Per i palestinesi è quasi inconcepibile considerare Israele una democrazia. Lo stesso vale per molti attivisti israeliani per i diritti umani. Settantacinque anni di pulizia etnica, dominio militare, insediamenti per soli ebrei su terreni di proprietà palestinese e un sistema consolidato di discriminazione simile all’apartheid hanno reso ai loro occhi le parole “Israele” e “democrazia” incompatibili.
Eppure, nelle ultime settimane la società israeliana è stata lacerata dalla questione della democrazia. Centinaia di migliaia di manifestanti, in grande maggioranza ebrei, hanno riempito le strade di Tel Aviv, Gerusalemme, Haifa, Beersheva e di altre città e cittadine in “difesa della democrazia”, facendo appello alla disobbedienza di massa e perfino alla “rivolta” se il nuovo governo di estrema destra dovesse realizzare la sua riforma della giustizia. L’espressione “guerra civile” (o nella versione ebraica “guerra tra fratelli”) è diventata un elemento centrale nel vocabolario politico collettivo, insieme a espliciti avvertimenti sul rischio di potenziali spargimenti di sangue nello scontro tra governo e cittadini ebrei.
Questa protesta storica sta crescendo non solo in termini di dimensioni ma anche d’influenza, dato che vi hanno aderito vasti settori delle élite israeliane: imprenditori, banchieri, avvocati, intellettuali, agenti della sicurezza, diplomatici, ex giudici della corte suprema e pubblici ministeri. È significativa anche la presenza dei settori dell’informatica e dell’alta tecnologia, responsabili non solo del 20 per cento circa delle entrate fiscali dello stato e del 40 per cento delle sue esportazioni, ma anche dell’immagine interna ed esterna di Israele come “nazione startup”. A oggi decine di aziende dell’alta tecnologia, oltre ai fondi speculativi, hanno annunciato che ritireranno i loro investimenti e conti bancari da Israele, se non l’hanno già fatto. Centinaia di noti economisti, tra cui il presidente in carica della Banca d’Israele e i suoi predecessori, hanno avvertito delle possibili implicazioni che la riforma avrà sulla posizione del paese nell’economia globale, e lo stesso hanno fatto le banche internazionali e le agenzie di rating. Messe insieme, queste sono le minacce più rilevanti all’economia d’Israele da decenni.
Il governo incontra un’agguerrita opposizione anche nel cuore della pubblica amministrazione: in una dichiarazione politica estremamente rara, la presidente della corte suprema Esther Hayut ha definito la riforma “un piano per schiacciare il sistema giudiziario” e ha minacciato di dimettersi se dovesse essere approvata. Con lei si sono schierati consulenti legali del governo e della knesset, il parlamento israeliano, oltre a ufficiali di alto rango dell’esercito e della polizia, preoccupati dai piani del governo.
La riforma che il primo ministro Benjamin Netanyahu sta portando avanti è stata in gran parte architettata da due politici israeliani relativamente poco conosciuti: il ministro della giustizia Yariv Levin e il presidente della commissione parlamentare per la costituzione, la legge e la giustizia Simcha Rothman, del Partito sionista religioso, formazione di estrema destra guidata da Bezalel Smotrich. Rothman e Smotrich sono entrambi avvocati e da anni conducono una campagna contro il sistema giudiziario israeliano, in particolare contro la sua corte suprema, sostenendo che avrebbe “preso il sopravvento” come parte dello “stato profondo”. Secondo loro le élite del paese impongono idee liberali a una popolazione in prevalenza conservatrice, e non riconoscono il ruolo dei legittimi rappresentanti dei cittadini nella knesset e nel governo.
Poteri illimitati
La riforma pretende di “guarire” la democrazia israeliana, restituendo il potere all’organo esecutivo e a quello legislativo. La prima parte si basa su quattro elementi principali: concedere alla coalizione di governo il controllo totale sulla nomina di nuovi giudici della corte suprema, rendendole quasi impossibile annullare eventuali leggi che violino i diritti umani; permettere al parlamento di respingere simili decisioni della corte nei rari casi in cui fossero prese; abolire la facoltà dei tribunali di riesaminare le decisioni adottate dalle autorità nazionali o locali sulla base della loro “plausibilità”; e permettere ai ministri di ignorare le indicazioni dei consulenti legali. Nel sistema unicamerale israeliano – in cui la knesset è controllata di fatto dalla coalizione di governo, non c’è una costituzione scritta e i tribunali sono al momento l’unico contrappeso all’esecutivo – modifiche simili darebbero al governo poteri praticamente illimitati. I prossimi passi non sono ancora stati definiti nel dettaglio, ma prevedono di indebolire ulteriormente il sistema giudiziario rispetto al potere esecutivo.
Eppure, sapendo quanto sia già fragile la democrazia israeliana, e come la corte suprema negli anni non sia stata in grado di difendere i diritti dei palestinesi e di altri gruppi discriminati, c’è da chiedersi perché Netanyahu abbia scelto il suo sesto mandato per far passare queste drastiche modifiche.
La prima e più ovvia risposta risiede nei suoi stessi problemi con la giustizia. Netanyahu è sotto processo con accuse di corruzione, frode e abuso d’ufficio. Se fosse condannato, rischierebbe di scontare anni in carcere. Dunque ha tutte le ragioni per cercare di controllare il sistema giudiziario, nominare i giudici che potrebbero occuparsi di eventuali ricorsi o designare un nuovo procuratore generale che farà magicamente scomparire il suo processo. Anche la pura e semplice vendetta contro la magistratura che l’ha messo sotto processo è un motivo per agire.
Ragioni personali muovono anche Aryeh Deri, leader del partito ultraortodosso Shas e uno dei più importanti alleati della coalizione di Netanyahu, le cui precedenti condanne per corruzione ed evasione fiscale a gennaio hanno spinto la corte suprema a escluderlo dalla carica di ministro. Deri ha motivi ancora più immediati per indebolirla e ribaltare le sue decisioni.
Inoltre, è il rappresentante di una grande comunità che da decenni considera la corte uno dei suoi principali nemici, soprattutto perché ha invalidato alcune norme contrarie alle leggi fondamentali d’Israele. Per esempio, ha respinto l’esenzione dal servizio militare degli studenti della yeshivah (il sistema delle scuole religiose), una delle questioni più delicate per la popolazione ultraortodossa d’Israele. I partiti ultraortodossi hanno aspramente criticato anche altre sentenze dei tribunali, soprattutto quelle sui diritti lgbt+ o quelle che consentono l’apertura delle attività commerciali durante le festività ebraiche.
Anche il movimento dei coloni e i suoi sostenitori politici, non solo quelli dell’estrema destra, hanno una lunga storia di ostilità verso la magistratura. Nel 1979 la corte stabilì che le espropriazioni di terre ai danni dei palestinesi compiute sulla base di “motivi di sicurezza” non potevano essere più usate per costruire insediamenti ebraici in Cisgiordania, com’era successo fino a quel momento. Nel 2020 ha annullato una legge che permetteva allo stato di espropriare terreni privati palestinesi su cui erano già state costruite migliaia di case illegali dei coloni.
Con l’ascesa degli estremisti di destra è diventato evidente che uno dei loro obiettivi sarebbe stato sbarazzarsi degli ostacoli legali che impediscono, o almeno rallentano, la realizzazione di un sistema di apartheid ancora più profondo e duraturo in Cisgiordania.
Smotrich, ora ministro delle finanze, è l’autore del cosiddetto piano risolutivo d’Israele, che offre ai palestinesi tre opzioni: accettare la supremazia ebraica, emigrare o “avere a che fare con il pugno duro delle forze di sicurezza”. Itamar Ben Gvir, ministro della sicurezza nazionale del nuovo governo, è stato un esponente del movimento razzista kahanista e un ammiratore di Baruch Goldstein, un colono che uccise decine di fedeli palestinesi in preghiera a Hebron nel 1994. Entrambi considerano la presenza di rappresentanti dei cittadini palestinesi d’Israele in parlamento “un errore” a cui si deve rimediare.
Quindi non c’è da meravigliarsi se per i vari esponenti del governo i risultati delle ultime elezioni, che gli hanno dato una comoda maggioranza di 64 seggi, sono un’occasione irripetibile per cambiare l’equilibrio nella società israeliana. Oltre a rendere irreversibile l’occupazione israeliana della Cisgiordania, il governo ha una serie di obiettivi illiberali che spera di raggiungere, e che sta tenendo da parte per il giorno in cui i tribunali saranno resi inoffensivi: espandere il raggio d’azione del Gran rabbinato, il supremo organo religioso ebraico dello stato; deportare i richiedenti asilo africani; chiudere la televisione pubblica e trasformare il panorama dei mezzi d’informazione; riorganizzare il sistema scolastico; arginare i sindacati. Ma il piano più pericoloso e radicale forse è quello che punta a dichiarare illegale la maggior parte dei partiti palestinesi nella knesset. Una mossa simile impedirebbe a più del 20 per cento dei cittadini d’Israele di avere una rappresentanza, e garantirebbe il dominio eterno dell’estrema destra.
Quello che il governo a quanto pare non aveva previsto era la reazione non solo dei “soliti sospetti” tra i cittadini palestinesi d’Israele o della sinistra radicale ebraica, ma anche di vasti settori dell’opinione pubblica di centro, della classe imprenditoriale e dei leader stranieri, come il presidente francese Emmanuel Macron e il segretario di stato statunitense Antony Blinken. Perfino alcuni settori della destra, tra cui molti che hanno votato per questo governo appena tre mesi fa, sono contrari. Secondo diversi sondaggi, tra il 40 e il 50 per cento dell’elettorato di destra ritiene che il governo si stia spingendo “troppo oltre” con le riforme pianificate, e la percentuale tra l’intera popolazione è molto più alta.
Un mare di bandiere
La prima manifestazione dell’attuale ondata di proteste è stata organizzata dal movimento di sinistra Standing together a Tel Aviv all’inizio del gennaio 2023, pochi giorni dopo l’annuncio della riforma da parte di Levin. Vi hanno preso parte più di ventimila persone, una folla considerevole per gli standard israeliani. Da allora il dissenso ha continuato a crescere. Folle di 150mila manifestanti, quasi il 2 per cento della popolazione totale d’Israele, si riuniscono ogni sabato, non solo a Tel Aviv ma anche in altre città grandi e piccole, compreso l’insediamento di Efrat in Cisgiordania. Mai nella storia del paese si sono viste tante persone scendere in piazza così spesso in un tempo così breve.
Mentre la prima manifestazione aveva una forte sfumatura di sinistra, con slogan contro l’occupazione e oratori palestinesi, quelle successive hanno preso una piega molto sionista e tradizionale. Oggi le proteste sono inondate da un mare di bandiere israeliane e i palestinesi sono quasi del tutto assenti. Il termine “occupazione” non è mai pronunciato, se non da un piccolo gruppo di attivisti di sinistra. La parola d’ordine invece è “democrazia”. Secondo gli organizzatori Israele è una democrazia, l’alta corte è custode dei diritti umani e dei valori liberali, e la riforma della magistratura distruggerebbe queste istituzioni sacre. Tutto quello che chiedono, quindi, è lasciare le cose come sono.
Alla fine di gennaio Moshe Yaalon, ex ministro della difesa ed ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, che in passato ha dichiarato di limitare i suoi viaggi per paura di essere arrestato a causa delle inchieste sui crimini di guerra, ha detto ai manifestanti: “Non abbiamo combattuto contro i nemici esterni per consegnare il paese ai criminali”. Yaalon, che è diventato una delle figure principali del movimento, ha avvertito che Netanyahu sta trasformando Israele in una “dittatura” e ha promesso: “Come abbiamo impedito alla Siria e all’Egitto di distruggere Israele impediremo anche a lui di farlo”.
Anche altri ex generali, accusati anche loro di crimini di guerra, come l’ex primo ministro Ehud Barak, hanno espresso la loro opposizione, invocando la “disobbedienza civile”. I soldati riservisti delle unità speciali hanno formato il loro gruppo di protesta. Alcuni veterani della guerra del 1973 hanno perfino rubato un vecchio carrarmato da un sito commemorativo e hanno guidato verso Gerusalemme, prima di essere fermati dalla polizia. Nel frattempo gli oratori arabi sono pochi e sporadici, e il 18 febbraio un’attivista femminista palestinese invitata a parlare a una manifestazione a Haifa ha annullato la sua partecipazione dopo che gli organizzatori avevano censurato parti del suo discorso perché collegavano la riforma della magistratura all’occupazione.
Prova di forza
Questi sviluppi rivelano quanto il dissenso sia omologato al pensiero dominante e perfino conservatore. Si tratta, innanzitutto, di una prova di forza delle classi medie e alte degli ebrei israeliani. Alcuni manifestanti sono stati attivi nelle cosiddette proteste di Balfour nel 2020, che chiedevano le dimissioni di Netanyahu per le sue incriminazioni, e che hanno contribuito alla caduta del suo precedente governo. La maggior parte però si è appena avvicinata all’attivismo politico. Canta slogan come “democrazia o rivolta” e “no alla dittatura”, anche se i raduni sono di solito molto tranquilli e la polizia permette ai manifestanti di bloccare le strade principali prima di disperdersi pacificamente di loro spontanea volontà (il 1 marzo ci sono stati alcuni scontri durante una protesta a Tel Aviv).
Il governo di Netanyahu è sotto pressione. Perfino il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha avvertito: “La forza della democrazia statunitense e di quella israeliana sta nel fatto di essere costruite su istituzioni forti, su pesi e contrappesi, e su una magistratura indipendente”.
Netanyahu si trova davanti a una scelta difficile: se rinuncia a elementi importanti della riforma il suo governo potrebbe rapidamente disintegrarsi, dato che Smotrich, Ben Gvir e perfino alcuni esponenti del Likud (il suo partito) come Levin sono determinati a farla passare senza la minima modifica. Se va avanti potrebbe rischiare una crisi senza precedenti, perché è molto probabile che la corte suprema stroncherà alcune parti o forse tutto il testo. In questo caso il governo potrebbe rifiutare la sentenza, il che spingerebbe Israele in un limbo costituzionale, facendolo somigliare quasi a uno stato fallito.
Ad aleggiare sulla crisi c’è, naturalmente, l’ombra del conflitto israelo-palestinese, quasi completamente assente da tutte le discussioni su democrazia o dittatura nell’opinione pubblica israeliana. Un piccolo ma ostinato gruppo di poche centinaia di manifestanti ha formato il blocco antioccupazione. Alcuni portano alle proteste bandiere e simboli palestinesi e chiedono “democrazia tra il fiume e il mare”.
All’inizio gli attivisti erano attaccati da altre persone in piazza secondo cui “non è il momento giusto” per parlare di occupazione e di diritti dei palestinesi. Tuttavia, man mano che le proteste crescevano è aumentata anche la legittimità del blocco antioccupazione. Il fatto che questa riforma antidemocratica sia portata avanti da coloni di estrema destra come Smotrich e Ben Gvir aiuta i manifestanti contro l’occupazione a tracciare una linea tra la parvenza di democrazia che c’è in Israele e la sua mancanza dall’altra parte della Linea verde, il confine precedente al 1967.
Questa ondata di dissenso serve da lezione collettiva sulla democrazia attiva. Se riuscirà a fermare le iniziative antidemocratiche potrebbe creare un nuovo modo di pensare alla democrazia israeliana, alla necessità di proteggere i diritti delle minoranze dalla “tirannia della maggioranza”, e al pericolo delle idee razziste e antidemocratiche che la destra promuove da anni. Potrebbe essere l’inizio di una nuova epoca nella politica israeliana: più liberale, meno xenofoba e forse, ma forse, più propensa a capire che i fallimenti della democrazia del paese non possono essere risolti senza mettere fine al dominio militare su milioni di palestinesi.
Ma se non ci riuscirà il governo di destra sarà libero di soffocare gli elementi progressisti che ancora resistono nella società ebraica israeliana e d’imporre misure radicali contro i palestinesi da entrambi i lati della Linea verde: dall’esclusione dei partiti palestinesi alle elezioni parlamentari israeliane all’esproprio di terre in Cisgiordania, se non addirittura a una nuova nakba, la catastrofe, la cacciata dei palestinesi dopo la creazione d’Israele nel 1948. La posta in gioco non potrebbe essere più alta. ◆fdl
Meron Rapoport è un giornalista del sito indipendente israeliano Local Call, che si occupa di democrazia, pace e giustizia sociale. Ha fondato il movimento A land for all, che promuove la convivenza tra israeliani e palestinesi.Oren Ziv è un giornalista e fotografo che collabora con Local Call e +972 Magazine. È tra i fondatori del collettivo Activestills, che dal 2005 documenta questioni sociali e politiche in Israele e Palestina.
◆ 1 novembre 2022 Gli israeliani vanno a votare per la quinta volta in meno di quattro anni. Il Likud, il partito di destra dell’ex primo ministro Benjamin Netanyahu, ottiene la maggioranza relativa conquistando 32 seggi sui 120 della knesset, il parlamento israeliano. Sionismo religioso – un’alleanza formata dalle formazioni di estrema destra Potere ebraico di Itamar Ben Gvir e Partito sionista religioso di Bezalel Smotrich – arriva a quattordici seggi.
29 dicembre S’insedia il nuovo governo guidato da Netanyahu, che diventa premier per la sesta volta, mentre è sotto processo per corruzione. L’esecutivo è sostenuto da una coalizione di partiti di estrema destra e ultraortodossi.
4 gennaio 2023 Il ministro della giustizia Yariv Levin presenta una riforma che ha l’obiettivo di indebolire la corte suprema, dando al parlamento più controllo sulla magistratura.
7 gennaio Migliaia di persone manifestano a Tel Aviv contro la riforma. Da allora le proteste si ripetono ogni settimana.
13 febbraio Centomila persone protestano davanti al parlamento a Gerusalemme mentre la commissione parlamentare per la costituzione, la legge e la giustizia approva alcune disposizioni della riforma.
21 febbraio Il parlamento approva in prima lettura due testi che fanno parte della riforma della giustizia. La seconda e terza lettura sono previste entro la fine di marzo.
The Times of Israel, Haaretz
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Questo articolo è uscito sul numero 1502 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati