“Dobbiamo lasciare qualcosa ai nostri figli, qualcosa che noi stesse abbiamo ereditato. Che siano fiumi, montagne, laghi. Dobbiamo salvarli e preservarli”, dice Amela Zukan, una delle “donne coraggiose di Kruščica”, un villaggio vicino a Vitez, nella Bosnia centrale. Lasciare in eredità almeno il patrimonio naturale, quando non c’è altro da tramandare: è per questo che per 505 giorni e 505 notti le donne e gli uomini di Kruščica hanno fatto i turni di guardia per difendere il fiume omonimo e impedire la costruzione di due microcentrali idroelettriche. Hanno presidiato il ponte per non fare arrivare i macchinari e bloccare la costruzione delle centrali.
Zukan ricorda un episodio particolarmente doloroso, quando il turno notturno è stato affidato alle donne perché si pensava che con loro gli agenti sarebbero stati più clementi. Alle tre del mattino sul ponte erano circa cinquanta. Verso le cinque è arrivata una squadra speciale della polizia. “Ci hanno ordinato di sgomberare, altrimenti ci avrebbero allontanate con la forza. Dopo neanche cinque minuti dall’avvertimento hanno cominciato a picchiarci. È stato terribile”, racconta Zukan. I traumi di quella notte sono ancora vivi nei ricordi delle donne. Alcune si sono ammalate o portano le ferite di quelle violenze come un simbolo. Ma hanno sempre lottato, senza esitare. “Ci siamo battute per un nostro diritto fondamentale, il diritto all’acqua, il diritto alla vita”, dice Zukan.
Perché da queste parti le risorse naturali sono l’ultima ricchezza rimasta. Ce lo confermano quattro attiviste per l’ambiente che vengono da altrettanti paesi dei Balcani occidentali: Serbia, Croazia, Bosnia Erzegovina e Slovenia. Quest’angolo di mondo è estremamente vulnerabile ai cambiamenti climatici. Se le previsioni più pessimistiche si avverassero, e potrebbe succedere prima di quanto ci aspettiamo, avremmo presto a che fare con periodi di siccità estrema, scarsità d’acqua, inondazioni più frequenti.
Del resto gli esempi recentissimi non mancano. A soffrire sono soprattutto le persone vulnerabili, cioè i poveri, i malati e gli abitanti dei paesi in via di sviluppo. Lo dice il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc). Queste categorie saranno le più colpite e avranno bisogno di strategie di adattamento più efficaci. Inoltre, il cambiamento climatico ha un impatto più forte sulle donne, se non altro perché nelle fasce più povere della popolazione ci sono più donne che uomini. Ma la questione potrebbe anche essere osservata da una prospettiva più originale, cioè concentrandosi non sulla vulnerabilità ma sulla combattività e la capacità di resistenza delle persone coinvolte. A Kruščica, per esempio, quando la comunità (circa duemila abitanti) ha saputo dei progetti per la costruzione delle centrali idroelettriche tutti si sono mobilitati spontaneamente. “Appena sono cominciati ad arrivare i macchinari, la gente si è riunita per respingerli. Abbiamo fatto i turni e li abbiamo bloccati. Non dimenticate che eravamo all’aperto. Le donne vigilavano di giorno, gli uomini di notte”, racconta Zukan.
Nei momenti più critici l’unità è stata totale. Le donne, in particolare, si scambiavano messaggi sull’app Viber per attivarsi e organizzare i turni di guardia. “Era importante che ci fosse sempre qualcuno a vigilare. È stato semplice, bastava un messaggio e nel giro di pochi secondi erano già tutte al corrente di tutto. Non sono mancate le minacce e i problemi. Ci sono state fasi difficili, ma anche momenti che hanno cementato la nostra coesione”, aggiunge Zukan.
La mobilitazione ha rafforzato la comunità e ha portato a risultati concreti, tanto che oggi il sistema nato con le proteste contro le dighe si usa anche in altre battaglie.
L’ultima risorsa
Ma torniamo alle radici della contestazione. Da dove vengono questa determinazione e questa forza, cinquecentocinque giorni e cinquecentocinque notti? Zukan dice che la comunità era già stata depredata di tutto. E quando non è rimasto più niente da prendere, gli usurpatori hanno cominciato a mettere le mani sulle risorse naturali. “Abbiamo risvegliato la coscienza di molte persone. Hanno visto che siamo riusciti a salvare il fiume, e così anche loro hanno provato ad applicare il nostro sistema. Oggi stiamo combattendo non solo per il fiume Kruščica, ma per tutti i fiumi della Bosnia Erzegovina e per tutta la regione”, afferma Zukan.
Lo stesso punto è sottolineato dall’attivista Bojana Minović, che vive nella città serba di Kraljevo, lavora per il progetto “Salviamo i torrenti montani di Kraljevo” (Sačuvajmo planinske reke Kraljeva in serbo) e si batte per la tutela dei corsi d’acqua della zona. “Siamo stati ingannati, derubati, divisi. È stato terribile. Non bastava quello che avevamo sofferto per la guerra degli anni novanta, la transizione, la chiusura delle fabbriche e di altri presidi sociali ed economici. A un certo punto hanno deciso anche di portarsi via le nostre risorse naturali”, dice Minović.
L’attivista sottolinea che il capitalismo sta permeando ormai tutti gli aspetti della vita quotidiana e punta il dito contro l’attuale culto della modernità e del nuovo a ogni costo. I vecchi torrenti montani non interessano più alla gente del posto. Nessuno va più a nuotare nell’Ibar, uno dei tre fiumi di Kraljevo, “vanno tutti in piscina, perché a quanto pare è più bello e più comodo. Tutto dev’essere pulito, attraente, bello, divertente. Deve essere comodo e facile. A che serve un vecchio fiume?”, ironizza Minović. Nel suo lavoro, Minović si è occupata anche delle conseguenze sociali dei problemi ambientali. Sottolinea che ci sono due aspetti importanti e collegati: la svalutazione delle risorse naturali e l’impoverimento delle persone. “Da queste parti si dice che la terra vicino ai torrenti è troppo leggera, inutilizzabile. Così queste aree perdono importanza e perdono valore. E diventa più facile svenderle, anche perché i proprietari accettano più facilmente di privarsene”, spiega Minović.
Inoltre, spesso per la gente del posto vendere una porzione di bosco o altre risorse naturali è l’unico modo per guadagnare qualcosa. “Si tagliano i boschi per far studiare i figli e consentirgli di andarsene in città, per comprare da mangiare, per sopravvivere, insomma”, conclude Minović.
Tutto questo alimenta la distruzione dell’ambiente. “Gli abitanti del posto subiscono le conseguenze dell’erosione del terreno, ma non le associano alla deforestazione”, spiega l’attivista. “Solo quando la devastazione causata dagli investitori venuti da fuori è evidente e mette a rischio la sicurezza di tutti, cioè quando le strade si allagano perché l’acqua della diga esonda o scompaiono le trote dal fiume, ci si rende conto di cosa comporta la costruzione delle microdighe sui torrenti. Eppure qui molti continuano a dire che hanno bisogno di legna per scaldarsi, che per vivere devono vendere i loro lotti di bosco”. Minović cita la sparizione di alcune specie animali e la trasformazione del clima, con gli inverni sempre più miti; le precipitazioni che diminuiscono; il graduale aumento delle temperature estive. “Conosco l’inverno e le altre stagioni. E vedo che non esistono più”, dice l’attivista.
Centimetro dopo centimetro
Che il cambiamento climatico stia incidendo su diversi aspetti della nostra vita e che non sia più possibile ignorarlo è sottolineato anche da Irena Burba, un’attivista per l’ambiente che da sedici anni lavora nell’associazione Zelena Istria (Istria Verde) ed è impegnata in numerose battaglie, a partire da quella per la tutela del lungomare della cittadina di Plomin (Fianona in italiano).
“La Croazia è prima di tutto un paese mediterraneo. E ciò che notiamo con il nostro lavoro sono il consumo di suolo e gli attacchi al bene pubblico”, afferma Burba. Poi aggiunge: “Questo sfruttamento si manifesta attraverso la speculazione edilizia nelle zone costiere e con la riduzione degli spazi liberi ancora disponibili, centimetro dopo centimetro. È impossibile sfuggire agli effetti del cambiamento climatico. Impossibile ignorare i periodi di siccità, le temperature in crescita e gli eventi meteorologici estremi. L’area mediterranea risente particolarmente di questi problemi”.
Irena Woelle è una designer e attivista slovena, che nel suo lavoro mescola ambiente, società e cultura. Si occupa di temi come il verde urbano, la lotta contro il fracking (la frantumazione idraulica per estrarre il gas e il petrolio dalle rocce), l’uso del glifosato e il turismo venatorio. Nel suo progetto Nisam luda da idem tam (Non sono mica matta da andarci), Woelle si è occupata dell’interazione tra capitalismo e patriarcato, due forze che, secondo lei, agiscono con meccanismi e dinamiche simili. Il punto focale di questo lavoro era la baia di Lapad nelle rappresentazioni dell’artista Flora Jakšić (1856-1943), che visse a Dubrovnik (Ragusa in italiano) e all’età di 17 anni fu costretta a sposarsi contro la sua volontà e a passare dieci anni con un marito violento. La sua casa nella baia di Lapad era il fulcro della vita artistica di Dubrovnik. Nel suo testamento la pittrice stabilì che la sua villa fosse lasciata agli artisti locali per ritrovarsi e organizzare mostre.
Negli ultimi anni, invece, la zona è stata cementificata e sommersa dal kitsch. È da questa triste realtà che nasce il titolo dell’opera di Woelle, per l’esattezza dalla risposta, sentita per strada, di una giovane madre al compagno che le suggeriva di fare un bagno con il figlio nella baia ormai devastata. Con questo progetto Woelle ha voluto evidenziare i problemi creati dal modello patriarcale associato al capitalismo: la distruzione della natura, la crisi climatica e le discriminazioni contro le donne. Woelle ha anche curato il progetto Zeleni val (Onda verde), pensato per rendere il centro di Rjeka (Fiume) più piacevole per gli abitanti e trasformare la piazza Matija Flacius in “piazza del tè”, nell’ambito delle iniziative organizzate quando la città è stata la capitale europea della cultura, nel 2020. L’attivista ha voluto contribuire alla riscoperta delle conoscenze dimenticate sulle proprietà medicinali e curative delle piante locali. Arricchendo le aree pubbliche e le piazze di verde e “occupando” i luoghi cittadini, ha voluto dire che l’essenziale è sempre “lo spazio pubblico, la sua tutela e il suo uso da parte dei cittadini. Sia in Slovenia sia in Croazia, invece, lo spazio pubblico è usurpato e devastato. Non possiamo nemmeno più camminare per le nostre città perché è tutto privatizzato, invaso da caffè o ristoranti per turisti”, afferma Woelle.
Anche Burba denuncia gli effetti devastanti dell’eccessiva dipendenza della Croazia dal turismo: “Il demanio marittimo e la costa sono occupati illegalmente da alberghi e campeggi. Per i cittadini c’è sempre meno spazio. In compenso c’è una miriade di centri commerciali”.
“La nostra qualità della vita è drasticamente peggiorata a causa del turismo. In estate c’è troppa gente ovunque e non è facile accedere ad alcuni servizi di base, come il pronto soccorso. Abbiamo anche enormi problemi con i rifiuti, perché la quantità generata non può semplicemente essere smaltita in modo corretto”, aggiunge Burba, convinta che i cittadini siano più propensi a partecipare alle lotte che li riguardano direttamente.
A volte, però, dietro alle mobilitazioni ci sono anche altri motivi. “Le persone reagiscono quando c’è un problema nel loro cortile, certo. Ma, per esempio, nel caso del lungomare di Plomin molti si sono mossi perché avevano un legame emotivo con il luogo, volevano evitare la sua deriva commerciale e difendere le ultime porzioni di spazio pubblico rimaste”, afferma Burba.
Qualcosa di simile è successo a Kruščica. Gli abitanti hanno lottato tutti insieme – e Zukan lo sottolinea costantemente – per difendere il fiume. “Cinquecentocinque giorni, con il sole o con la neve. Come un lavoro. Quando è il tuo turno devi andare. Se non fosse per la gente del posto, il fiume sarebbe distrutto. Invece è ancora un posto bellissimo. E merita tutte le nostre attenzioni”, conclude Amela Zukan. ◆ ab
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Questo articolo è uscito sul numero 1538 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati