Quando ho letto La storia di Genji, un tomo di 1.300 pagine scritto più di mille anni fa da una dama di compagnia della corte dell’imperatore del Giappone, mia figlia era all’ultimo anno delle superiori. Forse è per questo che, quando sono arrivata a una delle scene clou, sono bastati pochi versi per farmi crollare.

Hikaru Genji, il protagonista, chiede a una delle sue numerose mogli di rinunciare a sua figlia lasciando che sia allevata a corte da un’altra donna. Mentre guarda la bambina che sale sulla carrozza che la porterà via, la madre, dama Akashi, recita una poesia waka:

Il suo futuro è nella grande distanza
Questo germoglio di pino che mi viene
tolto
Quando lo vedrò stenderà la sua splendida ombra

“Scoppiando in lacrime, non riuscì a dire altro”, continua il testo.

In quei versi ho rivisto il mio dolore. Presto anch’io avrei detto addio a una figlia dopo averla portata all’università, a migliaia di chilometri di distanza.

Avevo deciso di leggere il Genji monogatari, com’è conosciuto in giapponese, per motivi professionali. Ero a capo della redazione di Tokyo del New York Times e sentivo che era una lacuna grave non conoscere il libro di Murasaki Shikibu, considerato il primo romanzo della storia e una pietra miliare della letteratura giapponese.

In Giappone, La storia di Genji ha ancora un’enorme influenza. Passaggi del libro sono insegnati ai bambini in quasi tutte le scuole. La storia è stata oggetto d’innumerevoli traduzioni, interpretazioni e adattamenti in ogni forma d’arte possibile: pittura, teatro nō, danza, cinema, televisione, manga, anime, perfino una commedia romantica.

Avevo cominciato a leggere le prime pagine per senso del dovere. Mi aspettavo di sentirmi distante dal testo medievale. Dopo tutto, la storia si svolge nell’undicesimo secolo, tra le élite di corte del periodo Heian, con i loro misteriosi rituali, codici monarchici e versi poetici allusivi.

Invece ho trovato un terreno comune non solo con la mia esperienza personale, ma anche con il mio lavoro da giornalista e i miei sei anni da corrispondente dal Giappone. Più andavo avanti con la lettura più mi trovavo a riflettere su come le dinamiche di genere e di potere si ripetevano da secoli nella cultura giapponese.

Il racconto è incentrato sulla vita di Genji, figlio dell’imperatore e della sua consorte favorita. Fin dalla prima adolescenza, Genji vaga per la regione dell’attuale Kyoto, passando da una donna all’altra, tra relazioni e molte mogli. Pur acquisendo grande influenza, non sale mai al trono. Ci sono una serie di epici colpi di scena. Genji è costretto a nascondere la paternità di uno dei suoi figli perché il bambino è il frutto dell’unione tra lui e una delle mogli del padre (il segreto peserà moltissimo nel momento in cui quello stesso bambino diventerà imperatore). Una delle mogli di Genji si trasforma in uno spirito geloso che s’impossessa di un’altra delle mogli, in una scena agghiacciante che anticipa il genere horror. Genji viene mandato in esilio su un’isola sperduta dopo essersi unito carnalmente a una consorte dell’imperatore.

Per tutto il racconto, l’autrice (una donna! Più di mille anni fa!) mette costantemente al centro la prospettiva femminile, in un’opera che a prima vista narra le scorribande amorose di un eroe.

Più andavo avanti leggendo La storia di Genji più mi trovavo a riflettere su come le dinamiche di genere e di potere si ripetono da secoli nella cultura giapponese

Fin dalla prime righe della Storia di Genji, l’autrice si focalizza sul modo in cui le donne guidano il destino dell’eroe. Facciamo la conoscenza della madre di Genji, “una donna di lignaggio alquanto insignificante” che ha “rapito il cuore dell’imperatore e goduto del suo favore su tutte le altre mogli e concubine imperiali”.

Anche se tiene in mano il cuore dell’imperatore, la donna è “disprezzata e vituperata” dalle altre mogli, in particolare dalla madre del principe ereditario. Quando nasce Genji, “una gemma pura e splendente come nulla al mondo”, l’assetto politico della corte è immediatamente sconvolto.

L’importanza delle madri imperiali nella Storia di Genji è sorprendente, visto che oggi le donne sono considerate una nota a margine nelle fortune della famiglia reale del Giappone, la monarchia regnante più antica del mondo. L’imperatore segue costumi più moderni e ha una sola moglie (le concubine imperiali sono state abolite nel novecento), ma chi nasce principessa una volta sposata deve abbandonare la famiglia e rinunciare ai titoli reali. Di conseguenza, sono pochissime quelle che partoriscono eredi legittimi. Alle donne, del resto, non è consentito salire al trono.

Nella Storia di Genji, la successione reale è una battaglia politica per il potere. Oggi è una battaglia esistenziale: nella generazione più giovane della famiglia imperiale c’è un solo maschio.

Nonostante periodici dibattiti l’ala conservatrice del partito al governo in Giappone si oppone all’eventualità di far salire al trono le donne o almeno di farle rimanere in famiglia come capostipiti di legittime linee dinastiche. L’opinione pubblica giapponese, invece, è in gran parte favorevole a una riforma delle leggi reali, non solo per salvare la famiglia imperiale dall’estinzione, ma anche come simbolo della parità tra uomini e donne.

I tentativi di promuovere i diritti delle donne in Giappone, e l’istinto dei conservatori di reprimerli, erano al centro dei miei pensieri mentre leggevo – spesso con orrore – i passaggi in cui Genji e altri uomini irrompono nelle camere da letto delle loro amanti. È difficile non condividere l’interpretazione di Jakuchō Setouchi, un monaco buddista che alla fine degli anni novanta ha tradotto una delle edizioni più vendute in Giappone della Storia di Genji e ha carat­terizzato come stupri gran parte delle scene di sesso nel romanzo.

Come altro considerare la scena in cui Genji aggredisce una donna durante una festa in onore dell’imperatrice (una delle sue amanti favorite) e del principe ereditario (suo figlio illegittimo)? “Non ti servirà a nulla chiamare qualcuno”, le assicura, “poiché tutti si sottomettono a me. Perciò fai silenzio”.

Il modo in cui nel romanzo molti personaggi femminili reagiscono alle avances dei loro corteggiatori evoca sinistramente ciò che tante donne che ho intervistato mi hanno raccontato sulle molestie sessuali.

Nella scena della festa, la ragazza è terrorizzata quando Genji la insegue nel corridoio, ma non fa nulla per resistergli perché “non voleva apparire fredda o rigida”. Ancora oggi, le donne temono di offendere qualcuno: non solo gli uomini che le considerano prede, ma anche amici e parenti o chiunque possa criticarle sui social network.

Quanto è tristemente familiare, perciò, il capitolo in cui Yugiri, uno dei figli di Genji, prova a sedurre una principessa e dà per scontato che lei gli si conceda semplicemente perché l’ha spiata dalla porta della sua camera da letto. Perfino il fatto che la principessa risponda – con un cortese diniego, per giunta – a una poesia che lui le ha consegnato rafforza il senso di legittimazione sessuale del maschio.

Quando apprende che Yugiri è offeso da questo rifiuto, la madre della principessa la punisce. “È stata un’imprudenza da parte sua frapporre tra sé e lui solo un pannello scorrevole, ed è un’assoluta vergogna che gli abbia permesso di vederla tanto facilmente”, si lamenta la donna con un inserviente.

Naturalmente, leggere il Genji come una “narrazione di stupro” è anacronistico. Nel romanzo gli uomini si comportano in modo perfettamente conforme alla cultura di corte poligama dell’epoca. Una lettura in chiave #MeToo, per altro, rischia di precludere la possibilità di capire l’amore che sboccia tra Genji e molte delle sue amanti. “Va bene dare una lettura democratica del Genji, portare nel testo i propri pregiudizi e il proprio mondo”, osserva Melissa McCormick, professoressa di arte e cultura giapponese all’università di Harvard, “ma allo stesso tempo non dobbiamo rinunciare all’opportunità di cogliere indizi di qualcos’altro”.

Perfino la relazione che in un certo senso è più difficile da digerire, quella con Murasaki, che Genji comincia a preparare come sua amante quando lei è ancora una bambina, cresce fino a evolversi in un matrimonio di affinità spirituale. Nel suo modo poliamoroso, Genji le rimane strenuamente fedele fino alla morte.

Saeko Kimura, professoressa di letteratura giapponese all’università femminile di Tsuda, a Tokyo, dice che quando le studenti si mostrano disgustate davanti alle seduzioni seriali di Genji, le invita a pensare a lui come a un idolo del pop o un attore.

Non è un paragone improprio. L’idea di mascolinità rappresentata da Genji è riconoscibile anche nel Giappone di oggi. A differenza dei personaggi dell’epica europea, Genji “non viene rappresentato come un uomo muscoloso capace di sollevare un masso troppo pesante anche per dieci uomini o come un guerriero in grado di sgominare da solo schiere di nemici”, scrive il critico letterario Donald Keene in Chronicles of my life: an american in the heart of Japan (Cronache della mia vita: un americano nel cuore del Giappone).

Il fatto che Genji sia ripetutamente descritto come il “principe splendente”, un uomo “talmente bello che accoppiarlo con le più raffinate dame di corte non gli avrebbe reso giustizia” e che “era come l’albero in fiore all’ombra del quale anche il più rozzo montanaro si delizia a riposare”, mi fa pensare ai cosiddetti danshi asessuati, i giovani uomini che sfumano i confini tra l’estetica e la moda maschile e femminile. Nella bellezza di Genji non faccio fatica a ritrovare il protagonista di un anime o il cantante di un gruppo J-pop.

In definitiva, quel che rende la storia così potente ai miei occhi è il modo in cui Murasaki riesce a esprimere i pensieri e i sentimenti femminili. All’epoca, le donne probabilmente costituivano buona parte del suo pubblico. Secondo gli storici della letteratura, tuttavia, anche molti illustri uomini di corte avevano letto il libro.

Sapendo questo, il modo in cui l’autrice porta in primo piano le emozioni delle donne – paura, sofferenza, delusione, invidia, ansia – sembra quasi sovversivo. Ancora oggi, in Giappone, le donne non hanno potere nella politica e negli affari, ma sono una forza trainante nella narrativa: scrittrici come Mieko Kawakami, Sayaka Murata, Yōko Ogawa e Miri Yū hanno conquistato importanti premi letterari e rappresentano l’avanguardia della letteratura giapponese moderna nel mondo. Parlano di come le loro protagoniste si confrontano con canoni punitivi di bellezza, l’aspettativa della maternità, l’ambizione (o la mancanza di ambizione) e l’aggressione sessuale: temi che, se affrontati con altre platee, le esporrebbero alla pubblica gogna.

Nelle pagine del romanzo, la stessa Murasaki accenna alla potenza della narrativa. Quando Genji flirta con una donna che ha presentato a tutti come la sua figlia perduta (quando, in realtà, è la figlia del suo migliore amico nonché occasionale rivale in amore; sì, è tutto abbastanza imbarazzante) la prende in giro perché legge troppe storie d’amore.

“Sai perfettamente che queste storie hanno solo un collegamento molto labile con la realtà, eppure lasci che il tuo cuore sia mosso da parole banali e ti fai talmente coinvolgere dalle trame che le copi senza nemmeno curarti del groviglio che si è formato nei tuoi capelli in questo clima umido”, dice Genji alla giovane Tamakazura.

Quando Genji descrive i racconti come semplici “invenzioni e bugie”, Tamakazura gli ribatte con arguzia: “Non c’è dubbio che qualcuno così versato nel mentire possa essere incline a trarre questa conclusione… per ogni genere di motivo”, dice a Genji. “Rimango convinta, tuttavia, che queste storie siano alquanto veritiere”. Intenzionato a prolungare lo scambio galante, Genji ammette che le storie esprimono “cose di questo mondo” e che “la conclusione ottusa che tutti i racconti siano falsità non coglie il nocciolo della questione”. Vista la perdurante fortuna della Storia di Genji, non è difficile pensare che nella vita, come nella finzione, l’ultima parola l’abbia una donna. ◆ fas

Motoko Rich è una giornalista statunitense. È capo della redazione di Tokyo del New York Times, il giornale in cui questo articolo è uscito con il titolo “The tale of Genji” is more than 1.000 years old. What explains its lasting appeal?

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Questo articolo è uscito sul numero 1521 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati