Da dove arriva? Dalla coppia tedesca che si fa un selfie tra le onde del mare cristallino? Dai mariachi che, con tuba, fisarmonica e chitarre avanzano sulla sabbia finissima per suonare canzoni a richiesta ai turisti sui lettini? O forse da uno dei pellicani che fluttuano placidamente sulle onde del mar dei Caraibi dopo aver preso un pesce?
No, l’odore di uova marce che raggiunge a folate la spiaggia della località balneare messicana di Playa del Carmen viene dalla vicina montagna di alghe marrone scuro alta un metro e mezzo. Tre varietà di Sargassum, il nome scientifico dell’alga, sono una vera piaga della regione caraibica. Le alghe brune si moltiplicano anche a causa dei fertilizzanti che gli esseri umani scaricano in acqua in quantità crescente: una delle tante minacce per gli oceani che il trattato delle Nazioni Unite sull’alto mare, firmato all’inizio di marzo, dovrà affrontare.
Il problema dei sargassi dimostra che le azioni degli esseri umani sulla terraferma hanno conseguenze sugli oceani, e viceversa. Da anni le alghe si ammassano in quantità più grandi del solito sulle rive di trenta isole e paesi caraibici. Ma in nessuna spiaggia i cumuli sono così impressionanti come lungo la riviera Maya, un tratto costiero messicano di fama internazionale. Il danno non è solo economico. Le alghe portate a riva erodono rapidamente la fascia costiera e indeboliscono la barriera corallina. La scomparsa di elementi naturali rende quest’area densamente popolata molto più esposta agli uragani, la cui violenza è in aumento a causa della crisi climatica.
Per ora i sargassi rovinano soprattutto le vacanze. Deturpano le spiagge incontaminate e, se non sono rimossi, dopo due giorni cominciano a puzzare in modo terribile. Quando le chiedo che odore hanno le alghe che spala via dalla spiaggia per otto ore al giorno, sei giorni alla settimana, Sandra Díaz scoppia a ridere. “Di scoregge”, dice tra una risata e l’altra, mentre si gode una breve pausa all’ombra con i colleghi.
A volte le lunghe ore di lavoro sotto il sole e la puzza di uova marce (acido solfidrico , H2S) che si sprigiona durante la raccolta le causano mal di testa. Ma almeno, dice Díaz, il lavoro è assicurato. “Le alghe arrivano di continuo”. Le spiagge andavano pulite perfino durante la pandemia. “Quando molte altre persone hanno perso il posto, noi l’abbiamo mantenuto”, aggiunge un collega.
Raccogliere e portare via le alghe velocemente è il sistema più adottato dalle autorità e dagli imprenditori locali. Si usa già dal 2018, l’anno in cui grandi quantità di alghe sono arrivate a riva per la prima volta. Lentamente però ci si sta rendendo conto che il problema dei sargassi non è passeggero, ma peggiora. Si sta quindi ragionando su un metodo diverso: intercettarli in mare.
Il metodo più costoso
Molte spiagge in questa parte del Messico sono in mano a resort turistici, stabilimenti balneari e hotel di lusso. Sono loro a tenerle pulite schierando eserciti di netturbini, ma anche installando delle barriere galleggianti, simili alle pompe usate nei disastri petroliferi.
La catena francese Vidanta, composta da cinque hotel di lusso, va perfino oltre. Da due anni usa il Sargaboat, un catamarano che raccoglie le alghe dall’acqua usando una specie di nastro trasportatore. Due imbarcazioni ausiliarie fanno la spola per portare i sargassi a terra, spiega Héctor López, responsabile ambientale della Vidanta, al porto turistico di Puerto Morelos, dove il Sargaboat è attraccato. In questo modo il gruppo alberghiero risparmia sul personale, dice López. Se prima doveva impiegare fino a centoventi dipendenti con carriole, rastrelli e pale, ora gliene servono solo dodici. Le alghe arrivano in quantità sempre maggiori e anche fuori della loro stagione (da aprile a ottobre), dice il capitano Iván Haas: “Il mare è diventato loco”, pazzo.
La Vidanta usa parte delle alghe come compost nei suoi giardini e vende il resto a un’azienda che le trasforma in altri prodotti, tra cui ecopelle ed emulsionanti per cosmetici. Allo stesso tempo, però, la raccolta in mare è molto più costosa della pulizia a terra. La catena alberghiera può permettersi le navi perché i suoi ospiti arrivano a pagare centinaia di euro a notte per una stanza. “Ma non è una soluzione per tutti”, concorda López.
Sarebbe meglio intercettare i sargassi in mare su scala più grande per vari motivi, sostiene Brigit van Tussenbroek, biologa marina olandese che fa ricerche sull’ecosistema della costa messicana da più di trent’anni. “In passato lavoravo sulle fanerogame, ma stanno scomparendo, così ho cominciato a occuparmi del sargasso”, racconta nel suo ufficio all’Istituto delle scienze del mare e della limnologia all’università nazionale autonoma del Messico (Unam) di Puerto Morelos.
I sargassi che il Messico spala via raramente sono smaltiti in modo corretto. In genere finiscono in discariche clandestine
Dato che galleggiano tra le onde e vicino a riva, i sargassi sono anche chiamati brown tide, marea bruna. Ed è lì che provocano i danni maggiori, spiega Van Tussenbroek: soffocano la fauna marina e fanno morire le fanerogame, erodendo ulteriormente la costa. “A un certo punto la massa diventa così grande che l’insieme di batteri vicino alla riva fa sparire tutto l’ossigeno dall’acqua. Le alghe, le erbe e gli animali che non riescono a fuggire in tempo muoiono”. Più al largo, le sostanze rilasciate in acqua dai sargassi in decomposizione danneggiano la barriera corallina.
Una crescita esplosiva
Inoltre, la costa già soffre per la crescita dell’industria turistica. Le dune hanno dovuto fare spazio agli hotel. E la rimozione delle alghe a riva porta via anche molta sabbia. In una località balneare affollata come Playa del Carmen, la spiaggia si è ridotta in alcuni punti a una striscia larga non più di un metro. I bar sul mare hanno rinforzato i loro spazi esterni con sacchi di sabbia per evitare che i mobili siano portati via dalle onde.
Un cartello affisso in spiaggia dal comune cita come possibili cause dell’aumento esponenziale dei sargassi “il riscaldamento delle acque e il crescente inquinamento marino”. Per Van Tussenbroek il colpevole è soprattutto l’inquinamento: “La temperatura del mar dei Caraibi è sempre stata ottimale per i sargassi. La differenza la fanno soprattutto le nostre azioni: immettiamo più anidride carbonica, le correnti e i venti cambiano, e ci sono più nutrienti nell’oceano”.
Le persone allevano più bestiame e coltivano più terra. I fertilizzanti come l’azoto, il fosforo e il potassio finiscono negli oceani passando da grandi fiumi come il rio delle Amazzoni, l’Orinoco, il Mississippi e il Congo. I sargassi, invece, sono abituati a sopravvivere in un’area molto povera di nutrienti: una zona dell’oceano Atlantico subtropicale, vicino all’arcipelago delle Bermuda. In quella regione si staccavano sempre dei filamenti dall’alga che, appena approdavano in un’area ricca di sostanze nutritive ne facevano scorta, come un cammello che trova una fonte d’acqua nel deserto.
Oggi, con l’aumento dei nutrienti, la crescita è diventata esplosiva. Van Tussenbroek spiega: “In condizioni ideali, con una buona temperatura e nutrienti a sufficienza, il sargasso può raddoppiare la sua biomassa in cinque o sei giorni. Sono tempi incredibilmente rapidi”. Oltre che nel mare dei Sargassi, sembra che siano comparse altre zone ricche di queste alghe tra la costa nordorientale del Brasile e l’Africa occidentale. E potrebbe essercene perfino una vicino a Panamá e alla Costa Rica. “Questo significa che i sargassi ci causeranno problemi tutto l’anno”.
I sargassi che il Messico spala via dalle sue spiagge raramente sono smaltiti in modo corretto. In genere finiscono in discariche clandestine senza geomembrana (un rivestimento sintetico), il che porta alla perdita di nutrienti, ma anche di metalli pesanti come arsenico e cadmio, nel terreno calcareo e infine nelle acque sotterranee. Insieme alle acque reflue, scaricate per lo più senza l’intervento di impianti di depurazione, si verifica quindi un flusso ininterrotto di sostanze nutritive che alimentano altre alghe.
Per rompere questo circolo vizioso si stanno cercando metodi per trasformare i sargassi. Ci sono molte idee per sfruttarli, e già oggi sono impiegati per produrre biogas. La cellulosa si può usare per fare quaderni, scarpe e zucchero. Ma un’unica soluzione miracolosa ancora non c’è.
Omar Vázquez sta già guadagnando grazie ai sargassi. Gestiva un’azienda di giardinaggio a Puerto Morelos e così è stato coinvolto nella pulizia della spiaggia. Da qualche anno con le alghe produce mattoni chiamati sargablocks, composti da una miscela di sargassi e adobe (un impasto di argilla, sabbia e paglia essiccate). Il primo edificio costruito è Casa Angelita, chiamato così in onore della madre. Oggi Vázquez fornisce il materiale a diversi clienti, ma il suo obiettivo non è diventare ricco. Ha già parlato con grandi aziende interessate a fare soldi trasformando i sargassi in mattoni. “Ma gli imprenditori si scontrano con la riluttanza delle autorità locali, contrarie all’idea che un’azienda si arricchisca con le alghe che loro hanno fatto rimuovere. Così non va”.
Occasioni d’oro
Anche per questo la raccolta in mare sarebbe ideale, ma resta una soluzione costosa, spiega il francese Dennis Jimenez, che vive in Messico da molti anni. Oltre a essere un marinaio, Jimenez costruisce barche ed è stato lui a progettare il Sargaboat. L’idea gli è venuta durante una traversata dell’Atlantico in catamarano con la moglie, durante la quale si è accorto di quanto i sargassi affliggano tutta la regione caraibica. “È davvero un problema comune”, racconta nella grande città turistica di Cancún.
La raccolta in mare è costosa anche perché un sargasso è composto per il 90 per cento d’acqua. Questo significa che pesa molto (e quindi trasportarlo è costoso), mentre una volta asciutto mantiene solo un decimo della massa originaria. Jimenez racconta un po’ avvilito che la sua azienda, The Ocean Cleaner, finora è riuscita a vendere l’invenzione solo al resort della Vidanta. Nel 2020 Van Tussenbroek ha realizzato, insieme ad alcuni colleghi caraibici, una guida che raccoglie i prodotti fatti con i sargassi. Quasi tutti sono ancora in fase pilota o sperimentale, ma la biologa crede che la raccolta in mare possa diventare redditizia se il settore si svilupperà.
Anche se in Messico e nel resto dei Caraibi i sargassi sono ancora considerati una piaga, la marea bruna potrebbe offrire occasioni d’oro, come ha concluso anche uno studio del 2021 dell’università di Wageningen, nei Paesi Bassi. Assorbe grandi quantità di anidride carbonica e nutrienti e li converte in biomassa. “Tutto quello che dobbiamo fare è togliere la biomassa dall’oceano”, afferma Van Tussenbroek. “Così i nutrienti non torneranno in mare. E dobbiamo impedire all’anidride carbonica di disperdersi nell’aria”.
Se un paese petrolifero come il Messico decidesse di far parte del mercato internazionale dei crediti d’emissione (il sistema che permette di compensare le emissioni superiori al livello consentito finanziando progetti di tutela ambientale) avremmo “una situazione vantaggiosa per tutti”, dice Van Tussenbroek. “Aiuteremmo il clima e al tempo stesso ripuliremmo gli oceani”. ◆ fp
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Questo articolo è uscito sul numero 1506 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati