevamo lavare alle quattro di mattina perché era l’unico momento in cui c’era un po’ di pressione. Non sapevamo come irrigare i campi e il settore agricolo ne stava pagando le conseguenze. Poi abbiamo capito che il problema della scarsità d’acqua riguardava solo noi, cioè la gente comune. L’azienda, che inquina la zona da anni, non aveva nessun problema”.
La soluzione trovata nel 2020, quindi, non ha risolto le cose. Nel febbraio 2022 il comune di Nogales (dove si trova El Melón) ha introdotto un razionamento quotidiano dell’acqua a causa del basso livello dei pozzi. Per mitigare le conseguenze del razionamento, insieme alla Anglo American il comune ha cominciato a distribuire l’acqua con i camion cisterna. A marzo Gonzalo Jaramillo, direttore del programma Agua rural della Anglo American, ha dichiarato: “Tra i fattori che rendono più critica la carenza idrica nella zona ci sono i problemi del sistema comunale di acqua potabile: le perdite, gli allacci irregolari e altre questioni che stiamo analizzando insieme al comune. Per compensare questo deficit idrico l’amministrazione ha introdotto i camion cisterna e alcuni miglioramenti tecnologici nella gestione operativa. L’obiettivo è ridurre il più possibile le perdite del sistema idrico”.
A distanza di mesi, i camion cisterna continuano ad arrivare e consegnano cento litri al giorno. I bypass tra i due pozzi sono ancora in funzione.
Il militante ambientalista Andrés Marín, ex portavoce del Movimiento popular pozo 9, afferma: “È gravissimo che per soddisfare il diritto all’acqua si debba dipendere da una multinazionale che ha prosciugato El Melón”.
Questa mattina Vilches prepara delle uova strapazzate e tosta il pane. Mentre aspetta i cinquanta litri quotidiani di acqua, tiene i piatti in ammollo in un contenitore con l’acqua avanzata dal giorno prima. Sul tavolo c’è una brocca di vetro piena. Fuori, sull’auto, sono attaccati tre adesivi con la scritta “Basta al furto d’acqua”. “Ecco”, dice aprendo il rubinetto. Senza perdere tempo, prende il bollitore e lo riempie. Deve decidere se lavare i piatti o dare da bere ai cani. ◆ fr
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1498 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati