Quando si sveglia nella sua casa di Madeira e guarda dalla finestra, in basso – oltre la piantagione di banane dei vicini – Ruud op den Kelder, 36 anni, vede l’oceano blu. Mentre scende dalla montagna con il computer portatile e i visori per la realtà virtuale a bordo della piccola auto in affitto, lo sviluppatore di videogiochi di Amsterdam, nei Paesi Bassi, ricorda il motivo per cui da sei mesi vive nelle Hawaii d’Europa. È per le alture vulcaniche ricche di vegetazione a strapiombo sul mare, le onde che s’infrangono contro le rocce e le casette dalle tegole rosse lungo le strade tortuose. Intorno alle 9 Op den Kelder si collega alla rete wifi del centro culturale del comune di Ponta do Sol, in cui molti nomadi digitali si sono trasferiti dall’inizio della pandemia. Durante le riunioni su Zoom, sembra che alle spalle abbia uno sfondo finto: palme, buganvillee, una chiesetta pittoresca. Invece è tutto vero.
“Ero stufo di Amsterdam”, racconta seduto a un tavolino all’aperto. “Non avevo voglia di un altro triste inverno in lockdown”. Per evitare una depressione strisciante, Op den Kelder ha cercato un posto diverso. “Il mio cliente principale si trova a Londra, quindi non importa dove sono, basta che ci sia internet”. Madeira gli offre una postazione di lavoro gratuita, una casa con un affitto basso vicino alla natura e una serie di canali Slack per collaborare o divertirsi. “Nel ristorante all’angolo il caffè costa settanta centesimi e il piatto del giorno sei euro”.
Niente di strano, quindi, se l’isola portoghese di Madeira attira migliaia di lavoratori da tutta Europa. Dall’inizio della pandemia luoghi come Zara (Croazia), Tallinn (Estonia), Bucarest (Romania), Creta (Grecia), Catania (Italia), Malta e l’Islanda cercano di attirare i nomadi digitali con visti facili, vantaggi fiscali fino al 70 per cento, sconti su alloggio, ristoranti e postazioni di lavoro.
Sono tutti luoghi che hanno approfittato del fatto che le tradizionali destinazioni dei nomadi digitali, come Bali e la Costa Rica, sono diventate irraggiungibili a causa delle limitazioni ai viaggi. Così non solo compensano la perdita dei guadagni legati al turismo, ma sperano nella possibilità di nuovi posti di lavoro quando gli stranieri altamente formati decidono di restare. Anche grazie ai lavoratori a distanza, dall’inizio della pandemia la piattaforma per gli affitti Airbnb ha raddoppiato i contratti a lungo termine (più di 28 giorni).
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“Finora si sono registrati undicimila nomadi digitali”, dice Micaela Vieira, responsabile del progetto della StartUp Madeira. Vieira è pagata dal governo portoghese per aiutare gli imprenditori ad avviare un’attività. Il numero sembra modesto in confronto al milione di turisti che prima del covid visitava ogni anno l’isola, ma secondo Vieira un nomade digitale rimane in media sessanta giorni e spende 1.800 euro al mese. Il comune ha registrato ottanta stranieri come residenti. Inoltre, i lavoratori a distanza si rivelano ambasciatori dell’isola. “Mai prima d’ora abbiamo ricevuto tanta attenzione sui social network gratuitamente”. Un altro cambiamento è che oltre agli abituali ultrasessantenni con robusti scarponi ai piedi, ora anche le giovani coppie arrivano a scoprire l’isola semitropicale con le sue cascate e la brumosa laurisilva, che l’Unesco ha dichiarato patrimonio dell’umanità.
Un piccolo avvertimento dall’ideatore della StartUp Madeira, Gonçalo Hall di Lisbona: “Le foto dei nomadi digitali su Instagram – gambe a mollo in una piscina, MacBook Pro sulle ginocchia – sono stronzate”. Il lavoro a distanza è vero lavoro: otto ore al giorno seduti a un tavolino lontano dal sole. Lui stesso è stato nomade digitale a Bali e in Thailandia. Madeira l’ha scoperta solo dopo l’arrivo del coronavirus. “Ho pensato: perché questo posto non è sulla mappa dei nomadi digitali? Nel giro di dieci minuti arrivi al mare o in montagna, la temperatura è sempre piacevolmente intorno ai venti gradi, le strutture sono buone e gli euro valgono di più”.
Secondo Hall, che lavora come consulente per il governo dell’isola, attirare i nomadi digitali è solo un primo passo. Lui consiglia di puntare ai lavoratori che rimangono più a lungo. “Essere nomadi digitali è uno stile di vita. Restano in un luogo al massimo per un mese, usano il sistema d’accoglienza turistico e poi si spostano”. Hall sostiene che nessuno resiste a lungo: “A un certo punto ne hai abbastanza di traslocare. E allora cerchi un posto in cui fermarti, più o meno nello stesso fuso dei tuoi clienti fissi”. Chi lavora per quelli europei, spiega, finisce da qualche parte tra le Azzorre e la Turchia. “Noi speriamo che a questo punto il nomade digitale si ricordi di Madeira come di un posto adatto ad aprire un’azienda”.
È stato così per l’olandese Michelle Maree che, dopo un aver girato il mondo, ha scelto un appartamento su un’altura vulcanica. “La mattina mi piace prendere lo scooter e salire in alto”, racconta. Maree organizza da anni “The nomad escape” (la fuga nomade), un workshop di una settimana per potenziali nomadi digitali. Molti partecipanti sono in cerca di qualcosa: “Si sentono svuotati, privi d’ispirazione, desiderano entrare in contatto con persone che capiscano il loro modo di vedere la vita”. Da quando è scoppiata la pandemia si chiedono: come voglio vivere? Ai tradizionali lavoratori del settore tecnologico, sostiene Maree, ora si aggiungono mindset coach, burnout coach, career coach (persone che aiutano altre a cambiare mentalità, a fare i conti con lo stress da lavoro o a gestire la carriera), programmatori, architetti, designer, investitori in criptovalute, avvocati specializzati in diritti d’autore e pubblicitari. “Io gli insegno a riprendere in mano il controllo della loro vita”. Ma li avverte: “Senza buone capacità comunicative, autodisciplina e perseveranza non ce la farete. Dipende solo da voi, e spesso questo significa lavorare più duramente che con un impiego normale”.
E infatti al centro culturale di Ponta do Sol si lavora sodo, a quanto pare. Fuori, sotto il sole del mattino, giovani donne e uomini sono impegnati in videochiamate in varie lingue; dentro, guardano video o scrivono presentazioni di progetti. Alle 12.30 è ora di pranzare insieme, oggi al ristorante Old pharmacy, dietro la chiesa del paese. “Ho raccontato su Zoom di come i pesci reagiscono alla luce in una rete a strascico”, spiega l’olandese Nadia Laabs, 36 anni, codirettrice di un’azienda che si occupa di tecniche di pesca sostenibili e arrivata da poco a Ponta. “Vivevo a Londra. Quando io e il mio ragazzo siamo stati costretti a lavorare da casa, abbiamo deciso di cercare un posto più tranquillo e con più sole”. Ora vivono in una casa condivisa con due portoghesi, due britannici, uno slovacco, un polacco e una tedesca. “Tutti nerd, ci troviamo bene”.
Competenze e idee
La titolare dell’Old pharmacy, Maria Freitas, è molto contenta di tutti questi ventenni e trentenni provenienti dall’estero: “Senza di loro quest’inverno sarei rimasta chiusa”. Indica il nome del ristorante vicino, suo anche quello: Steak & sun and more. “L’ultima parte l’abbiamo appena aggiunta. Molti nomadi sono vegetariani o vegani, qui non ci siamo abituati”.
Secondo Freitas i nuovi arrivati non portano solo soldi, ma anche competenze e idee. Suo figlio Diogo, sui vent’anni, aggiunge: “La maggior parte degli abitanti è onorata del fatto che il paese sia stato scelto dai nomadi digitali”. Una cosa che però gli dispiace è che i due gruppi si mescolano a malapena. I nomadi lavorano nel pittoresco centro e si danno appuntamento tramite Slack in hotel e ristoranti, gli abitanti vivono sopra al paese e bevono la loro poncha (una tradizionale bevanda alcolica fatta con lo zucchero di canna) fuori, tra le piantagioni.
Non sono state fatte ricerche sul numero di olandesi che lavorano dall’estero da quando è scoppiata la pandemia. Il Cbs (l’istituto nazionale di statistica dei Paesi Bassi) dichiara che nel 2020 (ultimo dato disponibile) il 41 per cento della popolazione attiva sul mercato del lavoro ha lavorato da casa e che il 66 per cento delle aziende in cui il lavoro a distanza è possibile si aspetta un tipo d’impiego ibrido in futuro. Da una ricerca statunitense del 2021 risulta che 10,5 milioni di americani si definiscono nomadi digitali, un aumento del 42 per cento rispetto all’anno precedente. Nel 2020 l’aumento era stato del 112 per cento rispetto al 2019. La società di consulenza McKinsey contestualizza il dato notando che almeno il 60 per cento dei lavoratori non può diventare nomade perché è composto da operai, addetti alla cura dei pazienti o ai clienti nei negozi.
Secondo Wolter Pieters, che tiene un corso su lavoro, organizzazione e tecnologia alla Radboud universiteit di Nimega, nei Paesi Bassi, i nomadi digitali sono figure tipiche della gig economy: lavoratori autonomi che accettano lavoretti attraverso piattaforme online: “La loro mobilità è fondamentale”. Pieters prevede che aumenteranno a causa del coronavirus, ma smorza le aspettative: “Resta un gruppo privilegiato. Servono capacità di gestione del tempo, niente legami, capitale di partenza e comunque alla fine molti preferiscono sentirsi parte di qualcosa”.
Joop Schippers, che insegna economia del lavoro all’università di Utrecht, nei Paesi Bassi, spiega che grazie al coronavirus il lavoro a distanza è più democratico: “La possibilità di vivere all’estero un tempo era riservata a un’élite creativa e molto istruita, invece oggi è alla portata anche di un impiegato amministrativo”. La domanda è se è davvero il caso di volerlo, dice Schippers: “Ormai un cardiochirurgo può operare da un’amaca all’ombra di una palma, ma è meglio anche per il paziente?”. Schippers non si aspetta che il lavoro dall’estero diventi la norma, come alcuni entusiasti affermano: “Per ragioni sociali ed emotive, ma anche perché le nuove idee nascono a volte riordinando le tazze insieme a un collega dopo una riunione”.
Tramonto sul mare
Per gli abitanti di Madeira gli svantaggi sembrano pochi. Secondo Micaela Vieira i nomadi digitali non portano via posti di lavoro ai portoghesi: “È chiaro che creano lavoro per chi affitta macchine e motorini, per i ristoratori e le palestre”. I clienti di Airbnb sono contenti, assicura, di affittare stanze fuori dalla stagione turistica. Solo se un nomade si ferma fa concorrenza ai portoghesi nel mercato immobiliare, perché può permettersi di pagare affitti più alti (il salario minimo a Madeira è circa settecento euro al mese).
Al tramonto Op den Kelder nuota nel mare davanti a Ponta do Sol. Poco più avanti, sulla spiaggia di sassi, c’è un gruppetto di persone sedute, alcune in mutande. “È il vantaggio di lavorare qui”, sorride. Eppure in primavera lo sviluppatore di videogiochi di Amsterdam si trasferirà a Lisbona. La recente partenza di un gruppo di amici l’ha fatto riflettere. “Sono molto introverso e ora devo ricostruire la mia rete sociale da capo”. In più comincia a sentire la mancanza di stimoli creativi e professionali. “In una città come Lisbona ogni tanto potrò andare in un museo o lavorare fisicamente insieme ad altri esperti di realtà virtuale”. ◆ vf
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Questo articolo è uscito sul numero 1453 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati