Nelle note al suo poemetto La regina Mab, del 1813, Percy Bysshe Shelley dichiara che “l’amore è libero”. Era un credo che il poeta seguiva anche nelle sue relazioni intime: rifiutava la monogamia e provò a convincere le donne della sua vita a fare lo stesso. Non molti, oggi, rimarrebbero colpiti. Nei paesi occidentali la maggior parte delle persone ha rapporti sessuali prima di sposarsi e, secondo un sondaggio del 2020, più di un quarto degli statunitensi adulti impegnati in una relazione non è monogamo. Ma l’amore libero – cioè l’idea che sia agli uomini sia alle donne dovrebbe essere permesso avere rapporti sessuali fuori del matrimonio e portare avanti diverse relazioni nello stesso momento, senza essere giudicati o perseguitati – non è sempre esistito.

Le persone, ovviamente, hanno sempre avuto rapporti sessuali fuori del matrimonio. E gli uomini, in particolare, non hanno mai sentito il bisogno di nascondersi. Ma in Europa per secoli nessuno ha mai difeso apertamente una maggiore libertà sessuale per gli uomini e per le donne, né si è pensato a forme di relazione alternative. Con un’unica eccezione: alcuni difendevano la poligamia maschile, ammessa dalla Bibbia. Il poeta e pensatore del seicento John Milton ne aveva parlato con discrezione nelle pagine del suo De doctrina christiana, mentre il suo contemporaneo tedesco Johann Leyser aveva scritto e predicato molto sull’argomento. Poi, all’improvviso, tutto cambiò. Le persone cominciarono a mettere apertamente in discussione sia il matrimonio sia la monogamia. Ma come successe?

Tutto cominciò in Francia. Con la loro sfida al potere assoluto di re Luigi XVI, i rivoluzionari galvanizzarono i radicali e terrorizzarono i conservatori, mettendo in discussione tutti i valori tradizionali. Da un momento all’altro, la morale sessuale diventò oggetto di dibattito pubblico. All’atto pratico, i rivoluzionari fecero solo dei cambiamenti modesti alle leggi in materia di sessualità: liberalizzarono il divorzio e depenalizzarono il sesso tra omosessuali senza dirlo. Però la rivoluzione francese ebbe un effetto elettrizzante sul pensiero radicale in tutto il mondo e incoraggiò le persone a mettere in discussione i valori della società in cui vivevano. All’epoca, in Gran Bretagna gli intellettuali radicali erano un gruppo abbastanza ristretto che faceva capo all’editore Joseph Johnson. Gli autori della sua scuderia si riunivano nel suo appartamento londinese per mangiare, bere e discutere i temi del giorno. Una delle personalità più brillanti di questo circolo era Mary Woll­stone­craft. Nipote di un affermato tessitore e figlia di un padre inetto e alcolizzato, Woll­stone­craft era nata in una famiglia che aveva salito in fretta la scala sociale ed era caduta in disgrazia altrettanto rapidamente. Costretta a guadagnarsi da vivere senza un’istruzione formale, aveva diretto una scuola e fatto la governante, per poi arrivare a Londra nel 1787, determinata a diventare una scrittrice. Carismatica e intellettualmente affamata, Woll­stone­craft era un’ottima conversatrice e stregava gli autori, quasi tutti uomini, del circolo di Johnson. Grazie a lei, le questioni di genere e sessualità diventarono un tema centrale del dibattito.

Woll­stone­craft era una sostenitrice entusiasta della rivoluzione francese. Nel 1790 scrisse La rivendicazione dei diritti degli uomini per difendere i rivoluzionari dagli attacchi di Edmund Burke e di altri conservatori. Poi nel 1792 pubblicò il suo capolavoro femminista La rivendicazione dei diritti della donna, in cui denunciava la doppia morale in virtù della quale il libertinismo maschile era tollerato mentre la vita delle donne usciva distrutta da qualsiasi trasgressione sessuale. La soluzione che proponeva Woll­stone­craft era una maggiore castità per gli uomini e per le donne. Tuttavia, il suo obiettivo fondamentale era sostenere la causa dell’istruzione femminile. Solo quando donne e uomini avranno pari dignità, osservava, il matrimonio potrà diventare una vera unione invece di una forma di servitù.

Al di là dei singoli argomenti, Woll­stone­craft spinse le persone ad allargare le vedute sui diritti e la libertà, sottolineando che le relazioni intime erano una questione politica e sfidando i suoi lettori a chiedersi come applicare alla sfera privata gli ideali della rivoluzione. Se, come suggeriva, c’era un parallelo tra la tirannia politica e quella domestica, era difficile sfuggire alla conclusione che anche le relazioni tra i sessi dovevano cambiare. Woll­stone­craft incoraggiò altri a sviluppare tesi che andavano oltre la sua, e diede un esempio anche con la sua vita personale. Uno degli autori pubblicati da Johnson, Thomas Holcroft, nel suo romanzo Anna St. Ives, del 1792, mostrava l’influenza del femminismo di Woll­stone­craft e delle idee più radicali della rivoluzione francese. Il libro fu pubblicato lo stesso anno della Rivendicazione dei diritti della donna, ma Holcroft aveva avuto un’anticipazione delle tesi di Woll­stone­craft nelle discussioni a casa di Johnson. A differenza del suo caro amico William God­win, infastidito dai discorsi e dalla personalità dominante di Woll­stone­craft, Holcroft ne era rimasto affascinato. Qualche tempo dopo le scrisse una lettera appassionata, definendola “la filosofa che ricostruisce, confronta e combina i fatti a beneficio dei tempi futuri”.

Il libro di Holcroft romanza l’ideale di Woll­stone­craft, quello di una donna istruita che coltiva un’amicizia con un uomo altrettanto illuminato, basata sulla ragione e su valori condivisi. La protagonista, Anna, passa il tempo a conversare con il suo amico Frank, immaginando una società perfetta. I due decidono che in qualsiasi futura utopia la proprietà privata dovrebbe essere abolita. Coke, un libertino dissoluto che vuole sedurre Anna, suggerisce provocatoriamente un possibile corollario di questa tesi: poiché il matrimonio non è altro che una forma di proprietà, non dovrebbe essere anch’esso abolito? Per aiutare Anna a vivere secondo i suoi ideali, Coke si offre generosamente di andare a letto con lei. Frank e Anna riconoscono la forza dell’argomentazione – il matrimonio è effettivamente una forma deplorevole di proprietà – ma lei non accetta la proposta. E conclude che, poiché la trasgressione sessuale compromette la reputazione di una donna, l’abolizione della monogamia dovrà aspettare finché la società non sarà diventata più illuminata. Anna St. Ives, noioso e didascalico, oggi è una lettura molto faticosa. Woll­stone­craft, tuttavia, ne apprezzò l’affinità con i suoi ideali e ne scrisse una generosa recensione sulla rivista mensile di Johnson, Analytical Review.

Il romanzo fa sostenere la tesi dell’equiparazione tra comunismo e amore libero al personaggio del cattivo, ma l’idea era stata oggetto di serie discussioni tra Holcroft e God­win, che all’epoca stava scrivendo il suo trattato Inchiesta sulla giustizia politica, essenzialmente una difesa dell’anarchismo. Nel saggio God­win afferma che il matrimonio è una forma riprovevole di proprietà esercitata su un altro essere umano, lo definisce “il più odioso di tutti i monopoli”. Sostiene che il matrimonio è una promessa e far rispettare una promessa con la forza è intrinsecamente ingiusto. Le persone dovrebbero essere libere da tutti i vincoli esterni alla loro libertà politica e sociale, e avere il diritto di cambiare idea.

In Europa per secoli nessuno ha mai difeso una maggiore libertà sessuale per gli uomini e per le donne, né si è pensato a forme di relazione alternative

God­win conclude che il matrimonio dovrebbe essere abolito, come la monogamia. Le persone dovrebbero essere libere di avere tutte le relazioni che vogliono. Chiarisce, tuttavia, che il sesso è una cosa che a lui non piace e non dovrebbe piacere neanche agli altri. In una società in cui il governo e la proprietà saranno assenti, dice, gli esseri umani si evolveranno in entità più raffinate che non sentiranno il bisogno di “congressi sensuali”. God­win è stato il primo a difendere apertamente il poliamore, ma è riuscito anche a togliergli tutto il divertimento.

Il trattato di God­win fu pubblicato nel 1793 e diventò un successo. Dal suo attacco al matrimonio scaturì un nuovo genere di romanzi in cui seduttori senza scrupoli usano le loro armi retoriche per convincere signore virtuose ad andare a letto con loro.

Alla fine del 1792, Woll­stone­craft si trasferì in Francia per assistere direttamente alla rivoluzione. Lì s’innamorò del volgare avventuriero nordamericano Gilbert Imlay. Nel 1794 nacque Fanny, figlia di Woll­stone­craft e Imlay. Fedele ai suoi princìpi contro il matrimonio, lui abbandonò Woll­stone­craft poco dopo la nascita della bambina. Lei tornò in Inghilterra, dove cominciò una nuova relazione con God­win. I due non avrebbero potuto essere più diversi: lei era passionale e carismatica, lui austero e pedante, ma l’unione funzionò, anche grazie al fatto che vivevano in appartamenti separati. Woll­stone­craft rimase di nuovo incinta e, per risparmiare al nascituro lo stigma dell’illegittimità, la coppia decise di sposarsi. L’incoerenza filosofica della scelta mise in forte imbarazzo God­win. Un amico riferì che era “non poco a disagio nel ricevere le consuete congratulazioni” per il matrimonio.

Tragicamente, Woll­stone­craft morì di febbre puerperale poco dopo la nascita della sua seconda figlia, Mary Woll­stone­craft God­win (si ammalò durante il parto perché il chirurgo non si era lavato le mani). Dopo la sua morte, God­win fece pubblicare due opere che avrebbero plasmato l’immagine della scrittrice tra i contemporanei: Memorie dell’autrice di “Rivendicazione dei diritti della donna” (1798), una breve storia della sua vita, e un’edizione postuma dei suoi scritti, tra cui il romanzo incompiuto Maria, or the wrongs of woman (“Maria, o i torti della donna”, 1798). Secondo God­win, le memorie dovevano essere una difesa della reputazione di Woll­stone­craft ma, se le intenzioni erano quelle, era difficile trovare qualcosa di meno riuscito. Il libro rendeva di pubblico dominio la sua relazione con Imlay e rivelava che al momento della nascita di Fanny non era sposata.

I critici distorsero il femminismo di Woll­stone­craft, interpretandolo come un rifiuto della monogamia. Uno scrisse: “Dobbiamo osservare che la teoria di Mary, cioè che è diritto delle donne cedere alle loro inclinazioni con ogni uomo di loro gradimento, è vecchia come la prostituzione”. Un’ulteriore riprova, ai loro occhi, era il romanzo incompiuto, che ribolliva d’indignazione per le sorti dell’eroina maltrattata dal marito e rinchiusa in un ospedale psichiatrico. “Il matrimonio mi ha imprigionato per la vita”, dice la protagonista. Nel 1799, la scrittrice religiosa Hannah More definì The wrongs of woman “una rivendicazione dell’adulterio”.

Percy Bysshe Shelley non aveva ancora vent’anni quando s’imbatté nelle opere di Mary Woll­stone­craft e William God­win. Aveva un talento prodigioso per la poesia, il viso di un angelo e un appetito insaziabile per le polemiche. Come osservò sua moglie, era “uno spirito di un altro mondo”. Cacciato da Oxford per il suo dichiarato ateismo, si avvicinò a diverse cause politiche radicali. La lettura di Woll­stone­craft e God­win lo convinse, se mai ce ne fosse stato bisogno, che la monogamia non faceva per lui. Nel 1812 dichiarò di “non avere dubbi sui mali del matrimonio: Woll­stone­craft lo spiega fin troppo bene”.

Manuele Fior

Nel 1812, dopo aver scoperto, con grande sorpresa, che God­win era ancora vivo, Shelley volle incontrarlo. Qualche mese dopo conobbe sua figlia Mary, che all’epoca aveva quindici anni, e ne fu immediatamente stregato. Shelley, che allora era sposato, passava le giornate a parlare di filosofia con God­win, poi la sera scappava via con la ragazza. Mary lo portò nel suo rifugio preferito: il cimitero di Old Saint Pancras, in cui era sepolta sua madre. Probabilmente fecero per la prima volta l’amore sulla sua tomba. Shelley diede per scontato che Mary, figlia di due grandi nemici del matrimonio convenzionale, condividesse il suo odio per la monogamia. Ma anche se riuscì a convincerla a fuggire con lui, i due avevano idee molto diverse su che forma dovesse avere la loro relazione. Poco dopo che la coppia aveva lasciato l’Inghilterra, Shelley invitò Mary a leggere uno dei suoi libri preferiti, The empire of the nairs, or the rights of women (L’impero dei nair, o i diritti delle donne) del 1811. Il romanzo era stato scritto dal più radicale degli adepti dell’amore libero di Woll­stone­craft, l’eccentrico aristocratico James Henry Lawrence. Nato in Giamaica nel 1773 da una ricca famiglia di piantatori, Lawrence era un amico di God­win, con cui si era incontrato diverse volte al British museum. Il romanzo, che nello stile rendeva omaggio a Woll­stone­craft, era una raffigurazione utopistica del popolo nair di Malabar, sulla costa sudoccidentale dell’India. Lawrence descrive i nair come un popolo dedito a una libertà sessuale senza limiti, e invoca l’adozione del loro sistema di valori. Nell’introduzione, Lawrence riprende l’attacco di Woll­stone­craft alla doppia morale sulla castità, invertendone però le conclusioni: “Lasciamo che ogni donna viva senza il controllo dell’uomo, e goda di ogni libertà di cui finora hanno goduto solo i maschi; lasciamo che scelga e cambi amante come desidera”. Le parole conclusive del romanzo erano un saluto a Woll­stone­craft: “Viva i diritti delle donne!”.

Shelley scrisse a Lawrence una serie di lettere devote, dichiarandosi “un perfetto adepto delle sue dottrine”. Mary era meno convinta e Shelley non riuscì mai a convertirla al suo ideale dell’amore libero. I tentativi di coinvolgerla in una relazione con il suo amico Thomas Hogg andarono e vuoto, e lei, caso più unico che raro, riuscì a mantenere una relazione puramente platonica con il poeta lord Byron, noto sessuomane.

La contrarietà di Shelley alla monogamia era radicata in una filosofia dell’amore complessa e originale. Che ne fosse consapevole o no, la sua visione era molto più vicina a quella di Woll­stone­craft che a quella degli altri suoi idoli, God­win e Lawrence. Shelley rifiutava la mera promiscuità, come scrisse in una recensione del romanzo di Hogg The me­moirs of prince Alexy Haimatoff (1813). L’autore adorava Shelley e il libro fu un goffo tentativo di metterne in forma narrativa gli ideali. Il poeta, però, scrisse di non poter considerare il sostegno del romanzo “per il concubinaggio promiscuo senza orrore e odio”. Shelley era convinto che il sesso non potesse essere separato dall’amore, che vedeva in termini elevati, perfino spirituali. Sosteneva che siamo spinti verso l’amore dalla bellezza che vediamo negli altri, “nel pensiero, nell’azione o nella persona”.

Questa dottrina era ispirata al Simposio di Platone, alla cui traduzione si dedicò per tutta l’estate del 1818. In Platone, Shelley trovò la conferma dell’idea di Woll­stone­craft che il vero amore fosse un’unione tra uguali. Secondo lui c’era qualcosa di quasi soprannaturale in questo legame. Scrisse: “Vorremmo che i nervi dell’altro vibrassero al vibrare dei nostri, che la luce dei loro occhi s’incendiasse all’istante e si mescolasse e fondesse alla nostra, che labbra di ghiaccio immoto non rispondessero a labbra tremanti e brucianti del miglior sangue del cuore”. Il sesso, diceva, era una parte naturale e integrante di questa unione mistica. Quando siamo innamorati, la passione fisica segue in modo irresistibile. La castità era da condannare come “una superstizione monacale ed evangelica”.

Anche Woll­stone­craft rifiutava la promiscuità, a cui Imlay invece era assai dedito. Tuttavia, come dimostrava la nascita di Fanny, abbandonò la dottrina della castità, arrivando perfino a guardarla con disprezzo. Mentre era a Parigi, una donna francese, nel tentativo d’impressionarla (o così pensava) ripetendo a pappagallo le sue idee, le disse che non vedeva la necessità d’impegnarsi in relazioni fisiche. Woll­stone­craft rispose sarcasticamente: “Tant pis pour vous” (peggio per voi).

Woll­stone­craft, come Shelley, era convinta che la relazione ideale nascesse da un’unione tra amore romantico e passione fisica. Anche lei vedeva la questione in termini quasi mistici. Disse a Imlay che lui non avrebbe mai conosciuto “l’ineffabile diletto, il piacere squisito che scaturisce dall’unione tra affetto e desiderio, quando l’anima intera e i sensi si abbandonano a una vivace immaginazione che rende ogni emozione delicata e inebriante”. Secondo Woll­stone­craft, solo questa fusione di amore e sesso garantiva “la caratteristica distintiva del genio, il fondamento del gusto, e quello squisito godimento delle bellezze della natura, di cui il comune gregge di mangiatori, bevitori e procreatori di figli certamente non può avere idea”. Shelley non avrebbe saputo dirlo meglio.

Manuele Fior

Il poeta era invece convinto che la sua filosofia platonica dell’amore implicasse un rifiuto dell’esclusività sessuale. C’innamoriamo della bellezza ovunque la percepiamo, anzi non possiamo evitare di farlo, e la bellezza si può trovare in tante persone diverse. Quindi l’amore dev’essere libero. Shelley scrive che mentre l’amore “nel suo significato comune comporta un monopolio egoista”, il vero amore “avvizzisce sotto la costrizione, la sua stessa essenza è la libertà, non è compatibile con l’obbedienza e la gelosia, né con la paura”. E poiché sesso e amore sono inseparabili, ogni vero amante della bellezza dev’essere anche poliamoroso.

Woll­stone­craft non la pensava così. Certamente accettava il fatto che non sempre l’amore dura per tutta la vita. Prima di trasferirsi in Francia, disse scherzando: “Effettivamente a Parigi potrei prendere marito per il tempo che dura e divorziare quando il mio cuore ozioso vorrà di nuovo accoccolarsi con i suoi vecchi amici”. Poi, quando Imlay tornò in Inghilterra e ci si stabilì con un’altra donna, propose che Mary, lui e la sua amante andassero a vivere tutti nella stessa casa. Cominciarono addirittura a cercarla insieme, prima che la nuova compagna di Imlay cambiasse idea. Un ammiratore di Woll­stone­craft, il conte Gustav von Schlabrendorf, che aveva provato (invano) a sedurla a Parigi quando era impegnata con Imlay, si lamentò che “Woll­stone­craft era dell’opinione che la castità consistesse nella fedeltà e che fosse poco casto associarsi con due persone per volta”.

Rispetto a God­win e Lawrence, Shelley si spinse molto oltre nel mettere in pratica i suoi ideali. Più volte tentò di creare una comunità di persone affini e dedite alla sessualità aperta. Il più famoso di questi suoi esperimenti coinvolse Byron, Mary e la sua sorellastra, Claire Clairmont, che nel 1816 trascorsero l’estate in Svizzera insieme.

Clairmont, che aveva seguito gli Shelley nella loro fuga, all’inizio aveva condiviso la concezione dell’amore di Percy, e coltivava una relazione pericolosamente stretta, con ogni probabilità di natura sessuale, con il cognato. Hogg parlava abitualmente di Shelley e delle sue “due mogli”. Clairmont sedusse anche Byron, attirandolo nel loro gruppo. A loro si unì inoltre il medico di Byron, John Polidori, ma i suoi sfortunati tentativi di sedurre Mary sfociarono solo in una caviglia slogata.

Nel tempo che passò insieme, il gruppo scrisse grande letteratura, in particolare Frankenstein (1818), ma a livello personale le cose non andarono altrettanto bene. Clairmont ebbe una figlia con Byron, Allegra. Lui ripudiò Clairmont, ottenne la custodia della bambina, poi la abbandonò in un convento. Allegra morì nel 1822, ad appena cinque anni. Molto tempo dopo la morte di Shelley e Byron, Clairmont fece un resoconto feroce del tempo che aveva trascorso con loro. “Sotto l’influsso della dottrina e del credo dell’amore libero”, scrive, “ho visto i primi due poeti d’Inghilterra diventare mostri di menzogna, cattiveria, crudeltà e inganno”.

Shelley morì nel 1822 e, nel Regno Unito, le sue idee sull’amore libero furono in gran parte dimenticate man mano che il paese scivolava verso il conservatorismo dell’epoca vittoriana.

Quello che oggi conosciamo come il movimento dell’amore libero nacque negli Stati Uniti negli anni cinquanta dell’ottocento, e fu ispirato dalle idee del socialista francese Charles Fourier e dell’anarchico statunitense Josiah Warren. I loro obiettivi erano più vicini a quelli di Woll­stone­craft che a quelli di Shelley: si battevano perché le donne potessero accedere con più facilità al divorzio e al controllo delle nascite, ma non mettevano in discussione le norme sociali sulla monogamia.

Le idee più radicali di Shelley avrebbero dovuto aspettare un secolo prima di trovare un seguito più vasto. Solo con la rivoluzione sessuale degli anni sessanta del novecento i gruppi radicali avrebbero trasformato “abbasso la monogamia” in un grido di battaglia, rendendo l’amore libero parte integrante della controcultura.

Il ventunesimo secolo ha sdoganato la non-monogamia. Oggi ci sono moltissime opzioni, dal poliamore agli scambi di coppia, dagli “scopamici” alla cosiddetta anarchia relazionale, la cui struttura è “la mancanza stessa di struttura”, qualsiasi cosa significhi. I vantaggi di queste scelte sono discussi apertamente, anzi potremmo dire incessantemente, sui mezzi d’informazione e online.

Indubbiamente Shelley avrebbe osservato questo caotico paesaggio con un certo orgoglio. Ma cosa ne avrebbe pensato Woll­stone­craft? È difficile dirlo. Probabilmente, avrebbe reagito con la stessa compostezza che dimostrò di fronte alle scappatelle compulsive di Imlay. Rendendosi conto che lui non sarebbe mai cambiato, gli disse semplicemente: “Sii felice!”. ◆ fas

Neil McArthur è professore di filosofia e direttore del Centro per l’etica professionale e applicata dell’università di Manitoba, in Canada. Questo articolo è uscito sulla rivista online Aeon con il titolo The invention of free love.

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Questo articolo è uscito sul numero 1493 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati