Nel 1990 Kyoichi Tsuzuki, all’epoca giovane fotografo giapponese, cominciò a immortalare un lato poco conosciuto della vita domestica di una delle città più densamente popolate al mondo. In tre anni visitò centinaia di appartamenti a Tokyo, fotografando gli spazi di vita di amici, conoscenti ed estranei. Quelle immagini, poi pubblicate in Tokyo style (1993) erano sorprendentemente lontane dal minimalismo rarefatto che il mondo aveva imparato ad aspettarsi dal Giappone. Le foto di Tsuzuki erano una gioiosa affermazione dell’opposto: una celebrazione della vitalità di spazi abitativi pieni di oggetti superflui.
Alla fine del novecento il Giappone era famoso per le arti zen, le città pulite e ordinate, la cucina e le mode raffinate. Le immagini strapparono il velo rivelando una realtà più complessa. Tokyo era lo scenario ideale per questa esfoliazione. La capitale giapponese è ancora oggi una città visivamente travolgente, perfino caotica. All’esterno, enormi pubblicità animate sgomitano per catturare l’attenzione sullo sfondo di un mosaico di metallo, vetro, cemento e plastica. Nei tentacolari distretti residenziali che s’irradiano dal centro, case compatte si schierano una addosso all’altra come transistor su un chip, mentre confuse geometrie di cavi elettrici oscurano il cielo come una tela di ragno.
Il Giappone non è un modello di raffinata semplicità. Ma se il disordine è una parte così importante della sua vita quotidiana, perché non se ne parla quasi mai?
Nelle periferie di tutto il Giappone, le case piene di chincaglierie accumulate nel tempo sono diventate abbastanza comuni da meritarsi l’appellativo ironico di gomi-yashiki (case-spazzatura). E nelle zone dove gli spazi sono limitati, spesso le abitazioni e i negozi si riempiono fino a scoppiare, scaricando in strada un ammasso di oggetti talmente invadenti che gli urbanisti gli hanno dato un nome: afure-dashi (fuoriuscite). È una complessità esuberante che non nasce dalla pianificazione ma da una crescita organica, dal caos inevitabile delle vite vissute.
Nell’introduzione all’edizione inglese di Tokyo style, del 1999, Tsuzuki liquida l’ossessione occidentale per il minimalismo giapponese come “una specie di sogno nippofilo. Il nostro stile di vita è molto più banale. Viviamo in piccoli appartamenti accoglienti dalla struttura di legno o in spazi di pochi metri quadrati stipati di oggetti”. Anche se sono passati più di trent’anni da quando Tsuzuki ha provato a svegliare il sognante nippofilo, il mondo esterno adora ancora il Giappone per la sua semplicità, il suo minimalismo e la sua presunta moderazione. Lo si può vedere dal successo planetario della curatissima cucina giapponese, dal cemento volutamente spoglio di architetti modernisti come Tadao Andō, e anche da marchi come Muji, che in giapponese vuol dire appunto “senza marchio”.
Milioni di persone in tutto il mondo continuano a rivolgersi ai guru giapponesi per purgare le loro diete, i loro armadi e i loro spazi abitativi di tutto ciò che va oltre lo stretto indispensabile. Libri come Il magico potere del riordino: il metodo giapponese che trasforma i vostri spazi e la vostra vita (Vallardi 2011) di Marie Kondo e Fai spazio nella tua vita: come trovare la felicità con l’arte dell’essenziale (Bur 2017) di Fumio Sasaki descrivono gli oggetti superflui come una terribile minaccia alla salute mentale e alla crescita spirituale. Entrambi hanno avuto un successo enorme negli Stati Uniti e in altri paesi. Ma anche se il mondo intero si rivolge al Giappone per chiedergli come si fanno le pulizie, è importante ricordare che questi libri sono stati pensati per il pubblico giapponese, non quello straniero. Se questo paese fosse davvero un paradiso minimalista, perché avrebbe bisogno di Kondo e Sasaki?
In realtà il Giappone non è affatto un modello di raffinata semplicità, il disordine è una parte importante della sua vita quotidiana. Perché allora non se ne parla quasi mai? Per molti versi, la storia dell’infatuazione del mondo per tutto ciò che è giapponese non c’entra nulla con il paese. È la storia dei nostri mutevoli desideri, delle nostre ansie sociali, del nostro impulso a consumare e ad accumulare, e della constatazione che possedere più cose non vuol dire necessariamente essere più felici. Ed è la storia del sogno di aver trovato delle soluzioni ai nostri problemi.
Ma il caos del Giappone racconta una relazione molto più complessa e ricca di sfumature con le cose e gli oggetti, in cui il minimalismo e il disordine sono due facce della stessa medaglia. In Giappone troviamo la stessa meticolosità negli spazi minimalisti e in quelli stipati. Questi luoghi pienissimi, non meno incantevoli di quelli svuotati, ci spingono a mettere in discussione i nostri preconcetti e la nostra visione del mondo. E se ci fossimo sempre sbagliati sul disordine?
L’ossessione per la cultura materiale del Giappone è cominciata subito dopo l’apertura dei suoi porti, nel 1853. Visitare il paese era molto complicato, ma grazie all’apertura e ai fiorenti commerci del Pacifico le merci giapponesi cominciarono ad arrivare nelle case di tutto il mondo, trasportate per nave. Gli europei e i nordamericani notarono subito che avevano qualcosa di diverso. C’erano “strani capricci nella loro ornamentazione che, pur violando i nostri princìpi riconosciuti nell’arredamento, ci sorprendevano o ci deliziavano”, scriveva nel 1885 l’archeologo statunitense Edward S. Morse in La casa giapponese.
L’esportazione di ceramiche finemente decorate, tessuti, oggetti d’arte in metallo, mobili, gioielli e stampe diede il via a un movimento europeo che i francesi chiamarono japonisme. Dall’altra parte dell’Atlantico, la mania contagiò gli arbitri del gusto nordamericani. La fissazione vittoriana per tutto ciò che era giapponese influenzò gli ideali occidentali di civiltà e raffinatezza, deviando il corso dell’arte e dell’architettura, della cultura e della società. Gli effetti a catena di questo cambiamento radicale nel gusto si avvertono ancora oggi. La popolarità degli impressionisti, l’architettura di Frank Lloyd Wright, i bungalow del movimento Arts and crafts, perfino stilisti come Hermès e Louis Vuitton: tutti sono saliti alla ribalta grazie alle loro interpretazioni degli stili giapponesi. Charles Tiffany, fondatore della Tiffany & Co, ha arricchito i suoi servizi da tavolo, i suoi gioielli e i suoi complementi d’arredo in stile occidentale ispirandosi a Hokusai e ad altri artisti, arrivando a definire la sensibilità della sua azienda “più giapponese dei giapponesi”.
Se questa parte della storia è nota, spesso si trascura il fatto che l’occidente era altrettanto affascinato dall’austerità delle abitazioni giapponesi. Per chi abitava a Tokyo non c’era niente d’insolito. A che servono le sedie quando ci si può sedere sul pavimento? Perché lasciare aperti i futon quando si possono piegare e richiudere tutte le mattine? Perché una stanza inutilizzata non dovrebbe essere vuota? Eppure, in quel vuoto, i visitatori occidentali proiettavano le insicurezze nei confronti della loro società. Rutherford Alcock, primo ambasciatore britannico in Giappone, leggeva nell’“assenza universale di lusso” una specie di trascendenza, una liberazione dalla corsa materialista al successo del consumismo occidentale.
Pochi osservatori stranieri, all’epoca, avevano gli strumenti culturali per analizzare lo stile dell’arredamento delle case nipponiche. Uno di questi era Morse, secondo cui l’assenza di oggetti era dovuta più all’economia che all’estetica. Lo infastidiva il fatto che altri critici non tenessero conto “che la nazione è povera, e che le masse vivono in povertà”.
Di volta in volta reverenziali e paternalistiche, le idee sulla sensibilità illuminata del design giapponese travolsero la società occidentale. Nel 1882, la ricchissima famiglia Vanderbilt allestì un pretenzioso salotto giapponese nel loro palazzo sulla Quinta strada a New York. Questa estetica anglo-giapponesizzata si diffuse rapidamente dall’aristocrazia al resto della società. All’esposizione universale di St. Louis del 1904 le riproduzioni degli spazi abitativi giapponesi mandarono in estasi i visitatori, uno dei quali esclamò che “nessuna casalinga dovrebbe omettere di vederli. Semplicità e gusto perfetto li contraddistinguono in ogni dettaglio. Niente stanze piene di mobili rozzi e inutili!”.
L’adesione del Giappone al fascismo e la sua entrata in guerra spensero l’infatuazione, che riprese dopo la fine della seconda guerra mondiale. E la storia si ripeté. Il Giappone era di nuovo povero. Negli anni cinquanta, i beat americani riscoprirono il minimalismo, interpretando gli insegnamenti del buddismo zen di D.T. Suzuki come un antidoto al consumismo sfrenato di una società conformista. Come alla fine dell’ottocento, questa visione della semplicità e del minimalismo passò da un gruppo ristretto d’intenditori al gusto generale. Nel 1954, quando il Museum of modern art di New York fece costruire una casa tradizionale giapponese nel suo giardino delle sculture, l’austerità della struttura colpì profondamente i visitatori. “Lasciamo che chi lo desidera viva nel cattivo gusto moderno, caotico e orrendo che tanto spesso ci tocca vedere”, scriveva un appassionato al New York Times. “Io scelgo l’ordine e la pulizia”.
Sono passati settant’anni, eppure l’ossessione del mondo per la semplicità giapponese è sempre viva. Oggi più che mai le persone vogliono prendere in mano la loro vita. E quale luogo è migliore per cominciare dei nostri spazi domestici? Quando tutto ci sembra caotico e imprevedibile, possiamo esercitare un minimo di controllo riordinando la casa. È così che il minimalismo giapponese ha cominciato a diventare una forma preconfezionata di sviluppo personale. Il mondo si rivolge al Giappone per le cose materiali e anche per sbarazzarsene. C’è solo un problema: non è affatto un paese ordinato come pensano gli osservatori esterni.
È comprensibile che nell’ottocento il Giappone fosse frainteso da chi veniva da fuori, perché difficilmente gli stranieri avevano l’opportunità di guardare dentro le case giapponesi. Alcock e Morse si sbagliavano entrambi.
Nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, il Giappone era una meta turistica molto meno popolare di oggi. Durante il picco della sua bolla economica, cominciata nel 1985, per le strade, e ancor di più nelle case, gli stranieri erano una rarità. Non sorprende, quindi, che non si rendessero conto di quanto la società giapponese fosse diventata materialista o di quanto stessero diventando caotici e affollati i suoi spazi domestici.
Gli occidentali non si accorgevano che le case giapponesi si stavano riempiendo di apparecchi elettronici e d’intrattenimento: walkman, karaoke, videoregistratori, televisori, impianti stereo, giocattoli, videogiochi, cartoni animati, fumetti e ogni delizia commerciale immaginabile, sistematicamente testata sui consumatori interni per poi essere inviata nel resto del mondo. Alla fine degli anni ottanta, il consumismo era talmente fuori controllo che spesso le famiglie gettavano via elettrodomestici e apparecchi seminuovi per far posto agli ultimi modelli. All’inizio degli anni novanta, quando studiavo a Tokyo, aspettavo impaziente queste giornate di “fuori tutto” in cui mi capitava di mettere le mani su un televisore o un giradischi perfettamente funzionanti.
Il fervore con cui i giapponesi compravano e buttavano le cose era la prova di quanto all’epoca il cittadino medio si sentisse ricco. Quando nel 1990 la bolla scoppiò e l’economia entrò in stagnazione, la gente cominciò a ripensare il proprio rapporto con tutta la roba che aveva comprato e di cui si era circondata. Si profilava all’orizzonte una resa dei conti, una grande operazione di pulizia. Era il frutto di quel particolare momento storico, penserà qualcuno. E invece, ecco un’altra sorpresa: non era la prima volta che il Giappone faceva i conti con l’eccesso di oggetti superflui. L’Engishiki, un manuale del 927 dopo Cristo, elencava istruzioni dettagliate per pulire ogni anno il palazzo imperiale di Kyoto. Nei secoli successivi si accodarono anche i templi buddisti e i santuari shintō, e con l’arrivo del seicento si diffuse il rito popolare dell’ōsōjii, una “grande pulizia” per salutare l’arrivo del nuovo anno.
Negli anni novanta, il “decennio perduto” dopo il crollo dell’economia, questa tradizione ha assunto una forma diversa. Il Giappone affrontava il dilemma di essere una potenza manifatturiera dove i prodotti che un tempo erano il simbolo del riscatto dalla povertà, ora erano il sintomo di un’epoca sfrenata, un sogno delirante di consumo. Sbarazzarsi di questa roba sembrava necessario, perfino obbligatorio. Ma come?
Pochi anni dopo la riapertura dei porti giapponesi al mondo, lo scrittore inglese Samuel Smiles pubblicò Self-help, with illustrations of character and conduct (1859, che in Italia fu intitolato Chi si aiuta Dio l’aiuta), che raccontava le storie di famosi artisti, educatori, missionari e capitani d’industria. Una traduzione giapponese del 1871 ebbe un successo enorme. Arrivò a vendere più di un milione di copie, diventando uno dei libri più letti del secolo. Solo nel 2000 a qualcuno è venuta l’idea di abbinare il concetto di libro di autoaiuto alla tradizione delle pulizie domestiche.
La prima risposta al problema del disordine è arrivata all’inizio del millennio, quando Nagisa Tatsumi, ex redattrice di una rivista e scrittrice freelance, ha avuto un clamoroso successo con L’arte di buttare (Vallardi), che proponeva un “approccio positivo” al liberarsi delle cose. Poi è arrivata Hideko Yamashita, una casalinga che nel 2009 ha scalato le classifiche dei best seller con Dan-sha-ri. Riordina la tua vita (Fabbri).
Tutto questo ha aperto la strada a Marie Kondo, che ha pubblicato Il magico potere del riordino: il metodo giapponese che trasforma i vostri spazi e la vostra vita (Vallardi) nel 2011. Nel primo capitolo, Kondo cita Tatsumi per nome e incorpora senza remore nel suo metodo le tradizioni spirituali shintō. Nessuna delle autrici che l’avevano preceduta era mai stata tradotta all’estero, quindi il suo libro è stato una rivelazione per il pubblico straniero. Il successo di Kondo è merito del suo lavoro, ma anche di un tempismo perfetto perché in quegli anni, dopo la crisi finanziaria del 2008, la società postindustriale statunitense cominciava a somigliare sempre di più a quella giapponese. Liberarsi degli oggetti superflui era un messaggio diretto a chi si sentiva ormai senza scopo: se non posso riorganizzare la società, almeno posso riorganizzare l’armadio.
Questo era solo uno dei temi. In società iperconsumiste come quella giapponese e occidentale, mettere in pratica il minimalismo è molto difficile, ed è ancora più difficile mantenerlo. Se fosse facile, guru come Kondo non riceverebbero tanta ammirazione e l’austerità dei templi zen o dei santuari shintō ci lascerebbe indifferenti. Entrambi fanno da contrappunto alle nostre banali vite terrene.
Sono passati più di vent’anni da quando è cominciato il boom del riordino in Giappone, ma il paese resta più caotico che mai. Lo so perché ci vivo. Lo vedo a casa mia a Tokyo, mentre scrivo queste parole in una stanza dove la roba si accumula inesorabilmente anche se pulisco tutti i giorni. Eppure non mi sento oppresso dal caos, perché è quello che ho scelto di avere intorno. Il mio disordine sono io.
Amo l’elegante semplicità dei giardini buddisti e dei santuari shintō, della cerimonia del tè e della cucina kaiseki. Amo l’austerità dell’architettura e del design modernista. Tutte queste cose, però, mi sono sempre sembrate costruzioni virtuali, più che la realtà. Non difendo la sporcizia o il caos. Sto parlando di un tipo molto specifico di disordine, una sorta di disordine coltivato.
Un perfetto esempio di questo concetto si trova nella verde periferia occidentale di Tokyo, nel museo della casa di produzione di anime Studio Ghibli, creatrice di film d’animazione acclamati in tutto il mondo come La città incantata (2001) e Il ragazzo e l’airone (2023). All’interno della struttura, impeccabilmente progettata e gestita, c’è una replica della postazione di lavoro del regista Hayao Miyazaki. È un caos totale. Le pareti sono rivestite di mensole di legno pregiato traboccanti di chincaglierie e grossi libroni. Il punto focale della stanza è un’antica scrivania piena di riferimenti e tappezzata di post-it, portapenne, pennelli e colori, tutti a portata di mano per catturare un nuovo volo della fantasia. Dalla parte opposta c’è un tavolo di lavoro coperto da risme di carta, attrezzi e il modellino di un dirigibile in costruzione. Altri modellini di velivoli pendono dal soffitto e dalle pareti, accanto foto di auto, edifici e aeroplani d’epoca. Le finestre dai vetri colorati inondano i cimeli della stanza di una luce calda. In un angolo c’è un cesto di legna da ardere per alimentare una vecchia stufa. Spuntano anche bottiglie di vino vuote, forse i resti di riunioni notturne.
Come l’ufficio di Miyazaki, il miglior disordine è un prodotto del gusto e del tempo, che cresce e si stratifica man mano che uno spazio viene vissuto e utilizzato e il proprietario accumula oggetti vicini alle sue inclinazioni e ai suoi capricci. Questo tipo di disordine può essere sublime.
Ho incontrato l’autore di Tokyo style in un caffè di Tokyo in un fresco pomeriggio di primavera. Gli ho chiesto cosa l’aveva portato a mettere in discussione l’immagine convenzionale del Giappone come il paradiso del minimalismo. “Gli spazi caotici riflettono lo stile di vita di chi li occupa”, dice Tsuzuki. “Il minimalismo, invece, è un modo per imporre la privacy. Non puoi sapere come si veste o cosa mangia quella persona. In realtà il disordine non è una questione di oriente contro occidente. È più una questione di ricchi contro poveri. Ovunque, in qualsiasi parte del mondo, i ricchi hanno il lusso di vivere in ambienti puliti e minimali, mentre i poveri devono accontentarsi di spazi piccoli e angusti senza la possibilità di nascondere le loro cose”.
Per Alcock la “semplicità arcadica” del Giappone contrastava con i “divertimenti ostentati” che erano la fonte dell’infelicità in occidente. La semplicità rappresentava l’antitesi della complessità industriale e incarnava una serie di ideali filosofici da studiare e imitare. Alcock però non pensò mai di chiedersi se i giapponesi vedevano davvero le cose in modo così polarizzato.
Nel suo saggio del 2016 Nihon to iu hōhō (Il metodo chiamato Giappone), il critico culturale Seigow Matsuoka ha analizzato un concetto simile descrivendo l’approccio giapponese alla cultura in termini di due filosofie distinte: sottrattiva e additiva. La sottrattiva, scrive, “è quella delle case del tè o dei giardini zen, il teatro nō e la danza buyō, o anche forme poetiche come la waka e l’haiku”. Sono gli status symbol dell’alta società. L’additiva, invece, è quella dei piaceri destinati a tutti: “Le costruzioni magnificamente ostentate dei carri allegorici matsuri, il teatro kabuki o il santuario Tōshogū di Nikkō”. L’approccio sottrattivo è contemplativo, quello additivo è stimolante. Ma soprattutto, osserva, i giapponesi sono maestri del montaggio, e scelgono tra i due poli a seconda dell’occasione. È per questo che continuano a togliersi le scarpe in casa, ed è per questo che continuano a distinguere tra cibi, alberghi e bagni alla giapponese e all’occidentale. Per Matsuoka, l’approccio sottrattivo e quello additivo non sono di per sé in contrasto: la distinzione è semplicemente una questione di contesto. Non possono esistere da soli, solo in relazione tra di loro. Caos e ordine non sono in contrasto. L’uno crea l’altro.
Anche i luoghi celebrati per il loro minimalismo lo rivelano. I templi buddisti e i santuari shintō sono universalmente considerati tra gli spazi più contemplativi del paese. Eppure, più o meno una volta all’anno, si svolge un festival matsuri, con sfilate di carri allegorici che hanno più in comune con lo sfarzo e l’eccesso del Tōshogū che con la silenziosa austerità del santuario comune. Questi carri hanno molte forme, ma anche i più modesti sono agghindati con scintillanti accessori metallici, sovrastati da magnifiche fenici dorate e portati in strada da grandi gruppi di persone che si aiutano con grida ritmate e una buona quantità di sakè. Ogni festival, inoltre, ospita dei mercatini per le compere, con carretti che vendono cibi tradizionali e bancarelle dove i passanti possono tentare la fortuna e vincere giocattoli tra insegne e striscioni dai colori sgargianti. Il matsuri è sia un’opportunità di mostrare la propria gratitudine spirituale sia un’occasione per le persone di stare insieme e sfogarsi.
Il mondo – soprattutto quello occidentale – ha sempre cercato gli estremi nelle culture asiatiche, come ha osservato il filosofo palestinese-americano Edward Said nel suo saggio del 1978 Orientalismo (Feltrinelli). Said è stato il primo a sottolineare come tutto ciò è stato inevitabilmente dannoso per l’oriente, rappresentato come “altro” e sminuito dal confronto con l’occidente “normale”. L’infatuazione per il minimalismo giapponese rasenta l’adorazione, ma è altrettanto riduttiva.
Gli spazi minimalisti sono pensati per aiutarci a trovare concentrazione e ispirazione, per poi lasciarci andare per la nostra strada. Gli spazi accuratamente affollati, invece, ci attirano creando un’atmosfera accogliente per i clienti, stimolante per i collezionisti o creativa per gli artigiani. Se gli spazi minimali ci trasmettono sottovoce le virtù dei loro creatori, gli spazi del disordine fanno lo stesso in modo diverso.
Il mondo si è storicamente rivolto al Giappone per trovare ispirazione nel semplificarsi la vita. I vittoriani proiettavano sulle arti e i mestieri giapponesi una serie di valori che, secondo loro, l’occidente aveva perso per strada nella sua marcia verso l’industrializzazione. I beat cercavano il nirvana nella filosofia buddista di D.T. Suzuki. Molti programmatori di oggi si rappresentano come tecno-asceti di una tendenza che nel 2016 lo scrittore Kyle Chayka ha definito “la versione del monachesimo zen della Silicon valley”. In tutto il mondo, le persone hanno tentato di riprendere il controllo sulla propria vita applicando il metodo di Marie Kondo. L’idea che il Giappone abbia le risposte ai problemi del sovraconsumo è un canto delle sirene che cambia di volume nel corso dei decenni ma non s’interrompe mai.
Se Tokyo indica la strada per la semplicità, ci dà anche una sua visione del caos. Ammesso e non concesso che i giapponesi conoscano la magia del riordino, anche i loro spazi studiatamente caotici possono essere magici. C’è una noiosa uniformità in gran parte della cultura moderna, in cui le asperità sono smussate e viene imposta una rassicurante medietà a colpi di ricerche di mercato e algoritmi. I film che guardiamo sono sequel di sequel, le canzoni che ascoltiamo sono campionamenti di campionamenti, gli abiti che portiamo sono copie di copie.
Il disordine studiato e accogliente delle case giapponesi è il contrario di tutto questo. La cura meticolosa di alcuni spazi va di pari passo con lo sforzo mentale che i giapponesi mettono nel semplificare le cose. Aggiungere anziché sottrarre è una scelta intenzionale ed estetica, a volte consapevole, a volte inconscia ma sempre strettamente individuale. Il caos è un antidoto alla standardizzazione narcotizzante di gran parte della vita moderna.
Prima di congedarmi da Tsuzuki, gli ho chiesto se sta pensando a un secondo capitolo di Tokyo style. Ormai, però, sono passati trent’anni e i tempi sono cambiati: “Oggi l’idea di restare attaccati alle cose per tutta la vita è superata. Guarda l’abbigliamento. Un tempo gli abiti di qualità costavano cari. La gente li comprava, li teneva con cura e li indossava per anni. Si creava in modo naturale una collezione. Adesso, invece, siamo circondati da catene di vestiti economici che ci facciamo andare bene. Li portiamo per una stagione, poi basta”.
Per Tsuzuki, “ci facciamo andare bene” significa che viviamo in un mondo usa e getta. Tra gli oggetti che ci circondano sono pochissimi quelli che consideriamo preziosi. La semplicità non è legata alla povertà, come diceva Morse, ma al benessere. E sta raggiungendo le masse, grazie alla manodopera a basso costo, alla logistica e alla tecnologia.
È come se i concetti di minimalismo e di caos si stessero pian piano unendo: quando il monouso e la riciclabilità fanno parte dell’atto dell’acquisto, l’idea stessa dell’accumulo decade. Questo processo non fa che accelerare, perché una fetta sempre più grossa della nostra vita – specialmente lo shopping – si consuma online, in spazi virtuali. Lo stesso concetto di acquisizione sta cambiando di significato, perché compriamo dati invece che merci: spesso, oggi, condividiamo anziché possedere fisicamente. In Giappone lo scontro tra caos e pulizia va avanti da secoli, ma se l’andazzo è questo, presto diventerà irrilevante.
Nonostante tutto, però, credo che il Giappone non si priverà mai dei suoi spazi di disordine, perché disordine e pulizia sono eternamente legati, ognuno insignificante senza l’altro. Perché puliremmo se non ci fosse il caos a motivarci? A pensarci bene è perfettamente logico: se i giapponesi vivessero davvero in templi minimalisti, perché dovrebbero farsi spiegare “il potere magico del riordino” da Marie Kondo? Il mondo è affezionato all’idea del Giappone come un paradiso minimalista, ma il disordine voluto ci mostra che il più può essere altrettanto importante del meno. In un mondo di obsolescenza e uniformità omogeneizzata, gli spazi del disordine sembrano quasi una dichiarazione di libertà. Possono essere oasi di umanità: caotiche, imprevedibili, creative e autentiche come noi. Sono banali. Ma lo siamo anche noi. ◆ fas
Matt Alt lavora a Tokyo come traduttore, scrittore e conduttore televisivo. È autore di Pop ポップ_. Come la cultura giapponese ha conquistato il mondo_ (Add 2023). Questo articolo è uscito sul sito Aeon con il titolo “The joy of clutter”.
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Questo articolo è uscito sul numero 1589 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati