All’International auto show di New York (Nyias) di quest’anno lo stand della Buick è stato allestito in una zona buia e desolata nell’angolo in fondo alla sala espositiva principale al terzo piano del Jacob Javits center. In mostra c’era un’unica auto, la Buick Envista, un suv crossover.

Un salone dell’auto, come ogni fiera commerciale, è un’attestazione della gerarchia esistente, e già dagli incontri con la stampa era palese che la Buick – ex gloriosa impresa statunitense, oggi un marchio in difficoltà che si affida a Tiger Woods come testimonial – era in fondo alla piramide. Come un cliente che entra in una concessionaria senza l’assillo dei venditori, l’ospite di un salone auto è libero di passare tutto il tempo che vuole a esaminare, fotografare, filmare, toccare e sbatacchiare le automobili nuove. Seduto al volante della Envista, ho considerato il potenziale di mercato di un suv crossover dall’aria scadente e con lo spazio posteriore di una decappottabile, e mi è sembrato poco.

Dopo dieci anni di dominio dei suv siamo entrati nella fase della loro fine: sembra che quelli piccoli stiano diventando più bassi, più compatti e più simili alle berline

Camminando tra i padiglioni della fiera ho avuto l’impressione che dopo dieci anni di dominio incontrastato dei suv siamo entrati nella prima fase della loro fine: sembra che quelli piccoli e medi stiano diventando più bassi, più compatti e più simili alle berline rispetto ai loro predecessori. A differenza della Envista, però, la maggior parte di questi veicoli riesce a gestire la transizione senza costringere i passeggeri del sedile posteriore a sporgersi in avanti. Lo stand della Buick, squallido e datato, era pieno di cappelli da cowboy di marca ma senza attrattiva. “È il primo suv crossover compatto della casa?”, mi sono ritrovato a chiedere all’unico rappresentante commerciale dell’azienda, senza avere risposta. È stato forse il punto più basso di tutto il salone.

Il Georgia world congress center di Atlanta è stato il primo posto in cui ho seguito un salone dell’auto, nel 1992 o 1993, e mi ricordo che andavo a vedere tutti i modelli messi sul mercato dalle grandi case. Al Javits non è più così già da un po’. A parte un circuito di prova all’aperto della Jeep, non c’è traccia della Stellantis: niente Chrysler, Dodge, Ram, Fiat, Alfa Romeo o Maserati. A parte la Volkswagen e una manciata di Porsche non c’erano marchi tedeschi, cosa inimmaginabile fino a pochi anni fa. La Gm non si è degnata di portare la Cadillac, il suo marchio più interessante, e la Ford si è presentata senza la Lincoln, che nel 2016 aveva un enorme stand dedicato alla sua nuova Navigator e al suo ambasciatore di allora, Matthew McConaughey. La Mazda non è venuta, ed è un peccato, e neanche la Mitsubishi, ma questa non è una sorpresa. L’ultima volta che c’era, credo nel 2017, il suo stand era sciatto come quello della Buick.

La mia vita cosciente ha più o meno coinciso con un’epoca di qualità storicamente alta del settore automobilistico. Negli anni novanta, durante le mie prime gloriose giornate ai saloni dell’auto, il delirio xenofobo antigiapponese dell’era Reagan stava cedendo il passo a un grande balzo in avanti quasi generalizzato: i veicoli statunitensi stavano migliorando, come quelli tedeschi e coreani, mentre le miniutilitarie giapponesi avevano già raggiunto un livello di eccellenza. Oggi le automobili sono migliorate in tutto e, non a caso, si somigliano molto. Ci sono meno grandi case, più ricambi in comune, regole più strette e molta meno eccentricità. Non penso che nulla di tutto questo sia un male in sé, ma mi chiedo se il calo di entusiasmo per le auto di cui spesso si parla non sia in gran parte la conseguenza dell’alta qualità. Mi sembra che ci sia una relazione fondamentale tra stravaganza e passione, che la seconda non possa esistere senza la prima. I fan delle auto britanniche di metà novecento facevano amicizia parlando dei problemi agghiaccianti dell’impianto elettrico e dei frequenti guasti delle loro Mg, e alla svolta del millennio gli appassionati delle Saturn si incontravano per un loro raduno annuale a Spring Hill in Tennessee.

L’unico marchio contemporaneo che incoraggia questo tipo di mania collettiva, naturalmente, è la Tesla. La Tesla odia i concessionari, quindi non c’è alcuna possibilità di vederla a un evento come questo, che è organizzato dalla Gnyada, l’associazione dei concessionari automobilistici dell’area di New York. È stato bello non dover pensare attivamente alla Tesla, una delle case automobilistiche più importanti del mondo, ma anche una delle più difficili da analizzare senza cadere nell’esaltazione o nel pregiudizio. Chiaramente, però, altre persone ci stavano pensando. Alla conferenza stampa di presentazione della Prologue, il rappresentante della Honda si è soffermato a lungo sul tettuccio panoramico retraibile dell’auto, gettando ombra (letteralmente) sulla versione in vetro, rigida e tendente a surriscaldarsi, della Tesla. Il tettuccio, ha detto il tizio, è “una delle mie cose preferite della Prologue”, insieme alla linea abbassata e alle ruote e alle gomme più grandi di tutta la storia della casa. Alla presentazione e alla conferenza stampa della Acura di poco prima, i venditori erano particolarmente entusiasti dei loghi delle auto, anche se in realtà erano rimasti uguali.

Acura è il marchio usato dalla Honda per i suoi modelli di classe superiore, una categoria che non mi ha mai convinto. Che senso ha pagare un sacco di soldi in più per una Toyota Camry ribrandizzata con i sedili in pelle e i rivestimenti in legno? Senza la Bmw, la Mercedes e i numerosi brand della Stellantis, i marchi di lusso giapponesi hanno avuto fin troppo spazio, e non abbastanza contenuti con cui riempirlo. Ho notato che nei loro stand c’era un’abbondanza di tappeti che però non riusciva a mitigare la brutale ostilità cementizia del Javits center. Infiniti, il marchio di lusso della Nissan, mi ha colpito ancora meno dell’Acura o della Lexus: l’intero stand era dedicato a un’esperienza semint­erattiva incentrata sul nuovo QX80, un bestione di suv con due prese d’aria più grandi della mia testa. Tra archi elettronici, lampade lava verdi-azzurre e aperitivi risicati, si stagliava un bizzarro impianto audio interattivo: il tutto per vendere un suv che costa 30mila dollari in più della Nissan Armada, praticamente identica.

Naturalmente non esiste una relazione intrinseca tra qualità dell’esposizione e quota di mercato. La Tesla non conta meno perché non si è presentata, e neanche Matthew McConaughey avrebbe potuto aiutare la Buick a migliorare la sua immagine. Ma se alcuni dei pesi massimi hanno fatto sentire la loro presenza con l’assenza, altri si sono imposti con la loro enfatica partecipazione. La Toyota ha allestito un campo da basket in carrozzina e un gonfiabile che riproduceva una piscina per sottolineare la sua partnership con i giochi olimpici e paralimpici. La fila di scarpe da ginnastica allo stand della Nissan serviva a promuovere il crossover compatto Kicks, chiamato come un paio di scarpe e forse anche disegnato per ricordarne la forma.

Non sono insensibile al buon marketing, e una tazza di tè alla barbabietola versato da una teiera di pietra allo stand della Genesis è un esempio di buon marketing. Genesis è un marchio di lusso come Acura, Infiniti e Lexus, ma si presenta con una certa sfrontatezza, distinguendosi sia dalla casa madre (la Hyundai) sia dai suoi concorrenti giapponesi e tedeschi. Al suo stand, di gran lunga il più elegante, l’atmosfera era luminosa e senza fronzoli. Le auto della Genesis sono come il suo tè: discrete, raffinate, nobilitanti. Un tempo m’infastidiva il fatto che le griglie e i loghi dell’azienda evocassero in modo così spudorato gli ultimi modelli della Bentley. Poi, al salone dell’anno scorso, mi sono seduto sul sedile posteriore di una G70, ho chiuso la portiera, ho sentito il più perfetto dei clunk e mi sono reso conto che queste macchine sono superiori alle Bentley da ogni punto di vista, e costano un quarto. Non sarò mai nella condizione economica di acquistare un’auto di lusso, ma Genesis è l’unico marchio che non rende umiliante questa lieve e fluttuante sensazione di desiderio.

Tre delle Genesis esposte avevano lo stesso colore arancio vivace del tè. Non mi ricordo quali fossero a destra e quali a sinistra della X Gran Berlinetta perché nessun’altra auto al salone ha dominato così tanto il campo visivo. Con le sue ruote improbabili, le sue enormi fiancate e il suo abitacolo stretto, sembrava una specie di macchina da corsa che avesse appena fatto il lifting dei glutei. Una volta superato lo shock pornografico la mia mente è andata ai videogiochi di corse della serie Need for speed, dove auto simili alla Berlinetta attraversavano paesaggi notturni europei. In quei videogiochi la guida era sempre fluida e senza ostacoli: le supercar attraversavano a trecento chilometri all’ora una schiera di paesini tedeschi illuminati dal chiaro di luna, rimbalzavano sui guard­rail della piazza centrale e proseguivano la corsa. Oggi, gli unici che possono guidare senza impedimenti sono i figli scemi dei miliardari che lanciano le loro Koenigsegg sulle strade di Los Angeles e New York a 250 all’ora. Di solito scopro le loro gesta dai filmati raccapriccianti delle loro auto da un milione di dollari schiantate contro i pali della luce e le vetrine, con i pedoni come danno collaterale.

I marchi automobilistici più diffusi negli Stati Uniti sono Toyota, Ford e Chevrolet. I veri vip dell’International auto show di New York, però, sono stati i coreani. Mentre la Genesis ha tenuto alta la bandiera del lusso, la Kia ha recitato splendidamente la parte della sorella minore della Hyundai. Presentando l’eroicamente orrenda K4, il venditore della Kia ha passato gran parte dell’incontro con la stampa a decantarne le innovazioni tecnologiche, tra cui l’ia generativa, che permette al guidatore di essere sempre aggiornato su “quotazioni di borsa, risultati sportivi e contenuti del libretto di istruzioni”. Nonostante questo, la flotta della Kia è solida e affidabile. Ogni volta che noleggio un’auto rimango deluso se non è una Kia.

La vera star della fiera, però, è stata la sua casa madre. La conferenza stampa della Hyundai è stata la più scintillante e i suoi modelli i più attraenti. Al salone dell’anno scorso mi sono innamorato della Ioniq 5, un’auto elettrica moderna che non risente della fastidiosa influenza della Tesla. Credo che perfino i fan più irriducibili di Elon Musk trovino i suoi nuovi modelli troppo onnipresenti, troppo datati, troppo volgari. La Ioniq 5, invece, è progettata per stupire ed emozionare. La linea è modulare, come se potessimo smontarla e sostituire le batterie, ma non ha affatto un’aria misera: sembra solo facile da usare, come un aspirapolvere degli anni ottanta. La sua griglia ordinata di fanalini posteriori è un dettaglio di design creativo che non ho visto da nessun’altra parte. Come tutta l’auto, il futurismo della griglia è declinato al tempo presente, in un rassicurante contrasto sia con il circolo vizioso rétro in cui è scivolata l’industria sia con l’egemonia degli aggressivi fascioni neri.

Sul circuito di prova della Hyundai all’interno della fiera, il carismatico autista mi fa fare qualche giro sulla Ioniq 5 N, che fa da zero a cento in poco più di tre secondi. L’accelerazione è incredibile, quasi senza sforzi, e mi sono sinceramente divertito. Non avrei mai pensato di apprezzare la simulazione del suono del motore, che ho sempre considerato un espediente disperato, ma la Ioniq 5 N fa sembrare tutto come un gioco, al contrario delle innovazioni artificiose della Tesla. Musk, come è noto, ha dotato le sue macchine di una funzione che riproduce il suono delle scoregge, un’inutile scemenza che mi è venuta in mente curiosando in uno stand che vendeva finte targhe personalizzate. Stavo pensando di prenderne a mia figlia una con il suo nome sopra – magari del New Mexico, con la sua livrea perfetta – finché non ho visto una targa dell’Indiana con la scritta Big Tits (tette grosse). Ecco, l’intero progetto della Tesla mi sembra una collezione di tecnologie avanzate, non sufficientemente collaudate e con lo stesso carattere di queste targhe.

Alla conferenza stampa della Hyundai ho assistito a un’impressionante dimostrazione di arte della vendita. Presentando due modelli minori, Randy Parker, l’amministratore delegato della divisione statunitense, ha annunciato la “nuova tecnologia umanocentrica della Hyundai”: il “ritorno delle vecchie manopole e lancette” che quasi tutti i marchi – a parte la Mazda, nobilmente e irriducibilmente contraria allo schermo – hanno sacrificato negli ultimi anni. Ma la cosa più importante non sono questi ritocchi cosmetici. “Stiamo seguendo i clienti passo passo nel loro percorso verso l’elettrificazione”, ha detto tutto orgoglioso Parker. Se negli ultimi anni le auto elettriche sono state adottate da un numero abbastanza ristretto di utenti della prima ora, la Hyundai sta lavorando sulla “maggioranza della prima ora”: una geniale formula di quelle che i consulenti del Partito democratico sono pagati milioni di dollari per (non) inventarsi.

Christian Dellavedova

Avevo undici anni quando la Gm lanciò la Ev1 e assistere al fallimento della prima vera generazione di auto elettriche – per colpa dei complotti industriali, del disinteresse dei consumatori o di entrambe le cose – è stata un’esperienza decisiva. Ora, quasi trent’anni dopo, al salone c’è un gruppo di dirigenti della casa automobilistica più ambiziosa del mondo che discute dell’elettrificazione con uno sconcertante tono di inevitabilità. Alla Hyundai non hanno molto da dire sul cambiamento climatico, ma in fondo, perché dovrebbero? I costruttori di auto, come le compagnie petrolifere o i fondi d’investimento, non possono risolvere la crisi climatica.

Come l’amministratore delegato della Hyundai, Thomas Ingenlath della Polestar – una specie di Tom Cruise tedesco – è incondizionatamente entusiasta del futuro dell’elettrificazione. Mentre altri costruttori tacciono sulle implicazioni politico-ambientali dei loro veicoli elettrici, la Polestar – un’azienda svedese controllata dalla Volvo – etichetta i sedili delle sue auto con dati sull’impronta ecologica dei tessuti utilizzati e la frase “benessere animale assicurato”. È una mossa spavalda, probabilmente efficace, e mi ha dato la sensazione di essere seduto in un flacone di lozione per le mani.

“È venuta dalle stelle?”, chiede una voce nel video promozionale mandato prima della presentazione della Polestar 4. “Non lo so, ma sopra ce ne trovate una”. Ok, devo dire che la Polestar – la sua bellissima e ribassata 3, il suo amministratore delegato sexy, il suo minimalismo scandinavo – mi aveva abbastanza sedotto finché non ho cominciato a parlare con il tizio di un fondo d’investimento che si aggirava per lo stand. Recentemente aveva noleggiato una Polestar 2 e aveva trovato estremamente scomodo entrare e uscire dall’auto. Aveva un’idea pessimistica dello stato del mercato elettrico (al di là dalla sua esperienza con il noleggio), anche se vedeva bene la Hyundai. Al momento, mi ha detto, il problema delle auto elettriche è che le comprano troppe poche persone. Le agevolazioni fiscali per i veicoli elettrici sono diminuite ma i prezzi sono rimasti alti, il bastone dei regolamenti statunitensi è debole e la benzina costa poco. “Cosa può far cambiare la situazione?”, ho chiesto. Un’altra guerra, ha risposto il tizio del fondo d’investimento.

Ingenlath, da parte sua, ha parlato per quasi tutto il tempo della mancanza di “un lunotto posteriore tradizionale” sulla Polestar 4, sostituito da una video­camera collegata allo specchietto retrovisore (che quindi non è più uno specchio, ma uno schermo). Negli ultimi anni di rivoluzione del design delle auto mi sono abituato all’eliminazione di equipaggiamenti che un tempo pensavo essenziali come le ruote e le portiere, ma ritrovarsi una lastra d’acciaio bianco riciclato al posto del lunotto posteriore è stato come raggiungere una nuova frontiera. Dopo la presentazione della Polestar sono andato allo stand della Volkswagen e ho scoperto che l’epidemia del falso specchietto era più diffusa di quanto immaginassi. Seduto al volante del furgoncino Id Buzz ho guardato entrambi gli specchietti retrovisori e ho visto un motivo a led azzurro. Su questi aggeggi si può fare apparire qualsiasi cosa! Ci ho messo qualche secondo di troppo per capire che stavo guardando lo sfondo dello stand riflesso in due specchietti, ancora fortunatamente veri. Per ora.

La mattina della seconda giornata dedicata alla stampa sono sceso al piano seminterrato per partecipare al World traffic safety symposium, un incontro sulla sicurezza del traffico organizzato dalla Gnyada. Se al piano di sopra gli operatori del settore, la gente della finanza e i vlogger, tantissimi vlogger, si stavano ancora riprendendo dalle feste, qui ero nel regno dei burocrati perenni. Quasi tutti i burocrati erano altissimi. Mi sono seduto al tavolo con il più alto di tutta la sala, un uomo composto con un’aria benevola. Ho poi scoperto che era Mark Schroeder, il capo della motorizzazione dello stato di New York: si è rivelato un incontro con una celebrità parecchio più lungo di quello, assai breve, che ho avuto con Matthew McConaughey qualche anno fa. Durante il suo intervento Schroeder ha elogiato Kathy Hochul non solo come la prima donna a governare lo stato di New York, ma anche come “l’unica governatrice nella sua storia che sia stata a capo della motorizzazione”. Ha pronunciato le parole “diversità, parità e inclusione” senza imbarazzo e senza alcuna traccia dell’esitazione che gli amministratori delegati del piano di sopra tradivano quando trattavano con circospezione la questione del cambiamento climatico.

Jennifer Homendy, la presidente del consiglio nazionale per la sicurezza dei trasporti degli Stati Uniti, ha tenuto il discorso di apertura via Zoom da Baltimora. Il suo intervento è stato traumatico e frustrante. “Nei prossimi quindici minuti”, ha detto, “sulle strade del nostro paese una persona morirà”, per poi lanciarsi in una descrizione spaventosa di due incidenti automobilistici. Con le tecnologie di oggi, ha concluso l’agenzia, si sarebbero entrambi potuti evitare. Quando lei ha parlato di “dolore lacerante” ho pensato istintivamente alle lamiere che si accartocciavano e non credo di essere stato l’unico.

Christian Dellavedova

Il punto di Homendy è che a bordo dei veicoli si possono già montare salvavita come l’assistenza intelligente alla velocità, la tecnologia passiva di rilevazione dell’alcol e così via. Nelle sue parole, però, c’era un senso di passività, come se, in ultima analisi, la responsabilità di scongiurare tutta questa indicibile atrocità fosse delle case automobilistiche. Ha fatto bene a sollevare il tema del peso dei veicoli elettrici – un problema reale – poi però mi sono accorto che ne ha parlato non a tutela dei pedoni e dei ciclisti, ma delle strade.

Sarà sicuramente vero che i veicoli pesanti stanno consumando le strade più rapidamente del previsto, ma non mi sembrava il problema principale da portare all’attenzione delle autorità del governo. Ogni mattina accompagno mia figlia a scuola a piedi e attraversiamo due incroci talmente mal progettati che dobbiamo fare i salti mortali per evitare la quasi totalità degli automobilisti che non si fermano mai sulle strisce. Sono felice che il programma di assistenza intelligente alla velocità dello stato di New York stia avendo effetti positivi, e sono felice anche dei pedaggi urbani. Ma la gravità dei rischi va ben oltre tutte le allegre innovazioni di cui si sta discutendo qui.

Il più grande progetto infrastrutturale nella storia degli Stati Uniti è stato il sistema autostradale, che ha distrutto le città e forse, ma non tanto forse, anche la società. L’autodistruzione razzista dello spazio compiuta alla metà del novecento è un crimine che non sarà mai espiato a sufficienza. Ogni volta che un bambino cammina lungo una strada extraurbana a quattro corsie e viene ucciso da un automobilista che sbanda, ogni volta che qualcuno semplicemente va a 160 dove il limite di velocità è 90, ogni volta che una famiglia di sette persone su una monovolume che si presume sicura viene sterminata nonostante l’ovvia capacità tecnologica di limitare la velocità, ridisegnare le strade e far rispettare le regole, sembra ragionevole dedurre che la cultura dell’auto non ha niente a che vedere con i fanalini posteriori futuristici. La cultura dell’auto è una cultura di morte.

“La cosa che fa più incazzare è che le vittime di lusso hanno opzioni di sicurezza inesistenti per quelle di fascia più bassa”, ho scritto sul taccuino durante l’intervento di Homendy. Volevo dire “le auto”, non “le vittime” ma il punto è lo stesso. È ovvio che la vita negli Stati Uniti è fatta da una serie di crudeli ingiustizie, ma l’idea che la frenata di emergenza automatica e l’allarme di collisione frontale siano a disposizione solo di pochi privilegiati, nonostante l’assenza di qualsiasi vincolo tecnico all’adozione universale, fa incazzare. Abbiamo un bisogno disperato di norme di sicurezza molto più stringenti ma, a quanto pare, non le avremo.

Durante la conferenza stampa della Hyundai si è parlato di Hyundai Pay, una tecnologia che colloca il marchio “al crocevia tra il settore auto, i pagamenti e i sistemi di ricarica dei veicoli elettrici”. La prima cosa che ho pensato è che l’abitacolo di una macchina nuova è l’unico posto in cui è possibile vivere il sogno tecnologico esattamente come l’hanno concepito i suoi creatori. Mentre è al volante, il guidatore può accendere il suo stereo ad altissima fedeltà e sopprimere il mondo esterno in uno stato di pura e beata dissociazione, a meno che un ponte non gli crolli sotto o (molto più probabilmente) non si faccia distrarre da un messaggio sul cellulare e vada a sbattere contro la fiancata di una monovolume.

“Alla guida pare molto più piccola di quello che è”, ho sentito dire da un venditore a due potenziali acquirenti di una Infiniti QX80. Mi è sembrata immediatamente una delle affermazioni più vere e più ambigue che si possano fare sulla vita nel nostro secolo. L’elettrificazione è un processo reale, ma le automobili continuano a diventare sempre più grandi, anche se le dimensioni sono mitigate da una serie di accorgimenti. Recentemente, per un viaggio, dovevo noleggiare un’auto a sei posti e mi hanno proposto una Chevy Tahoe a otto posti, che ovviamente alla guida sembra molto più piccola di quello che è. Nonostante un peso di due tonnellate e mezzo, era fluida e agile: accelerare era facile, sterzare sulle curve precarie dell’autostrada era facile e dimenticarsi delle auto più piccole e vulnerabili (e dei loro passeggeri) sulle altre corsie era facilissimo.

Nulla di tutto questo è un progresso. L’aumento delle dimensioni è stato normalizzato a tal punto che è quasi impossibile accorgersi dell’enormità delle nostre auto. Il desiderio di status, la rincorsa all’altezza, un rapporto fragile con la mascolinità, la guerra globale al terrorismo, la maggiore consapevolezza in materia di sicurezza, un quadro normativo che ha reso la produzione di mezzi inefficienti e ad alto consumo molto più attraente per i costruttori rispetto a quella di auto più piccole ed ecocompatibili: tutti questi elementi sono stati ritenuti responsabili dell’ascesa dei suv, ed effettivamente lo sono. Ma c’è un altro fattore che non va sottovalutato: il desiderio di mettere un muro tra sé e il mondo esterno, di ergersi al di sopra di un’infrastruttura degradata e del rischio della violenza mentre si sta contribuendo a entrambi.

Come ha scritto Kate Aronoff su The New Republic, gli standard sulle emissioni stanno migliorando (troppo lentamente), ma non si avvicinano neanche ad affrontare in modo adeguato il problema che l’agenzia per la protezione dell’ambiente degli Stati Uniti ha contribuito a creare: un sistema “a due velocità” nel quale i suv e i grandi fuoristrada possono continuare imperterriti a bruciare quantità imbarazzanti di carburante. Le case automobilistiche che hanno lavorato per questo regime normativo hanno risposto in maniera razionale, producendo più suv e grandi fuoristrada e meno auto tradizionali.

Capisco che nell’impero la vita va avanti, mentre la gente muore in un genocidio appoggiato e sottoscritto dagli Stati Uniti. Negli ultimi sei mesi sono andato al cinema, ho partecipato a feste di bambini e le ho anche organizzate. Eppure, l’esperienza di stare due giorni chiuso in un centro convegni a riflettere su un’industria che ha fatto tanto per distruggere e destabilizzare il paese in cui vivo, il nostro pianeta e milioni dei suoi abitanti mi ha riempito di disgusto e disperazione. Il primo giorno, al piano di sotto, ho visto una Toyota Land Cruiser personalizzata con un adesivo sul lunotto posteriore che diceva “Scusate per i graffi e le ammaccature, sono ferite di guerra”. La Land Cruiser, ovviamente, era immacolata.

Mi è sembrato appropriato passare gli ultimi minuti al salone con un Hummer. Quando l’Hummer è stato messo in vendita al pubblico, dopo il trionfo di pubbliche relazioni nella guerra del Golfo, la mia famiglia era appena immigrata negli Stati Uniti. Nel 1999, quando il marchio è stato venduto alla Gm e ha cominciato a conquistare le periferie, ero già un po’ più sintonizzato sul mercato. Più o meno nello stesso periodo era stata lanciata la gigantesca Ford Excursion, ed era impossibile ignorare la voglia di grandi dimensioni dei consumatori. Posizionato non lontano dallo stand con la Buick Envista, l’Hummer Ev, elettrico, della Gmc mi ha dato una sensazione visiva e tattile di enormità. All’interno ogni cassetto, compartimento e bocchetta dell’aria era almeno tre volte più grande del normale e del necessario. L’elemento che spiccava di più era una bandiera degli Stati Uniti nera su sfondo nero in rilievo sul fuoristrada.

Negli ultimi dieci anni le forze di difesa israeliane hanno comprato più di duemila Hummer dagli Stati Uniti, e tre veicoli militari su quattro fabbricati in Israele sono basati sui fuoristrada americani (il quarto, il David della Mdt, è basato sulle piattaforme della Land Rover Defender e della Land Cruiser). Seduto all’interno dell’Ev, con le sue dimensioni esagerate e le sue terribili strutture, ho pensato che l’ultimo (e a volte il primo) oggetto prodotto negli Stati Uniti che molte vittime della guerra vedono in giro per il mondo è un Hummer. ◆ fas

Mark Krotov è un giornalista statunitense. Questo articolo è uscito sul sito di n+1, un giornale letterario di New York di cui Krotov è condirettore, con il titolo Auto show dispatch.

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Questo articolo è uscito sul numero 1563 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati