Tradotto dall’inglese con il permesso del New Yorker.
Berlino non smette mai di ricordarci quello che è successo. Diversi musei sono dedicati al totalitarismo e all’Olocausto. Il memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa occupa un intero isolato. In un certo senso, però, le strutture più grandi sono la cosa meno importante. I monumenti commemorativi che ci raggiungono di soppiatto – quello ai libri bruciati, che è letteralmente sottoterra, e le migliaia di pietre d’inciampo posate nei marciapiedi per commemorare individui ebrei, sinti, rom, omosessuali, persone con disturbi psichici e altre assassinate dai nazisti – rivelano la pervasività dei mali che sono stati commessi in questo luogo. All’inizio di novembre, mentre stavo camminando verso la casa di un amico, mi sono imbattuta nel pannello che dà informazioni sul sito del bunker di Hitler. L’avevo già fatto tante volte. Sembra una bacheca di quartiere, ma racconta la storia degli ultimi giorni del Führer.
Alla fine degli anni novanta e all’inizio degli anni duemila, quando molti di questi memoriali furono concepiti e installati, ero spesso a Berlino. Era esaltante vedere la cultura della memoria prendere forma. Ecco un paese, o almeno una città, che stava facendo ciò che la maggior parte delle culture non può fare: guardare ai propri crimini, al proprio io peggiore. Ma, a un certo punto, lo sforzo ha cominciato a sembrare statico, messo sotto vetro, come se fosse un tentativo non solo di ricordare la storia, ma di ricordare questa storia particolare, e solo in questo modo. È vero anche in senso fisico. Molti dei memoriali sono in vetro: il Reichstag, un edificio quasi distrutto durante l’era nazista e ricostruito mezzo secolo dopo, ora è sormontato da una cupola di vetro. Anche il memoriale dei libri bruciati è sotto vetro. Pareti divisorie e lastre trasparenti mettono ordine nella splendida collezione, un tempo casuale, chiamata “topografia del terrore”. Come mi ha detto Candice Breitz, un’artista ebrea sudafricana che vive a Berlino, “le buone intenzioni degli anni ottanta sono cambiate, spesso sono diventate un dogma”.
Alcuni dei grandi pensatori ebrei sopravvissuti hanno cercato di dire al mondo che il fatto che l’Olocausto sia successo significa che era e rimane possibile
Tra i pochi spazi in cui la rappresentazione della memoria non è fissata in modo permanente ci sono un paio di gallerie del museo ebraico, che è stato completato nel 1999. Quando l’ho visitato, in una galleria al piano terra era esposta un’installazione, Prove dello spettacolo degli spettri. È un video ambientato nel kibbutz Beeri, la comunità in cui il 7 ottobre Hamas ha ucciso più di novanta persone, quasi un residente su dieci, durante l’attacco a Israele che alla fine ha causato 1.140 vittime. Nel video, gli abitanti di Beeri recitano a turno i versi di una poesia della poeta Anadad Eldan, parte della comunità: “… dalla palude tra le costole / è affiorata colei che si era immersa in te / e tu sei costretta a non gridare / e inseguire le forme che fuggono lì fuori”. Il video, realizzato da Nir Evron e Omer Krieger, due artisti israeliani che vivono a Berlino, è stato completato nove anni fa. Comincia con una veduta aerea della zona, si vede la Striscia di Gaza, poi lentamente si concentra sulle case del kibbutz, alcune sembrano bunker. Non sono sicura di ciò che gli artisti e la poeta intendessero comunicare, ma oggi l’installazione sembra un pianto funebre per Beeri (Eldan, che ha quasi cento anni, è sopravvissuta all’attacco di Hamas).
In fondo al corridoio c’era uno degli spazi che Daniel Libeskind, l’architetto che ha progettato il museo, ha chiamato “vuoti”, fasci d’aria che perforano l’edificio, simboli dell’assenza degli ebrei in Germania per generazioni. Lì c’è Foglie cadute, un’installazione dell’israeliano Menashe Kadishman: più di diecimila lastre di ferro tonde con sopra incisi occhi e bocche, come disegni infantili di facce urlanti. Quando ci si cammina sopra fanno un rumore metallico che ricorda quello delle catene o dell’otturatore di un fucile. L’artista ha dedicato l’opera ai morti dell’Olocausto e ad altre vittime innocenti della guerra e della violenza. Non so cosa avrebbe detto Kadishman, morto nel 2015, dell’attuale conflitto. Ma, dopo essere passata dall’inquietante video del kibbutz Beeri alle facce di ferro che tintinnano, ho pensato alle migliaia di abitanti di Gaza uccisi per rappresaglia agli ebrei uccisi da Hamas. Poi ho pensato che, se in Germania avessi dichiarato pubblicamente il mio pensiero, mi sarei messa nei guai.
Il 9 novembre, in occasione dell’85° anniversario della “notte dei cristalli”, sulla porta di Brandeburgo sono state proiettate in bianco e blu una stella di David e la frase Nie wieder ist jetzt!, “Mai più è adesso!”. Quel giorno il Bundestag, il parlamento federale tedesco, stava esaminando una proposta di legge intitolata “Accettare la responsabilità storica e proteggere la vita ebraica in Germania”, che conteneva più di cinquanta misure per combattere l’antisemitismo nel paese. Alcuni di questi provvedimenti: espellere gli immigrati che commettono crimini antisemiti; intensificare le attività dirette contro il movimento Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds); sostenere gli artisti ebrei “il cui lavoro è fondamentale per la lotta all’antisemitismo”; applicare una particolare definizione di antisemitismo nelle decisioni sui finanziamenti e le scelte politiche; rafforzare la cooperazione tra le forze armate tedesche e quelle israeliane. Il vicecancelliere tedesco, Robert Habeck, dei Verdi, ha detto che i musulmani che vivono in Germania dovrebbero “prendere chiaramente le distanze dall’antisemitismo per non compromettere il loro stesso diritto alla tolleranza”.
La Germania ha regolamentato da tempo i modi in cui l’Olocausto è ricordato e discusso. Nel 2008, parlando davanti alla knesset, il parlamento d’Israele, in occasione del sessantesimo anniversario della fondazione dello stato, la cancelliera tedesca Angela Merkel sottolineò la particolare responsabilità della Germania non solo di conservare la memoria dell’Olocausto come atrocità che non ha uguali nella storia, ma anche di garantire la sicurezza di Israele. Era, continuò, una delle priorità tedesche. Da allora sembra che in Germania questo sentimento sia espresso ogni volta che si parla di Israele, di ebrei o di antisemitismo.
Allo stesso tempo, si è aperto un dibattito confuso ma stranamente consequenziale su cos’è l’antisemitismo. Nel 2016 l’organizzazione intergovernativa International holocaust remembrance alliance (Ihra) ha adottato questa definizione: “L’antisemitismo è una percezione degli ebrei che può essere espressa come odio verso di loro. Le manifestazioni verbali e fisiche dell’antisemitismo sono dirette contro ebrei o non ebrei e/o le loro proprietà, e contro le istituzioni e le strutture religiose della comunità ebraica”. L’Ihra fa undici esempi, che cominciano con l’ovvio “invocare o giustificare l’uccisione degli ebrei” ma includono anche “affermare che l’esistenza di uno stato di Israele è una forma di razzismo” e “paragonare la politica israeliana contemporanea a quella dei nazisti”.
Questa definizione non ha valore giuridico, ma ha avuto un’influenza straordinaria. Venticinque stati dell’Unione europea e il ministero degli esteri degli Stati Uniti l’hanno approvata o adottata. Nel 2019, il presidente statunitense Donald Trump ha firmato una legge che prevedeva il blocco dei finanziamenti federali ai college che non proteggevano gli studenti dall’antisemitismo per come era stato identificato dell’Ihra. Il 5 dicembre di quest’anno Washington ha approvato una risoluzione non vincolante che condanna l’antisemitismo come definito dall’Ihra, proposta da due deputati repubblicani ebrei e contrastata da diversi eminenti democratici ebrei.
Nel 2020, un gruppo di accademici ha proposto un significato alternativo di antisemitismo, che ha chiamato “dichiarazione di Gerusalemme”. È espresso come una forma di “discriminazione, pregiudizio, ostilità o violenza contro gli ebrei in quanto ebrei (o le istituzioni ebraiche in quanto ebraiche)”, con esempi che aiutano a distinguere le dichiarazioni e le azioni anti-israeliane da quelle antisemite. Ma anche se alcuni stimati studiosi dell’Olocausto hanno partecipato alla sua stesura, la dichiarazione non ha intaccato l’influenza dell’Ihra. Nel 2021 la Commissione europea ha pubblicato un manuale “per l’uso pratico” della definizione dell’Ihra, che raccomanda il suo uso, tra le altre cose, nella formazione delle forze dell’ordine affinché possano riconoscere i crimini d’odio, e nella creazione di ruoli di procuratore, coordinatore o commissario per l’antisemitismo.
La Germania lo aveva già fatto. Nel 2018, aveva creato l’Ufficio del commissario del governo federale per la vita ebraica in Germania e la lotta contro l’antisemitismo, una grande organizzazione burocratica che comprendeva commissari a livello statale e locale, alcuni dei quali lavorano nelle procure e nei distretti di polizia. Da allora, la Germania registra un aumento quasi ininterrotto di incidenti antisemiti: più di duemila nel 2019, più di tremila nel 2021. Secondo un gruppo di monitoraggio, nel mese successivo all’attacco di Hamas ci sono stati ben 994 casi. Ma le statistiche non distinguono quello che i tedeschi chiamano antisemitismo legato a Israele, per esempio le critiche alle politiche del governo israeliano, da episodi violenti come il tentativo di attacco armato a una sinagoga, a Halle nel 2019, in cui morirono due passanti; i colpi sparati contro la casa di un ex rabbino, a Essen nel 2022; e le due bottiglie molotov lanciate in una sinagoga di Berlino lo scorso ottobre. In realtà, il numero di azioni violente è rimasto relativamente stabile e dopo l’attacco di Hamas non è aumentato.
Oggi in Germania ci sono decine di commissari per l’antisemitismo. Non hanno mansioni specifiche né sono inquadrati giuridicamente, e gran parte del loro lavoro sembra consistere nell’umiliare pubblicamente quelli che considerano antisemiti, spesso perché “negano l’unicità dell’Olocausto” o criticano Israele. Quasi nessuno di questi commissari è ebreo, mentre la percentuale di ebrei tra i loro bersagli è decisamente più alta. Tra questi c’è il sociologo tedesco-israeliano Moshe Zuckermann, che è stato preso di mira per aver sostenuto il movimento Bds, e il fotografo ebreo sudafricano Adam Broomberg.
Nel 2019 il Bundestag ha approvato una risoluzione in cui accusa il Bds di essere antisemita, raccomandando di non concedere finanziamenti statali a eventi e istituzioni collegate al movimento. La storia della risoluzione è significativa. Una sua prima versione era stata presentata da Alternative für Deutschland (Afd), il partito etnonazionalista ed euroscettico di estrema destra allora relativamente nuovo nel parlamento tedesco. I politici tradizionali l’avevano respinta perché proveniva dall’Afd, ma, temendo di essere considerati incapaci di combattere l’antisemitismo, ne avevano subito presentata una simile. La risoluzione era imbattibile perché collegava il Bds alla “fase più terribile della storia tedesca”. Per l’Afd, i cui leader fanno dichiarazioni apertamente antisemite e appoggiano la rinascita del linguaggio nazista, il fantasma dell’antisemitismo è uno strumento perfetto da sfruttare cinicamente sia per entrare nel mainstream politico sia come arma che può essere usata contro gli immigrati musulmani.
Il Bds, che s’ispira al movimento di boicottaggio contro l’apartheid sudafricano, cerca di usare la pressione economica per garantire uguali diritti ai palestinesi che vivono in Israele, porre fine all’occupazione e promuovere il ritorno degli esuli palestinesi. Molte persone lo trovano problematico perché non afferma il diritto all’esistenza dello stato israeliano, anzi, alcuni suoi sostenitori auspicano il totale disfacimento del progetto sionista. Tuttavia si potrebbe obiettare che associare all’Olocausto un movimento di boicottaggio non violento, che è stato esplicitamente definito un’alternativa alla lotta armata, è un modo di relativizzare l’Olocausto stesso. Ma, secondo la logica della politica della memoria tedesca, poiché il boicottaggio è rivolto contro gli ebrei – anche se molti dei sostenitori del movimento sono ebrei – il Bds è antisemita. Si potrebbe perfino sostenere che l’intrinseca confusione tra ebrei e stato di Israele è antisemita, e soddisfa la definizione di antisemitismo dell’Ihra. Dato il coinvolgimento dell’Afd e il fatto che la risoluzione viene usata in gran parte contro gli ebrei e i neri, potremmo pensare che questo argomento guadagni terreno. Ma sbaglieremmo.
La costituzione tedesca – a differenza di quella statunitense ma come quelle di molti paesi europei – non è interpretata in modo da rappresentare una garanzia assoluta della libertà di parola. Assicura, tuttavia, libertà di espressione non solo nei mezzi d’informazione, ma anche nelle arti e nelle scienze, nella ricerca e nell’insegnamento. Se la risoluzione contro il Bds diventasse legge, probabilmente sarebbe considerata incostituzionale. Ma non è stata sottoposta a questa prova. Uno dei motivi che l’hanno resa particolarmente influente è la nota generosità dello stato tedesco: quasi tutti i musei, le mostre, le conferenze, i festival e altre iniziative culturali ricevono finanziamenti dal governo federale, statale o locale. “È un ambiente maccartista”, dice Candice Breitz . “Ogni volta che vogliamo invitare qualcuno, loro” – qualsiasi agenzia governativa finanzi un evento – “cercano il nome su Google per vedere se è associato al Bds, a Israele o all’apartheid”.
Un paio di anni fa, Breitz, che nella sua arte affronta i temi della questione razziale e dell’identità, e Michael Rothberg, che tiene corsi sull’Olocausto all’Università della California a Los Angeles, hanno cercato di organizzare una giornata di studi sulla memoria tedesca dell’Olocausto intitolato “Dobbiamo parlare”. Dopo mesi di preparativi, i finanziamenti statali per il convegno sono stati ritirati, probabilmente perché il programma includeva una tavola rotonda che collegava Auschwitz al genocidio degli herero e dei nama commesso tra il 1904 e il 1908 dai colonizzatori tedeschi in quella che oggi è la Namibia. “Alcune delle tecniche della Shoah sono state sviluppate allora”, ha detto Breitz. “Ma non ci è permesso parlare allo stesso tempo del colonialismo tedesco e della Shoah, perché è come metterli sullo stesso piano”.
L’insistenza sull’unicità dell’Olocausto e la centralità dell’impegno della Germania ad affrontare le proprie responsabilità in quel periodo della sua storia sono due facce della stessa medaglia: considera l’Olocausto un evento che i tedeschi devono sempre ricordare e di cui devono parlare, ma che non devono temere di ripetere, perché è diverso da qualsiasi altra cosa che sia mai accaduta o che mai accadrà. La storica tedesca Stefanie Schüler-Springorum, che dirige il Centro di ricerca sull’antisemitismo di Berlino, sostiene che la Germania unificata ha trasformato la resa dei conti con l’Olocausto nella sua idea nazionale, e di conseguenza “qualsiasi tentativo di far progredire la nostra comprensione dell’evento storico attraverso confronti con altri crimini tedeschi o altri genocidi, può essere, ed è, percepito come un attacco alle fondamenta stesse del nuovo stato”. Forse è questo il significato di “Mai più è adesso”.
Alcuni dei grandi pensatori ebrei sopravvissuti all’Olocausto hanno trascorso il resto della loro vita cercando di dire al mondo che quell’orrore, pur essendo stato letale come nessun altro, non doveva essere visto come un’aberrazione. Il fatto che l’Olocausto fosse successo significa che era e rimane possibile. Il sociologo e filosofo Zygmunt Bauman sosteneva che la natura imponente, sistematica ed efficiente dell’Olocausto era legata alla modernità, anche se non era affatto predeterminata, ed era in linea con altre invenzioni del novecento. Theodor Adorno studiò quello che rende le persone inclini a seguire i leader autoritari e cercò un principio morale che impedisse un’altra Auschwitz.
Nel 1948, Hannah Arendt scrisse una lettera aperta che cominciava così: “Tra i fenomeni politici più inquietanti dei nostri tempi c’è l’emergere nell’appena nato stato di Israele del Partito della libertà (Tnuat haherut), una forza politica strettamente affine per organizzazione, metodi, filosofia politica e attrattiva sociale ai partiti nazisti e fascisti”. Appena tre anni dopo l’Olocausto, la filosofa paragonava un partito israeliano al partito nazista, cosa che oggi sarebbe considerata una violazione della definizione di antisemitismo dell’Ihra. Arendt basava il suo paragone su un attacco effettuato dall’Irgun, un predecessore paramilitare del Partito della libertà, contro il villaggio arabo di Deir Yassin, che non era stato coinvolto nella guerra e non era un obiettivo militare. Gli aggressori “uccisero la maggior parte dei suoi abitanti – 240 tra uomini, donne e bambini – e tennero in vita alcuni di loro solo per farli sfilare come prigionieri per le strade di Gerusalemme”.
Il motivo della lettera di Arendt era stato una visita programmata negli Stati Uniti del leader del partito, Menachem Begin. Albert Einstein, un altro ebreo tedesco sfuggito ai nazisti, aggiunse la sua firma. Trent’anni dopo, Begin sarebbe diventato primo ministro di Israele. Un altro mezzo secolo dopo, a Berlino, la filosofa Susan Neiman, che dirige un istituto di ricerca intitolato a Einstein, ha partecipato a una conferenza intitolata “Dirottare la memoria: l’Olocausto e la nuova destra” con un intervento che potrebbe causarle dei problemi perché mette in discussione il modo in cui oggi la Germania usa la sua cultura della memoria. Neiman è cittadina israeliana e si occupa di memoria e morale. Uno dei suoi libri si intitola Learning from the germans. Race and the memory of evil (Imparare dai tedeschi. La razza e la memoria del male). Negli ultimi due anni, dice Neiman, la cultura della memoria è “andata in tilt”.
La risoluzione tedesca contro il Bds, per esempio, ha avuto un forte effetto sulla scena culturale del paese. La città di Aquisgrana si è ripresa un premio di diecimila euro assegnato all’artista libanese-statunitense Walid Raad. La città di Dortmund e la giuria del premio Nelly Sachs, del valore di 15mila euro, hanno revocato il riconoscimento che avevano dato alla scrittrice britannico-pachistana Kamila Shamsie. Il filosofo politico camerunese Achille Mbembe rischiava di non partecipare a un festival perché per il commissario federale per l’antisemitismo era un sostenitore del Bds e “relativizza l’Olocausto” (Mbembe ha detto di non essere collegato al movimento, poi il festival è stato cancellato a causa del covid-19). Nel 2019 il direttore del Museo ebraico di Berlino, Peter Schäfer, si è dimesso dopo essere stato accusato di appoggiare il Bds. L’ufficio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva anche chiesto ad Angela Merkel di tagliare i finanziamenti al museo perché la sua mostra su Gerusalemme dedicava troppo spazio ai musulmani della città (la risoluzione contro il Bds è unica per impatto, ma non nei contenuti: nella maggior parte degli Stati Uniti esistono leggi sui libri che equiparano il boicottaggio all’antisemitismo e le autorità negano i finanziamenti statali alle persone e alle istituzioni che lo sostengono).
Quando la giornata di studi “Dobbiamo parlare” è stata cancellata, Breitz e Rothberg hanno proposto un convegno intitolato “Abbiamo ancora bisogno di parlare”. L’elenco dei relatori era impeccabile. Un ente governativo li aveva controllati tutti e aveva accettato di finanziare l’iniziativa. Era prevista per l’inizio di dicembre. Poi Hamas ha attaccato Israele. “Sapevamo che da quel momento ogni politico tedesco avrebbe considerato molto rischioso essere collegato a un evento che avesse relatori palestinesi o nominasse la parola apartheid”, dice Breitz. Il 17 ottobre ha saputo che i fondi erano stati ritirati. Nel frattempo, in tutta la Germania la polizia stava reprimendo le manifestazioni che chiedevano il cessate il fuoco a Gaza o esprimevano sostegno ai palestinesi. Invece di un convegno, Breitz e molti altri hanno organizzato una protesta. L’hanno chiamata “Abbiamo ancora ancora ancora ancora bisogno di parlare”. A circa un’ora dall’inizio del raduno, la polizia si è fatta largo tra la folla per confiscare un cartello che diceva “Dal fiume al mare, chiediamo uguaglianza”. La persona che lo aveva portato era un’ebrea israeliana.
Da allora, la proposta di “assumersi la responsabilità storica” è ferma al Bundestag. Ma la battaglia contro l’antisemitismo continua. A novembre, l’organizzazione di Documenta, una delle rassegne d’arte contemporanea più importanti del mondo, è piombata nel caos quando il quotidiano Süddeutsche Zeitung ha riesumato una petizione che un membro del comitato artistico, Ranjit Hoskote, aveva firmato nel 2019 per protestare contro un evento in programma su sionismo e Hindutva, un movimento di estrema destra, e la petizione accusava il sionismo di essere “un’ideologia razzista che invoca un apartheid coloniale in cui i non ebrei non hanno pari diritti e, in pratica, si basa sulla pulizia etnica dei palestinesi”. La Süddeutsche Zeitung aveva inserito l’articolo nella sezione Antisemitismo. Hoskote si è dimesso e il resto del comitato lo ha seguito. Una settimana dopo, Breitz ha letto su un giornale che un museo del Saarland aveva cancellato una sua mostra, in programma per il 2024, “in considerazione della copertura mediatica che avrebbero avuto le sue controverse dichiarazioni sulla guerra di aggressione di Hamas contro lo stato di Israele”.
A novembre ho lasciato Berlino per andare a Kiev, attraversando in treno la Polonia e poi l’Ucraina. Questo articolo è un’occasione per dire alcune cose sul mio rapporto con la storia ebraica di queste terre. Molti ebrei statunitensi vanno in Polonia per visitare quel poco che è rimasto dei vecchi quartieri ebraici, per mangiare cibo cucinato secondo le ricette lasciate da famiglie estinte da tempo e per rivisitare la storia ebraica, i ghetti e i campi di concentramento nazisti. Sono vicina a questa storia. Sono cresciuta nell’Unione Sovietica degli anni settanta, all’ombra onnipresente dell’Olocausto, perché solo una parte della mia famiglia era sopravvissuta e perché la censura sovietica vietava di parlarne in pubblico. Quando, verso i nove anni, venni a sapere che alcuni criminali di guerra nazisti erano ancora a piede libero, smisi di dormire. Immaginavo uno di loro che si arrampicava sul nostro balcone per portarmi via.
Durante l’estate, nostra cugina Anna e i suoi figli venivano a trovarci dalla Polonia. Dopo l’incendio del ghetto di Varsavia, i suoi genitori avevano deciso di uccidersi. Il padre si era gettato sotto un treno. La madre si era legata alla vita Anna, che all’epoca aveva tre anni, e si era gettata in un fiume. Erano state tirate fuori dall’acqua da un polacco ed erano sopravvissute alla guerra nascondendosi in campagna. Conoscevo la storia, ma non mi era permesso parlarne. Anna era già adulta quando seppe di essere sopravvissuta all’Olocausto e aspettò molto per dirlo ai suoi figli, che avevano più o meno la mia età. La prima volta che andai in Polonia, negli anni novanta, fu per fare ricerche sul mio bisnonno, che aveva trascorso quasi tre anni nel ghetto di Białystok prima di essere ucciso nel campo di concentramento di Majdanek.
Sia prima sia dopo l’attacco del 7 ottobre, la frase che forse ho sentito più spesso in Ucraina è stata: “Dobbiamo essere come Israele”. Politici, giornalisti, personalità della cultura e cittadini s’identificano con la storia che Israele racconta di sé, quella di una piccola ma potente isola di democrazia che resiste ai nemici che la circondano
In Polonia, la guerra per la memoria dell’Olocausto si è svolta parallelamente a quella tedesca. Le idee che i due paesi combattono sono diverse, ma una costante è il coinvolgimento di politici di destra insieme allo stato di Israele. Come in Germania, negli anni novanta e duemila ci furono ambiziose iniziative di commemorazione, a livello nazionale e locale, che rompevano il silenzio degli anni sovietici. I polacchi costruirono musei e monumenti in memoria degli ebrei uccisi nell’Olocausto – che fece metà delle sue vittime nella Polonia occupata dai nazisti – e della cultura ebraica perduta. Poi è arrivato il contraccolpo, che ha coinciso con l’ascesa al potere nel 2015 del partito di destra illiberale Diritto e giustizia. I polacchi ora volevano una versione della storia in cui erano vittime dell’occupazione nazista insieme agli ebrei, che avevano cercato di proteggere dai nazisti.
Non era vero: i polacchi che avevano rischiato la vita per salvare gli ebrei dai tedeschi erano molto pochi mentre, al contrario, le comunità o le istituzioni dello stato prima dell’occupazione tedesca che avevano trucidato in massa gli ebrei erano molte. Ma gli storici che hanno approfondito il ruolo dei polacchi nell’Olocausto sono stati attaccati. Lo storico dell’università di Princeton Jan Tomasz Gross, nato in Polonia, è stato interrogato e minacciato di essere processato per aver scritto che i polacchi uccisero più ebrei dei tedeschi. Le autorità polacche lo hanno perseguitato anche dopo che è andato in pensione. Il governo ha rimosso dal suo incarico Dariusz Stola, il direttore del Polin, l’innovativo museo di storia degli ebrei polacchi di Varsavia. Gli storici Jan Grabowski e Barbara Engelking sono finiti in tribunale per aver scritto che il sindaco di un villaggio aveva contribuito all’Olocausto.
Quando ho scritto del caso di Grabowski ed Engelking, ho ricevuto alcune delle minacce di morte più spaventose della mia vita (mi hanno indirizzato molte minacce di morte, ma per la maggior parte erano trascurabili). Una, inviata a un’email di lavoro, diceva: “Se continui a scrivere menzogne sulla Polonia e sui polacchi, questi proiettili finiranno nel tuo corpo. Vedi allegato! Cinque per ogni rotula, così non camminerai più. Ma se andrai avanti a diffondere il tuo odio per gli ebrei, ti sparerò i cinque proiettili successivi nella fica. Del terzo passaggio non ti accorgerai. Ma non ti preoccupare, non verrò a trovarti la prossima settimana o tra otto settimane, tornerò quando avrai dimenticato questa email, forse tra cinque anni. Sei nella mia lista…”. L’allegato era l’immagine di due proiettili luccicanti nel palmo di una mano. Il Museo di stato di Auschwitz-Birkenau, diretto da un incaricato del governo, e il Congresso ebraico mondiale hanno criticato il mio articolo su Twitter. Qualche mese dopo, l’invito a parlare in un’università è stato ritirato: l’ateneo aveva detto al mio agente che potevo essere un’antisemita.
Durante le guerre polacche per la memoria dell’Olocausto, Israele ha mantenuto relazioni amichevoli con la Polonia. Nel 2018, Netanyahu e il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki hanno rilasciato una dichiarazione congiunta contro “le azioni volte a incolpare la Polonia o la nazione polacca nel suo complesso per le atrocità commesse dai nazisti e dai loro collaboratori di diversi paesi”. Il testo affermava, falsamente, che “le strutture dello stato clandestino sotto il controllo del governo polacco in esilio avevano creato un meccanismo di aiuto e sostegno sistematico al popolo ebraico”. Netanyahu stava costruendo alleanze con i governi illiberali dell’Europa centrale, come quelli di Polonia e Ungheria, anche per impedire che nell’Unione europea si consolidasse un consenso contro l’occupazione israeliana della Palestina. Per riuscirci era disposto a mentire anche sull’Olocausto.
Ogni anno, decine di migliaia di adolescenti israeliani si recano al museo di Auschwitz prima di diplomarsi (anche se nel 2022 i viaggi sono stati annullati per questioni di sicurezza e per la crescente insistenza del governo di Varsavia affinché il coinvolgimento dei polacchi nell’Olocausto fosse cancellato dalla storia). È un viaggio importante, che si fa solo un anno o due prima del servizio di leva. Noam Chayut, uno dei fondatori di Breaking the silence, un’organizzazione israeliana che si batte contro l’occupazione dei territori palestinesi, ha scritto della sua esperienza, fatta alla fine degli anni novanta: “In quel momento, in Polonia, da adolescente ho cominciato a percepire l’appartenenza, l’amore per me stesso, la forza e l’orgoglio, e il desiderio di contribuire, di vivere ed essere forte, così forte che nessuno avrebbe mai cercato di farmi del male”.
Chayut ha portato questo sentimento nell’esercito israeliano, che lo aveva inviato nella Cisgiordania occupata. Un giorno stava consegnando alcuni avvisi di confisca dei beni. Lì vicino stava giocando un gruppo di bambini. Chayut aveva fatto quello che secondo lui era un sorriso gentile e per nulla minaccioso a una bambina. Gli altri bambini erano scappati, ma lei era rimasta paralizzata dal terrore, poi era corsa via. In seguito, quando Chayut pubblicò un libro sul cambiamento che quell’incontro aveva provocato in lui, scrisse che non era sicuro del perché fosse stata quella particolare bambina a fargli quell’effetto: “Dopotutto, avevo visto anche un suo coetaneo incatenato in una Jeep e una bimba in una casa in cui avevamo fatto irruzione a tarda notte per portare via sua madre e sua zia. E molti altri, centinaia, che urlavano e piangevano mentre rovistavamo nelle loro stanze e nelle loro cose. E il bambino di Jenin a cui avevamo fatto saltare il muro di casa con una carica esplosiva che aveva fatto un buco a pochi centimetri dalla sua testa. Miracolosamente era rimasto illeso, ma sono sicuro che il suo udito e la sua mente fossero stati gravemente compromessi”. Ma negli occhi di quella bambina, quel giorno, Chayut aveva visto il riflesso di un male annientante che, come gli era stato insegnato, era esistito solo tra il 1933 e il 1945, e solo dove governavano i nazisti. Chayut intitolò il suo libro The girl who stole my Holocaust (La bambina che rubò il mio Olocausto).
Ho preso il treno dal confine polacco a Kiev. Quasi 34mila ebrei furono fucilati a Babyn Yar, un gigantesco burrone alla periferia della città, in sole 36 ore nel settembre del 1941. Altre decine di migliaia morirono lì prima della fine della guerra, in quello che oggi è noto come l’Olocausto dei proiettili. Molti stati in cui si commisero questi massacri – i paesi baltici, la Bielorussia, l’Ucraina – dopo la seconda guerra mondiale furono colonizzati dall’Unione Sovietica. I dissidenti e gli attivisti ebrei rischiarono la libertà per conservare la memoria di queste tragedie, raccogliere testimonianze e nomi e, dove era possibile, ripulire e proteggere quei luoghi. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, i progetti di commemorazione accompagnarono gli sforzi per aderire all’Unione europea. “Il riconoscimento dell’Olocausto è il nostro biglietto d’ingresso europeo contemporaneo”, scriveva lo storico Tony Judt in Dopoguerra (Mondadori 2007).
Nella foresta di Rumbula, alla periferia di Riga, dove nel 1941 furono uccisi 25mila ebrei, nel 2002, due anni prima che la Lettonia entrasse nell’Ue, fu inaugurato un memoriale. Un serio tentativo di commemorare Babyn Yar è stato fatto dopo la rivoluzione del 2014, che ha dato il via all’ambizioso cammino di Kiev verso l’Unione. Quando la Russia ha invaso l’Ucraina, nel febbraio del 2022, erano state completate diverse strutture secondarie ed erano in corso progetti per un complesso museale più grande che, con l’invasione, si sono fermati. Una settimana dopo l’inizio della guerra, un missile russo è caduto nei pressi del complesso, uccidendo almeno quattro persone. In seguito, alcune figure associate al progetto hanno formato una squadra per indagare sui crimini di guerra.
Il presidente ucraino, Volodymyr Zelenskyj, ha intrapreso una seria campagna per ottenere il sostegno israeliano. Nel marzo 2022 ha tenuto un discorso alla knesset in cui non ha sottolineato la propria origine ebraica, ma si è concentrato sull’inestricabile legame storico tra ebrei e ucraini. Ha tracciato parallelismi inequivocabili tra il regime di Putin e il partito nazista. Ha anche affermato che ottant’anni fa gli ucraini salvarono gli ebrei (come nel caso della Polonia, qualsiasi affermazione sulla diffusione di questo tipo di aiuti è falsa). Ma ciò che ha funzionato per il governo di destra della Polonia non ha funzionato per il presidente filoeuropeo dell’Ucraina. Israele non ha dato a Kiev l’aiuto che chiedeva nella sua guerra contro la Russia, un paese che sostiene apertamente Hamas e Hezbollah.
Eppure, sia prima sia dopo l’attacco del 7 ottobre, la frase che forse ho sentito più spesso in Ucraina è stata: “Dobbiamo essere come Israele”. Politici, giornalisti, personalità della cultura e cittadini s’identificano con la storia che Israele racconta di sé, quella di una piccola ma potente isola di democrazia che resiste ai nemici che la circondano. Alcuni ucraini di sinistra hanno affermato che il loro paese, che sta combattendo una guerra anticoloniale contro una potenza occupante, dovrebbe identificarsi con la Palestina, non con Israele. Ma sono voci marginali, il più delle volte di giovani ucraini che studiano o hanno studiato all’estero. Dopo l’attacco di Hamas, Zelenskyj avrebbe voluto correre in Israele per dimostrare il suo sostegno e l’unità tra Israele e Ucraina. Ma sembra che le autorità israeliane avessero altre idee: la visita non c’è mai stata.
Mentre l’Ucraina ha cercato senza successo di convincere Israele a riconoscere che l’invasione russa somiglia all’aggressione genocida della Germania, Mosca ha costruito un universo propagandistico in cui il governo di Zelenskyj, l’esercito ucraino e il popolo ucraino sono rappresentati come nazisti. La seconda guerra mondiale è l’evento centrale del mito storico della Russia. Durante il regno di Vladimir Putin, mentre gli ultimi testimoni della guerra morivano uno dopo l’altro, gli eventi commemorativi si sono trasformati in carnevalate che celebrano il vittimismo. In quella guerra l’Unione Sovietica perse almeno 27 milioni di persone, con un numero sproporzionato di ucraini. L’Unione Sovietica e la Russia combattono conflitti quasi ininterrottamente dal 1945, ma la parola “guerra” è ancora sinonimo di seconda guerra mondiale e la parola “nemico” è usata in modo intercambiabile per “fascista” e “nazista”. Questo ha reso molto più facile per Putin, nel dichiarare una nuova guerra, bollare gli ucraini come nazisti.
Netanyahu ha paragonato la strage di Hamas al rave a un Olocausto con i proiettili. Questo paragone, ripreso dai leader mondiali, anche dal presidente statunitense Joe Biden, serve a giustificare il diritto di Israele a infliggere punizioni collettive agli abitanti della Striscia di Gaza. Allo stesso modo, quando Putin definisce il governo ucraino “nazista” o “fascista” intende dire che è così pericoloso che la Russia è giustificata a bombardare a tappeto e assediare le città ucraine, e a uccidere i civili. Tra i due casi, ovviamente, ci sono differenze significative: le affermazioni russe secondo cui l’Ucraina avrebbe attaccato per prima e il governo ucraino sarebbe fascista sono false, mentre Hamas è una potenza tirannica che ha attaccato Israele e ha commesso atrocità che non possiamo ancora capire completamente. Ma queste differenze hanno importanza quando si uccidono dei bambini?
Nelle prime settimane dell’invasione russa dell’Ucraina, quando le truppe hanno occupato la periferia occidentale di Kiev, il direttore del Museo della seconda guerra mondiale di Kiev, Yurii Savchuk, viveva nell’edificio e pensava a come modificare la mostra principale. Il giorno dopo che l’esercito ucraino aveva cacciato i russi dalla regione di Kiev, ha incontrato il comandante in capo delle forze armate ucraine Valerii Zaluzhnyi e ha ottenuto il permesso di cominciare a raccogliere testimonianze. Savchuk e il suo staff sono andati a Bucha, Irpin e in altre città che erano appena state “liberate dall’occupazione”, come dicevano gli ucraini, e hanno intervistato le persone che non avevano ancora raccontato le loro storie. “Abbiamo visto il vero volto della guerra, con tutte le sue emozioni”, mi ha confidato Savchuk. “La paura, il terrore erano nell’aria e noi li abbiamo respirati”.
Nel maggio 2022, il museo ha aperto una nuova mostra, intitolata Ucraina – Crocifissione. Comincia con un’esposizione di stivali di soldati russi, che la squadra di Savchuk aveva raccolto. È una strana inversione: sia il Museo di Auschwitz sia il Museo dell’Olocausto di Washington, negli Stati Uniti, espongono centinaia o migliaia di scarpe delle vittime dell’Olocausto, che trasmettono la gravità della tragedia, anche se ne fanno vedere solo una piccola parte. La mostra di Kiev evidenzia la gravità del pericolo. Gli stivali sono disposti sul pavimento a formare una stella a cinque punte, il simbolo dell’Armata Rossa, che in Ucraina ha assunto connotazioni sinistre quanto la svastica. A settembre, Kiev ha rimosso le stelle a cinque punte da un monumento dedicato alla seconda guerra mondiale, in quella che si chiamava piazza della Vittoria e che ora ha cambiato nome perché “vittoria” ricorda la celebrazione russa di quella che ancora oggi è consideratala grande guerra patriottica. La città ha anche cambiato le date sul monumento, da 1941-1945 – gli anni della guerra tra l’Unione Sovietica e la Germania – a 1939-1945. Bisogna correggere la memoria, un monumento alla volta.
Nel 1954 un tribunale israeliano discusse un caso di diffamazione che coinvolgeva un ebreo ungherese di nome Israel Kastner. Dieci anni prima, quando la Germania aveva occupato l’Ungheria e si era affrettata a sterminare in massa i suoi ebrei, Kastner, come leader della comunità ebraica, aveva avviato delle trattative con Adolf Eichmann, proponendogli di comprare la vita degli ebrei ungheresi con diecimila camion. Quando quel tentativo era fallito, aveva ottenuto di salvare 1.685 persone portandole via con un treno noleggiato in Svizzera. Altre centinaia di migliaia furono invece caricate sui treni per i campi di sterminio. Un ebreo ungherese sopravvissuto accusò pubblicamente Kastner di aver collaborato con i tedeschi. Kastner gli fece causa per diffamazione ma, di fatto, si ritrovò sotto processo. Il giudice concluse che Kastner aveva “venduto la sua anima al diavolo”.
L’accusa contro Kastner si basava sul fatto che non aveva detto agli altri che stavano andando incontro alla morte. I suoi accusatori sostenevano che, se li avesse avvertiti, i deportati si sarebbero ribellati e non sarebbero andati nei campi come pecore al macello. Quel processo è stato visto come l’inizio di uno scontro in cui la destra israeliana sostiene la violenza preventiva e vede la sinistra come volutamente inerme. All’epoca del processo, Kastner era un politico di sinistra, mentre il suo accusatore era un attivista di destra.
In Polonia, la guerra per la memoria dell’Olocausto si è svolta parallelamente a quella tedesca. Le idee che i due paesi combattono sono diverse, ma una costante è il coinvolgimento di politici di destra insieme allo stato di Israele
Sette anni dopo, il giudice che aveva presieduto al processo per diffamazione di Kastner era uno dei tre giudici del processo ad Adolf Eichmann. Lì c’era il diavolo in persona. L’accusa sostenne che Eichmann era solo un esempio dell’eterna minaccia per gli ebrei. Il caso contribuì a consolidare la narrazione secondo cui, per prevenire l’annientamento, gli ebrei dovevano essere pronti a usare la forza in modo preventivo. In riferimento a quel processo, Hannah Arendt dichiarò che non accettava quella teoria. La sua frase “la banalità del male” forse suscitò le prime accuse a una persona ebrea di banalizzare l’Olocausto. Ma non era così. Arendt aveva capito che Eichmann non era un diavolo, e che forse il diavolo non esisteva. Aveva ragionato sul fatto che non esisteva una cosa come il male assoluto, che il male era sempre ordinario anche quando era estremo, qualcosa di “viscerale” e, come avrebbe detto in seguito, “il più basso degli istinti”.
Arendt contestava anche l’affermazione, fatta dall’accusa, che gli ebrei erano vittime: per dirla con le sue parole, era “un principio storico che si estende dal faraone ad Aman, vittima di un principio metafisico”. Quell’affermazione, che affonda le sue radici nella leggenda biblica degli Amalek, un popolo del deserto del Negev che più volte combatté gli antichi israeliti, si fonda sull’idea che ogni generazione di ebrei affronta i propri Amalek. L’ho sentita da adolescente; fu la prima lezione sulla Torah a cui partecipai, tenuta da un rabbino che riuniva i bambini di un sobborgo di Roma dove vivevano rifugiati ebrei provenienti dall’Unione Sovietica in attesa dei documenti per entrare negli Stati Uniti, in Canada o in Australia. Secondo questa teoria, come raccontata dal pubblico ministero nel processo Eichmann, l’Olocausto è un evento predeterminato, parte della storia ebraica, e solo di quella. Gli ebrei hanno sempre il timore giustificato dell’annientamento. In effetti, possono sopravvivere solo se agiscono come se l’annientamento fosse imminente.
Quando sentii per la prima volta la leggenda di Amalek, mi sembrò sensata. Descriveva la mia conoscenza del mondo, mi aiutava a collegare la mia esperienza di essere presa in giro e picchiata agli ammonimenti della mia bisnonna, secondo la quale usare le espressioni yiddish in pubblico era pericoloso, e alla profonda ingiustizia subita da mio nonno, dal mio bisnonno e da decine di altri parenti uccisi prima che io nascessi. Avevo quattordici anni e mi sentivo sola. Sapevo che io e la mia famiglia eravamo vittime, e la leggenda di Amalek aggiungeva al mio vittimismo un significato e un senso di comunità.
Dopo l’attacco di Hamas, Netanyahu ha brandito come un’arma la leggenda di Amalek. Il suo significato, come lo usa lui – che gli ebrei occupano una posizione unica nella storia e hanno il diritto esclusivo a considerarsi vittime – ha rafforzato la burocrazia dell’antisemitismo tedesca e l’empia alleanza tra Israele e l’estrema destra europea. Ma nessuna nazione è sempre vittima o carnefice. Se la pretesa d’impunità di Israele è dovuta in buona parte allo status di vittime perpetue degli ebrei, molti di quelli che criticano Israele cercano di spiegare l’attacco di Hamas come un atto di terrorismo prevedibile in risposta all’oppressione dei palestinesi, mentre agli occhi dei sostenitori di Israele, gli abitanti di Gaza non possono essere vittime perché Hamas ha attaccato Israele per primo. Questa lotta per rivendicare lo status di vittime può andare avanti all’infinito.
Da diciassette anni la Striscia di Gaza è un luogo sovrappopolato, impoverito, fortificato, da cui solo una piccola parte della popolazione ha il diritto di andarsene anche solo per un breve periodo di tempo. In altre parole, è un ghetto. Non come il ghetto ebraico di Venezia o di alcune città degli Stati Uniti, ma come il ghetto ebraico in un paese dell’Europa orientale occupato dalla Germania nazista. Nei primi due mesi dall’attacco di Hamas a Israele, tutti gli abitanti di Gaza hanno subìto l’assalto quasi ininterrotto delle forze israeliane. Migliaia di persone sono morte. In media, nella Striscia di Gaza è stato ucciso un bambino ogni dieci minuti. Le bombe israeliane hanno colpito ospedali, reparti di maternità e ambulanze. Otto abitanti su dieci sono ormai senza casa, si spostano da un luogo all’altro senza riuscire a mettersi in salvo.
L’espressione “prigione a cielo aperto” sembra essere stata coniata nel 2010 da David Cameron, all’epoca primo ministro britannico. Molte organizzazioni per i diritti umani che documentano le condizioni di vita nella Striscia di Gaza l’hanno adottata. Ma, come nei ghetti ebraici dell’Europa occupata, non ci sono guardie carcerarie: Gaza non è sorvegliata dagli occupanti ma da una forza locale. Presumibilmente la parola ghetto potrebbe essere criticata perché paragona la difficile situazione degli abitanti di Gaza assediati a quella degli ebrei ghettizzati. Ma ci darebbe un termine per descrivere ciò che sta accadendo a Gaza adesso. Il ghetto è in fase di demolizione.
I nazisti sostenevano che i ghetti erano necessari per proteggere gli ariani dalle malattie diffuse dagli ebrei. Israele ha affermato che l’isolamento di Gaza, come il muro della Cisgiordania, è necessario per proteggere gli israeliani dagli attacchi terroristici dei palestinesi. La motivazione nazista non aveva alcun fondamento nella realtà, mentre quella israeliana si basa su atti di violenza reali e ripetuti. Sono differenze essenziali. Eppure entrambe le affermazioni presuppongono che un’autorità occupante possa scegliere di isolare, immiserire e, adesso, mettere in pericolo un’intera popolazione per proteggere la propria.
Fin dai primi giorni della fondazione d’Israele, il paragone tra gli sfollati palestinesi e quelli ebrei è stato fatto, ma poi lo si è messo da parte. Nel 1948, l’anno in cui fu creato lo stato, un articolo del giornale israeliano Maariv descriveva le terribili condizioni – “Persone anziane così deboli da essere sul punto di morire; un ragazzo con due gambe paralizzate; un altro a cui sono state tagliate le mani” – in cui i palestinesi, per lo più donne e bambini, avevano lasciato il villaggio di Tantura dopo che le truppe israeliane lo avevano occupato: “Una donna teneva un bambino in braccio e con l’altro braccio sorreggeva l’anziana madre. Quest’ultima non riusciva a stare al passo, urlava e pregava la figlia di rallentare, ma lei non si fermava. Alla fine l’anziana è crollata a terra e non è riuscita più a muoversi. La figlia si strappava i capelli… per paura di non fare in tempo. E la cosa peggiore era l’associazione con le madri e le nonne ebree che si attardavano sulle strade sotto la minaccia degli assassini”. A quel punto il giornalista si bloccò. “Ovviamente non c’è spazio per un simile paragone”, ha scritto. “Questo destino se lo sono procurati da soli”.
Nel 1948, gli ebrei presero le armi per rivendicare la terra che gli era stata offerta dalla decisione delle Nazioni Unite di dividere in due quella che era stata la Palestina controllata dagli inglesi. I palestinesi, appoggiati dagli stati arabi circostanti, non accettarono la spartizione e la dichiarazione di indipendenza di Israele. L’Egitto, la Siria, l’Iraq, il Libano e la Transgiordania invasero il protostato israeliano, dando inizio a quella che Israele ora chiama la guerra d’indipendenza. Centinaia di migliaia di palestinesi fuggirono. Gli altri furono cacciati dai loro villaggi dalle forze israeliane. La maggior parte di loro non è mai potuta tornare. I palestinesi ricordano il 1948 come la Nakba, una parola che significa catastrofe in arabo, così come Shoah significa catastrofe in ebraico. Il fatto che il paragone sia inevitabile ha costretto gli israeliani ad affermare che, a differenza degli ebrei, i palestinesi si sono procurati la catastrofe da soli.
Il giorno in cui sono arrivata a Kiev, qualcuno mi ha dato un grosso libro. Era il primo studio accademico su Stepan Bandera pubblicato in Ucraina. Bandera è un eroe ucraino che combatté contro il regime sovietico. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica gli sono state dedicate decine di monumenti. Alla fine della seconda guerra mondiale si ritrovò in Germania, guidò un movimento partigiano dall’esilio e nel 1959 morì avvelenato da un agente del Kgb. Bandera era un fascista convinto, un ideologo che voleva istituire un regime totalitario. Questi fatti sono raccontati in dettaglio nel libro, che ha venduto circa 1.200 copie (molte librerie si sono rifiutate di venderlo). La Russia è felice di sfruttare il culto ucraino di Bandera come prova che l’Ucraina è uno stato nazista. Gli ucraini per lo più reagiscono negando la sua importanza. È sempre così difficile accettare l’idea che qualcuno può essere stato il nemico del tuo nemico e tuttavia non una figura benevola. Una vittima ma anche un carnefice. O viceversa. ◆ bt
Masha Gessen è una scrittrice e giornalista russo-statunitense, di identità non binaria. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è L’uomo senza volto. L’improbabile ascesa di Vladimir Putin (Sellerio 2022). Questo articolo è uscito sul New Yorker con il titolo In the shadow of the Holocaust.
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Questo articolo è uscito sul numero 1546 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati