All’una di notte, molte ore prima che le barche escano a pescare, François Habiyambere, un venditore di prodotti ittici all’ingrosso del distretto di Rubavu, in Ruanda, va a prendere il ghiaccio. In tutto il paese c’è una sola macchina che produce scaglie di ghiaccio leggere come fiocchi di neve, indispensabili per tenere al fresco la tilapia. Questo ghiaccio avvolge i pesci come una coperta, senza schiacciare la loro carne delicata. La macchina per produrlo è stata comprata di seconda mano da uno stabilimento ugandese. Imponente e arrugginita, è stata messa dietro una stazione di servizio lungo la strada che porta al mercato di Rusizi, nel sudovest del paese, vicino al confine con la Repubblica Democratica del Congo (Rdc). La quantità di ghiaccio che produce ogni giorno è notevolmente inferiore a quella necessaria ai cinque venditori che si riforniscono qui.
“Ce n’è abbastanza solo per chi arriva primo”, mi dice Habiyambere un giorno di maggio del 2022. “Per gli altri no”, aggiunge con rassegnazione. Per raggiungere la macchina per il ghiaccio da casa sua ci vogliono cinque ore e mezza: ecco perché la sua giornata comincia in piena notte. Habiyambere viaggia su uno dei pochi furgoni refrigerati del Ruanda. A guidarlo è Jean de Dieu Umugenga, un uomo robusto di 28 anni, che trasporta un carico di cipolle e carote al mercato. Poco dopo le tre di notte escono di casa i primi ciclisti. Nelle campagne ragazzi muscolosi partono a bordo di pesanti biciclette senza marce, che a volte s’intravedono a malapena sotto carichi comicamente sovradimensionati: caschi di banane verdi legati insieme sul portapacchi; sacchi di pomodori impilati; decine di polli vivi ammassati a formare delle piramidi; fasci di manioca talmente compatti che, nel chiarore dell’alba, sembrano arbusti. Nelle successive quattro o cinque ore, mentre le temperature si alzano, i ciclisti percorreranno centinaia di chilometri, trasportando prodotti alimentari dalle campagne ai mercati della capitale Kigali.
Il Ruanda è chiamato pays des mille collines, il paese delle mille colline, ma saranno almeno diecimila. Le loro pendici terrazzate, di un verde lussureggiante, svettano sopra la nebbia mattutina che riempie le valli. I ciclisti non pedalano quando sono in discesa, poi spingono a mano le bici in salita. Sulla strada asfaltata, qualcuno riesce a farsi trainare dal furgone guidato da Umugenga.
Verso le cinque e mezza, alle prime luci dell’alba, i lavoratori della cooperativa ortofrutticola di Rulindo, un distretto a nordovest di Kigali, raggiungono i campi. Le campagne sono divise in appezzamenti piccoli come tanti francobolli, in cui si coltivano piante di peperoncini piccanti e di fagiolini in file regolari. La fertile terra rossa del fondovalle è perfettamente libera dalle erbacce, ogni centimetro quadrato è curato meticolosamente.
A questo punto, Habiyambere e Umugenga hanno già percorso più di 220 chilometri costeggiando la sponda orientale del lago Kivu, dove si concentra l’industria ittica del Ruanda, un paese senza sbocchi sul mare. Le acque del lago sono punteggiate di isolotti rocciosi e di canoe di legno tradizionali per la pesca del sambaza, un pesce simile alla sardina che di solito si mangia fritto e accompagnato da birra. Le canoe viaggiano legate insieme a gruppi di tre, con le reti fissate a pali di eucalipto che sporgono dalle prue e dalle poppe come antenne di insetti.
Arrivati a Rusizi, i due si fermano prima al mercato per scaricare le verdure, che saranno comprate da commercianti congolesi. Poi puliscono scrupolosamente l’interno del camion, ricavando un prezioso mucchietto di ghiaccio a scaglie. Alle sette meno un quarto si parcheggiano all’ombra, giù al molo, sonnecchiando in attesa dell’arrivo dei pescatori.
La raccolta del latte
Più a nord, poco lontano dal confine con l’Uganda, in una stalla, Charlotte Mukandamage pulisce la mammella di una mucca. Seduta su una tanica di plastica, munge il latte caldo e schiumoso in un secchiello di metallo da cinque litri. Poi scende con attenzione per un sentiero di fango ripido e scivoloso sul fianco della collina, fino a un cartello con l’immagine di una mucca, dove c’è una piccola folla ad attenderla.
La mattina che trascorro con Mukandamage ci raggiunge un altro gruppo di persone, tra cui un anziano con un cappello fedora in testa e un grande secchio di plastica rosa in mano, e una bambina di sette anni che trasporta un secchio di latta giallo, alto quasi quanto lei. Il sole del mattino fa luccicare i tetti di lamiera delle case, e i pennacchi di fumo delle stufe a legna si mescolano alla nebbia che si alza dalle colline. Poco dopo spunta un uomo calvo con gli stivali di gomma neri, Pierre Bizimana, agricoltore e raccoglitore di latte part-time. Spinge una bicicletta su cui sono appesi due bidoni d’acciaio da cinquanta litri. Accompagno Bizimana a prendere piccoli quantitativi di latte (da due a quattro litri) da una decina di contadini. Due ore dopo andiamo nella vicina città di Gicumbi, dove c’è un centro di raccolta del latte dotato di un frigorifero industriale.
Alle 9.30 Bizimana torna a casa per occuparsi della sua mucca e del suo piccolo campo di sorgo, mais e fagioli. A centinaia di chilometri di distanza Habiyambere e Umugenga ripartono con il camion carico di pesce fresco per raggiungere il mercato di Rubavu. Anche alcuni ciclisti stanno già tornando indietro, spesso con un passeggero sul portapacchi al posto della manioca o dei polli. I contadini della cooperativa Rulindo rientrano dai campi con casse di peperoni e fagiolini appena raccolti, che il giorno dopo saranno spediti nel Regno Unito su un volo RwandAir. Nell’attesa le cassette sono accatastate in una cella frigorifera alimentata a energia solare in cui la temperatura è di diciotto gradi, almeno sette in più di quella consigliata.
Il sole del mattino fa luccicare i tetti di lamiera delle case, e il fumo delle stufe a legna si mescola alla nebbia che si alza dalle colline
Secondo le stime dell’International institute of refrigeration, ogni anno nel mondo si sprecano 1,6 miliardi di tonnellate di cibo. Con sistemi di refrigerazione adeguati se ne potrebbe salvare il 30 per cento, la quantità necessaria a sfamare 950 milioni di persone. Uno spreco del genere può fare la differenza tra la vita e la morte in un paese come il Ruanda, in cui secondo l’Organizzazione mondiale della sanità meno di un bambino su cinque mangia a sufficienza. Il Ruanda è tra i paesi più poveri del mondo: il reddito lordo pro capite è di 2,28 dollari al giorno e più di un terzo dei bambini con meno di cinque anni soffre di malnutrizione. Anche se è difficile calcolare quanto incida la proliferazione dei batteri fuori dai frigoriferi sulla diffusione dei disturbi gastrointestinali e delle intossicazioni alimentari, si stima che la diarrea, da sola, sia costata al Ruanda tra il 2,5 e il 5 per cento del suo pil. Il presidente Paul Kagame si è impegnato entro il 2050 a far entrare il paese nel gruppo degli stati con un reddito alto (cioè con un reddito nazionale pro capite superiore a 13.205 dollari all’anno, secondo i parametri della Banca mondiale). Ma solo recentemente ha preso coscienza del fatto che non può raggiungere l’obiettivo senza investire sulla refrigerazione.
Nel 2018 il Ruanda è stato il primo paese nell’Africa subsahariana a inaugurare una strategia nazionale per la refrigerazione, e due anni dopo ha lanciato il progetto Africa centre of excellence for sustainable cooling and cold-chain (Aces), nato dalla collaborazione tra il Ruanda, il Regno Unito e il Programma ambientale delle Nazioni Unite (Unep). L’Aces ha sede all’università del Ruanda, a Kigali, che partecipa a questo programma insieme ad altri atenei britannici. La sua missione è ampia, va dalla ricerca alla formazione, dall’avvio di nuove aziende alla progettazione e alla certificazione dei sistemi di refrigerazione.
Tra chi lavora nel settore dello sviluppo internazionale, il Ruanda è considerato un buon posto per gli affari. I livelli di corruzione sono bassi. Nonostante Kagame sia un leader autoritario, gli si riconosce il merito di far rispettare le leggi nel settore pubblico e di promuovere la responsabilità e la trasparenza in politica. Infine, il Ruanda è un paese piccolo e anche per questo è il terreno di prova ideale per iniziative che un giorno potranno essere esportate in tutta l’Africa subsahariana. In futuro l’Aces potrebbe aprire altri centri studio nel continente, e ha già una collaborazione in corso con lo stato del Telangana, nel sud dell’India.
A Kigali ho incontrato Toby Peters, il primo docente al mondo di economia del freddo. Insegna all’università di Birmingham, nel Regno Unito, ma negli ultimi tre anni ha lavorato soprattutto al lancio dell’Aces. Quando gli racconto dei miei viaggi al seguito di latte, carne, verdure e pesci conservati a temperature troppo alte, Peters inquadra il problema in termini di sistema: “In Ruanda la catena del freddo semplicemente non esiste”.
Nei paesi ricchi il frigo di casa è solo l’ultimo anello di questa catena del freddo, formata dalla serie di ambienti a temperatura controllata attraverso i quali i prodotti alimentari passano dalla terra alla tavola. La catena del freddo è la spina dorsale invisibile del nostro sistema alimentare, il perpetuo inverno artificiale che abbiamo costruito per le nostre provviste. La refrigerazione artificiale è stata introdotta negli Stati Uniti nella seconda metà dell’ottocento, ma l’espressione “catena del freddo” si è diffusa alla fine degli anni quaranta del novecento, quando i burocrati europei impegnati nella ricostruzione del vecchio continente dopo la seconda guerra mondiale si sono messi a studiare per replicare il modello statunitense.
Oggi, negli Stati Uniti, un fagiolino coltivato in Wisconsin probabilmente non passa più di due ore a temperature superiori ai sette gradi nel tragitto dal campo al piatto. Appena raccolti, i fagiolini finiscono in un magazzino per abbattere il “calore del campo”. Passano sotto un getto d’acqua fredda (hydrocooling) o davanti a una gigantesca ventola che rinfresca le cassette in cui sono contenuti. In un paio d’ore questi processi di pre-raffreddamento abbassano la temperatura interna degli ortaggi da ventisei-ventisette gradi a cinque-sette gradi. Dopo i fagiolini possono rimanere in un frigo industriale, viaggiare a bordo di camion refrigerati e restare fino a quattro settimane sugli scaffali di un supermercato senza perdere sapore.
La catena del freddo non è semplicemente la somma delle sue parti. Anche se nella cella frigorifera della cooperativa di Rulindo la temperatura fosse stata corretta, i benefici sarebbero stati marginali. In un magazzino in cui la temperatura è compresa tra i cinque e i sette gradi, un fagiolino impiega dieci ore per raggiungere la temperatura che con il pre-raffreddamento si raggiunge in due ore. In tutto il Ruanda c’è un solo refrigeratore industriale, e si trova in una struttura governativa per le esportazioni vicino all’aeroporto di Kigali. È usato molto raramente, perché accenderlo costa troppo.
Nei paesi ricchi la refrigerazione fa salire il prezzo di un pomodoro dell’1 per cento. In quelli poveri si arriva al 30 per cento
Raffreddare un fagiolino in due ore invece che in dieci fa una differenza enorme. Dopo la raccolta, dal punto di vista metabolico, frutta e ortaggi sono ancora vivi. Una volta staccato dalla pianta, però, il fagiolino comincia a consumarsi, un processo che accelera all’aumentare delle temperature. Qualsiasi ortaggio o frutto deperibile che non sia raffreddato entro poche ore dalla raccolta consumerà gran parte del suo patrimonio di zuccheri complessi, clorofilla, vitamina C e altre sostanze nutritive. Avvizzirà e ingiallirà, per poi soccombere ai microrganismi che lo faranno marcire e decomporre.
Natalia Falagán, un’ingegnera agronoma del programma Aces, spiega: “Non appena i tessuti vegetali si ammorbidiscono, batteri e funghi festeggiano: ‘Ecco, è arrivato il mio momento!’”. Falagán lavora in un laboratorio all’università di Cranfield, nel Regno Unito. Chiacchieriamo circondate da scaffali carichi di frutta e ortaggi in decomposizione, collegati a sensori e monitor come fossero pazienti di un’unità di terapia intensiva. “I contadini a volte ci dicono che le celle refrigerate non funzionano”, si lamenta Falagán. “Ma non è vero: il problema è che ci mettono dentro della frutta già rovinata!”. A parte i costi di questo deterioramento in termini di salute e nutrizione sul lungo periodo, bisogna anche considerare le ricadute sui guadagni degli agricoltori. Dato che frutta e verdura si vendono a peso, se cala il contenuto d’acqua si riducono immediatamente gli incassi. Inoltre, se la qualità scende sotto un certo livello, i raccolti non si potranno più esportare e dovranno essere venduti sul posto, con una perdita di circa venti centesimi di dollaro al chilo. Ancora più gravi sono le conseguenze per il latte non refrigerato e il pesce conservato senza le scaglie di ghiaccio: in media il 35 per cento del latte raccolto da persone come Bizimana è già deteriorato quando arriva al centro di raccolta e non supera i test di qualità.
Il pesce conservato senza ghiaccio e rimasto invenduto, alla fine della giornata, è ceduto per pochi centesimi di dollaro ai commercianti congolesi. Tra il 30 e il 50 per cento della produzione alimentare nei paesi poveri si deteriora, è scartato, resta invenduto e quindi non è consumato, proprio perché le catene del freddo sono scadenti o inesistenti. Per gli agricoltori che guadagnano meno di due dollari al giorno, queste perdite sono sostanziali. Si stima che per l’intera Africa subsahariana ammontino a centinaia di miliardi di dollari all’anno.
Strutture inutilizzate
Nel maggio 2022 il Ruanda ha ospitato un forum sull’energia sostenibile promosso dall’Onu e, tra le altre iniziative, ha fatto pubblicità all’Aces. In quell’occasione ho accompagnato il team dell’Aces in un sopralluogo agli impianti di refrigerazione esistenti in Ruanda. Per prime abbiamo visto un paio di celle frigorifere costruite nel 2019 con i fondi dell’Unione europea a una cinquantina di chilometri a sud di Kigali, sulla strada che porta in Tanzania. Accompagnati da un contadino di una cooperativa agricola, siamo entrati in una struttura bassa di mattoni, in cui mi è caduto subito l’occhio sulle ragnatele alle pareti. La guida ci ha detto che una delle celle non funzionava. Nell’altra c’erano solo due cassette di peperoncini. L’impressione è che l’impianto fosse stato azionato per noi. Il pavimento immacolato non faceva pensare a un uso frequente. Inoltre, la cella era di legno, un materiale poco adatto perché difficile da pulire: ogni volta che un prodotto si schiaccia, la poltiglia resta lì e forma un substrato perfetto per la proliferazione di funghi e batteri. Judith Evans, una delle maggiori esperte di refrigerazione al mondo, ha messo in evidenza altri difetti: la mancanza di un ventilatore sopra la porta per creare una barriera d’aria, e le decine di chiodi conficcati alle pareti, che trasmettono calore. Durante la descrizione del funzionamento della cella, Falagán mi ha sussurrato: “Roba da pazzi… Manca qualsiasi controllo dell’umidità e non ci sono ventole per far circolare l’aria!”. Mentre gli altri componenti della delegazione facevano domande alla nostra guida, ho visto persone della cooperativa che caricavano sul retro di un camioncino cassette di peperoncini conservate all’aperto, sotto una struttura che faceva ombra. In seguito Issa Nkurunziza, un esperto di catene del freddo dell’Unep, mi ha detto di aver saputo che per i contadini la cella frigorifera costava troppo e quindi non la usavano.
Nel 2015 l’Onu ha lanciato un appello per dimezzare gli sprechi alimentari nel mondo entro il 2030. Da quel momento ong, agenzie per lo sviluppo e fondazioni hanno fatto a gara per finanziare progetti di refrigerazione nei paesi poveri. “Spesso le persone non capiscono come bisogna usare le celle frigorifere”, dice Judith Evans. “Per questo non fanno una manutenzione corretta”. Senza addetti adeguatamente formati e un modello imprenditoriale valido, la cella frigorifera rischia di diventare l’equivalente di una cattedrale nel deserto. Secondo la Banca mondiale, che negli ultimi anni ne ha finanziate dieci in Ruanda, il 96 per cento degli agricoltori che potrebbero usarla non lo fa.
Del resto, questi investimenti possono avere effetti indesiderati. Catherine Kilelu, un’esperta di sicurezza alimentare attiva in Kenya, mi ha parlato di una comunità keniana in cui ha osservato uno strano fenomeno. Dopo che la fondazione Bill e Melinda Gates aveva finanziato degli impianti di refrigerazione per l’industria casearia, la qualità dell’alimentazione dei bambini della zona era peggiorata. La spiegazione era semplice: in precedenza il prodotto delle mungiture serali si consumava a casa. Da quando gli allevatori potevano conservare il latte per venderlo il giorno dopo, quella fonte di nutrimento era scomparsa. “Si poteva pensare che, guadagnando di più, gli allevatori avrebbero speso di più per dare da mangiare ai figli”, ha commentato Kilelu. “Ma non è sempre così: quei soldi in più servono a riparare il tetto, comprare un telefono o altre cose di cui c’è bisogno”.
La volta successiva abbiamo visitato una struttura con maggiori risorse: il centro di refrigerazione gestito dal National agricultural export development board del Ruanda. Qui, però, è emerso un altro problema: la struttura, costruita nel 2017 con i finanziamenti della Banca mondiale, era stracolma di cassette di verdure, impilate fino al soffitto. La nostra guida, Innocent Mwalimu, in tono sommesso ci ha detto: “Al momento lo spazio è appena sufficiente ma, secondo il piano di produzione, tra sei mesi non lo sarà più”. Il Ruanda deve far fronte a un crescente deficit della bilancia dei pagamenti e il governo ha fissato l’obiettivo di raddoppiare le esportazioni di prodotti deperibili entro il 2025. Come incentivo a usare le celle frigorifere gli agricoltori pagano meno di sette centesimi per ogni chilo di prodotti esportati. Modelli simili sono stati sperimentati con successo in Kenya, in cui le esportazioni di frutta, ortaggi e fiori recisi hanno ormai superato i tradizionali prodotti d’esportazione (tè e caffè), che insieme al turismo erano la principale fonte di valuta straniera per il paese.
Purtroppo i benefici degli investimenti nelle catene del freddo non sono ripartiti equamente. Da uno studio condotto in Kenya è emerso che tre quarti delle esportazioni di frutta e verdura sono fatte da sette grandi aziende agricole, per lo più di proprietà di bianchi: sono le uniche a possedere le risorse e i capitali necessari per rispettare i rigorosi standard internazionali sulla sicurezza alimentare, e sono considerate aziende con cui è più facile lavorare e di cui è più semplice controllare i conti. In Kenya hanno avuto difficoltà a lavorare con i piccoli agricoltori anche le aziende nate apposta per installare sistemi di refrigerazione autonomi e sostenibili, ridurre gli sprechi nei raccolti e sostenere le comunità rurali. “Per far fruttare l’investimento, si devono adottare sistemi più grandi”, spiega Julian Mitchell, l’amministratore delegato della InspiraFarms, una di queste aziende. “Significa escludere i più poveri”, cioè gli agricoltori keniani che coltivano più del 90 per cento della frutta e degli ortaggi. Questi contadini continueranno a perdere metà del loro raccolto.
La difficoltà maggiore, mi spiega Selçuk Tanatar, responsabile dell’International finance corporation (Ifc) della Banca mondiale, è che a Nairobi una catena del freddo costa quanto a New York, se non di più: dai cinque ai quindici centesimi di dollaro a chilo. Nei paesi ricchi la refrigerazione fa salire il prezzo di un pomodoro dell’1 per cento, mentre nei paesi poveri l’aumento è del 30 per cento, “una cifra che nessuno è disposto a pagare”, osserva Tanatar. Perciò il modo finanziariamente sostenibile per costruire una catena del freddo è puntare sugli agricoltori che coltivano i prodotti più apprezzati nei paesi sviluppati: mirtilli, mango e fagiolini. “Così, però, non facciamo nulla di concreto per la sicurezza alimentare delle popolazioni locali”, aggiunge Tanatar. “Ci limitiamo a far arrivare prodotti migliori e meno cari nei paesi avanzati”.
Il camioncino Ikea
In Ruanda ci sono sei milioni di agricoltori, quasi la metà della popolazione. In media i loro campi sono poco più grandi di un ettaro. Proporgli una soluzione che non si adatta a un contesto simile è come non proporne nessuna: una catena del freddo imposta dall’alto renderà i ricchi sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri, e garantirà agli ex colonizzatori prodotti a base di frutta di qualità a un prezzo molto basso.
Nel marzo 2021 i ruandesi hanno visto per la prima volta un camioncino dall’aria singolare, che trasporta la frutta e la verdura dai campi ai mercati. Davanti somiglia a un carro armato, la forma è squadrata. Sembra un veicolo assemblato come un mobile dell’Ikea, e in un certo senso è così. La cabina è composta da pannelli di legno leggeri che possono essere spediti in pacchi compatti. Basta una giornata per montarli, senza bisogno di attrezzi speciali. Il veicolo, progettato nel Regno Unito apposta per i mercati emergenti, si chiama Ox (“bue”, in inglese). Pesa circa la metà di un normale camioncino, ma può trasportare il doppio del carico. Il parabrezza e la piastra per proteggere il motore hanno un’angolazione tale che su un pendio ripido gli pneumatici non fanno toccare terra al paraurti, inoltre il veicolo può guadare torrenti profondi fino a novanta centimetri. Sono due caratteristiche indispensabili per affrontare le strade sterrate e piene di buche del Ruanda.
Si spera che il Ruanda e i suoi vicini possano evitare le tecnologie inefficienti e inquinanti, per adottare subito soluzioni sostenibili
Francine Uwamahoro, direttrice generale della Ox per il Ruanda, mi ha presentato Louise Umutoni, la migliore autista dell’azienda. “I nuovi clienti non credono ai loro occhi quando vedono una donna alla guida del camioncino”, mi dice Umutoni. Siedo accanto a lei durante il suo giro quotidiano. Le strade del Ruanda ti spaccano le ossa, un’esperienza che molti autisti chiamano “massaggio africano”. Mentre guida, Umutoni risponde alle chiamate dei clienti. I camioncini Ox sono diventati così popolari che l’azienda è costretta a declinare otto richieste su dieci. Secondo Simon Davis, direttore generale della Ox, il segreto del loro successo non deriva dal design innovativo, ma dal modello aziendale, che propone l’equivalente di un servizio di autobus, pensato però per le merci. La maggior parte dei potenziali clienti non può permettersi di comprare un furgoncino, ma può affittare uno spazio a bordo di uno dei veicoli della Ox. “Abbiamo costruito il nostro primo modello aziendale calcolando un ricavo di cinquanta dollari al giorno in totale”, spiega Davis. “Ma siamo arrivati a incassarne 220 con un solo camioncino”.
La mattina in cui accompagno Umutoni, la prima cliente è una donna che aspetta sul ciglio della strada con delle ceste di banane verdi. Chiede di portarle nella città più vicina, a quasi venti chilometri di distanza. Le tariffe della Ox sono più alte di quelle richieste dai ciclisti, ma la differenza è compensata dai guadagni più alti, derivanti dal fatto che i prodotti arrivano al mercato più rapidamente. L’unica cosa di cui la donna si lamenta è che spesso non si trova posto sul camioncino.
Subito dopo aver messo in strada i primi veicoli in Ruanda, la Ox si è messa a progettare una nuova versione dei suoi mezzi e per questo ha chiesto il parere degli autisti. Secondo Umutoni la visibilità dovrebbe migliorare, perché nelle zone rurali i bordi delle strade sono sempre affollati di capre che brucano, donne che vendono frutta e verdura, bambini che corrono avanti e indietro. A detta di Davis, il prototipo dell’Ox 2.0 ti fa sentire come se fossi “alla guida di una serra”. Ma la cosa più importante è che, mentre il primo modello aveva un motore diesel, quello nuovo ne ha uno elettrico e come optional potrà montare un’unità di refrigerazione alimentata a energia solare. Potrebbe essere una delle soluzioni che vanno incontro alle esigenze segnalate da Innocent Mwalimu e Selçuk Tanatar per realizzare una catena del freddo a costi di gestione ridotti. Per alimentare il camioncino Ox elettrico basterebbe la metà di quanto si spende per il diesel.
“Poiché abbiamo rinunciato a creare una catena del freddo”, mi ha detto Tanatar, “le tecnologie che riducono i costi sono destinate a fare la differenza”. In parte, osserva, in Ruanda il programma Aces servirà anche a presentare le innovazioni alle cooperative agricole, agli imprenditori e ai tecnici che stanno seguendo una formazione professionale. Attualmente il campus dell’Aces comprende vari edifici di un solo piano in mattoni, disposti intorno a un prato centrale dove spiccano i fiori violetti degli alberi di jacaranda. Ospiteranno le aule in cui studieranno i futuri esperti di refrigerazione. In Ruanda i lavoratori qualificati scarseggiano al punto che, quando si rompe la macchina per il ghiaccio in scaglie che ho visto a Rusizi, per ripararla bisogna far venire un tecnico dall’Uganda. Lungo il perimetro nord del campus, che copre quasi cinque ettari, c’è un gruppo di casette. Alcune ospiteranno gli uffici di aziende del settore della refrigerazione, che siano startup locali o grandi gruppi internazionali. Le altre saranno destinate ad alloggi per gli studenti e a un asilo nido, nella speranza di incoraggiare le donne a formarsi come tecniche e imprenditrici.
Il Ruanda è pieno di aspiranti imprenditori del settore alimentare, agroalimentare e tecnologico. In tutto il continente ragazze e ragazzi sono molto più numerosi degli anziani, e sono tempestati dagli avvertimenti sulle scarse probabilità di trovare lavoro alla fine degli studi. Quindi, meglio darsi da fare per crearsene uno. Nella capitale Kigali ho avuto l’impressione di incontrare a ogni angolo di strada persone come Donatien Iranshubije, ventuno anni, un ragazzo dall’aria sicura di sé. Iranshubije ha fondato con altri una startup che mette a disposizione di una ventina di famiglie la consegna in ventiquattr’ore di frutta e ortaggi freschi provenienti da cooperative rurali. Al momento l’azienda si affida a fattorini in motocicletta, ma prevede d’investire nelle celle frigorifere. Iranshubije, come altre migliaia di imprenditori giovani, considera la refrigerazione un prerequisito per la crescita economica. Per il programma Aces la sfida è fare in modo che questa necessità sia soddisfatta – in Ruanda e in altri paesi – in modo sostenibile.
Le catene del freddo hanno un doppio problema: se mancano è un guaio, ma quando ci sono hanno dei costi per l’ambiente molto alti. Secondo le stime della Fao, se gli sprechi alimentari fossero un paese sarebbero il terzo al mondo per emissioni di gas serra, subito dopo la Cina e gli Stati Uniti. I refrigeranti chimici e l’energia da combustibili fossili usati per produrre il freddo rappresentano più del 7 per cento delle emissioni inquinanti nel mondo. Queste emissioni sono destinate ad aumentare man mano che paesi come il Ruanda si attrezzano per tenere al fresco i loro prodotti agricoli. Toby Peters, il cofondatore dell’Aces, ha fatto due conti ed è giunto a una conclusione allarmante: se ogni paese del mondo avesse una catena del freddo paragonabile a quelle delle economie sviluppate, i gas serra aumenterebbero di cinque volte. Da questa prospettiva, la decisione di aiutare il Ruanda a dotarsi di una catena del freddo sostenibile dal punto di vista energetico non è più una questione di altruismo, ma di egoismo lungimirante.
Tutto da ripensare
Negli studi sullo sviluppo si parla molto della capacità dell’Africa di fare a meno delle tecnologie adottate in passato dai paesi ricchi. Il Ruanda non ha mai posato i cavi della rete telefonica nazionale, e per questo i cellulari si sono diffusi molto più rapidamente che negli Stati Uniti. Si spera che il Ruanda e i suoi vicini possano fare qualcosa di simile con la refrigerazione: evitare le tecnologie inefficienti e inquinanti per adottare subito soluzioni sostenibili, mostrando la strada da percorrere ai paesi ricchi.
Il modo in cui si conservano gli alimenti nel mondo industrializzato non solo è insostenibile, ma è anche poco flessibile, come ci hanno mostrato le immagini degli scaffali vuoti nei supermercati durante la pandemia di covid-19. Inoltre nei paesi sviluppati il problema degli sprechi alimentari è grave tanto quanto in quelli poveri. Negli Stati Uniti, in cui sono i privati ad assicurare la manutenzione e il funzionamento della catena del freddo, nei supermercati, nei ristoranti e nelle abitazioni si spreca fra il 30 e il 40 per cento dei prodotti alimentari. Per fare un salto di qualità, non basterà adottare nuove tecnologie di refrigerazione ma bisognerà reinventare tutto di sana pianta.
Nel tempo che ho trascorso in compagnia del gruppo del programma Aces ho percepito sentimenti contrastanti, di euforia e ansia: realizzare una catena del freddo nel modo giusto significherebbe entrare nella terra promessa della sicurezza alimentare, del benessere e della sostenibilità; fallire significherebbe rinunciare a un pianeta vivibile, aggravare le disuguaglianze e la fame. “In passato questioni simili non erano neanche considerate un problema in sé, ma solo conseguenze”, mi ha spiegato Philip Greening, un componente del gruppo Aces che sta costruendo un modello computerizzato del Ruanda. Un gemello digitale del paese, su cui simulare, dare un prezzo e valutare tutte le possibili varianti per la conservazione e la logistica dei prodotti alimentari. Questo modello dovrebbe servire a trovare la risposta a interrogativi urgenti. Per esempio, dove andranno collocati i centri di raffreddamento perché siano utili alle comunità che ne hanno più bisogno? Cosa succederà se, come prevedono i piani, nelle zone rurali saranno costruiti dei macelli per i polli, le cui carni andranno tenute al fresco? E come influirà un aumento del 10 per cento delle esportazioni di prodotti freschi sulle condizioni di salute ed economiche delle famiglie degli agricoltori? Infine, vale la pena migliorare la rete stradale prima d’investire nelle strutture di preraffreddamento in ogni singola azienda agricola?
L’uso di modelli informatici per prendere decisioni simili è una novità e ha dei limiti. Le semplificazioni sono inevitabili, ed è probabile che certi dati siano introvabili. Inoltre, il comportamento degli esseri umani non è del tutto prevedibile. Alice Mukamugema, un’analista del ministero dell’agricoltura del Ruanda, racconta che i consumatori ruandesi sono convinti che i cibi conservati in frigo non siano freschi. “I commercianti che vendono al mercato le eccedenze del centro di raffreddamento del National agricultural export development board li tengono per un po’ al sole, perché non risultino freddi”, mi racconta.
Un pomeriggio ho appuntamento con Christian Benimana, un architetto nato a Kigali che ha studiato a Shanghai e ha collaborato alla progettazione del campus dell’Aces. Benimana mi ricorda che nel 2007 il governo ruandese aveva annunciato un innovativo progetto per trasformare Kigali in “un centro di stabilità e sviluppo di primaria importanza per il continente”. Tuttavia, si è capito subito che il piano aveva dei gravi difetti. Di fronte alle proteste, il governo ha fatto delle correzioni significative. Da allora, sta continuando ad attuarlo e ad aggiornarlo con successo.
Alcuni risultati, ammette l’architetto, lasciano perplessi (il centro è una gigantesca rotatoria e i nuovi hotel, centri commerciali e zone industriali somigliano a una serie di scatoloni anonimi), ma altri sono notevoli. Le zone umide, che occupano un quarto dell’area di Kigali, sono state trasformate in riserve protette, con risultati migliori di quelli ottenuti a Londra e a Los Angeles. “Dopo il genocidio, portare avanti un processo di ricostruzione era inevitabile”, mi dice. “Si è deciso fin da subito di puntare in alto per vedere se si potevano risolvere alcuni problemi strutturali e sociali, e diventare un paese da cui si potesse imparare”.
Per Benimana, l’ambizione dell’Aces è del tutto in linea con la scelta del Ruanda di sperimentare e innovare: “Siamo in grado di sognare cose oltre l’immaginabile e di agire di conseguenza. O almeno di provarci”. ◆ ma
Nicola Twilley è una giornalista e scrittrice statunitense, esperta di storia e scienze dell’alimentazione. È una delle conduttrici del podcast Gastropod.
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Questo articolo è uscito sul numero 1494 di Internazionale, a pagina 54. Compra questo numero | Abbonati