“Hello sir! Where you going?”, chiedono alcune ragazze in abiti succinti per strada a Pattaya, una località di mare tailandese. Un’infermiera in minigonna ti tira per un braccio, una poliziotta dal decolleté generoso ti punta contro una pistola ad acqua e una studente con un sorriso dolce e l’apparecchio ai denti fa un gesto che imita il sesso orale. Gruppi di uomini indiani passeggiano chiacchierando ad alta voce lungo la famigerata via Soi 7, europei più attempati siedono in silenzio dietro a una birra Tiger con in braccio ragazze di quarant’anni più giovani, le casse sparano musica techno, le facciate degli edifici sono illuminate da luci al neon.

Va avanti così da decenni nell’ex villaggio di pescatori sul golfo della Thailandia dove negli anni sessanta, quando arrivarono dal Viet­nam i soldati statunitensi per riprendersi dalla guerra, sorse un enorme quartiere a luci rosse. Da allora Pattaya è una calamita per uomini da tutto il mondo alla ricerca di sesso a buon mercato e per donne tailandesi – spesso madri sole – che non riuscendo più a guadagnarsi da vivere in un altro modo se ne vanno a Sin City, la città del peccato, com’è soprannominata. Lì possono lavorare in uno delle migliaia di beer bar, gogo-bar, gentleman club o blowjob bar. Anche lungo il viale sulla spiaggia, a pochi metri l’una dall’altro, una donna o un ladyboy (una transessuale o un ragazzo gay effeminato) si offrono per mille bath (25 euro) a notte.

Un bar a Pattaya, Thailandia, 2 febbraio 2013 (Jonas Gratzer, Lightrocket/Getty)

Il tutto sotto gli occhi della polizia, anche se in Thailandia il lavoro sessuale è illegale. Le cose però potrebbero cambiare grazie a un numero crescente di ong, attivisti e parlamentari che chiedono la legalizzazione del lavoro sessuale in Thailandia. Si preoccupano per le centinaia di migliaia di uomini e donne dell’industria del sesso, le cui misere condizioni sono emerse in modo evidente durante la pandemia di covid-19. Non avevano diritto agli aiuti del governo né all’assistenza sanitaria e spesso non potevano nemmeno rivolgersi alle loro famiglie. Si sono rifugiate in anguste stanze sopra i bar deserti e sono sopravvissute grazie all’aiuto delle ong. Anche la preoccupazione per il traffico di esseri umani, la prostituzione minorile e l’aumento delle disuguaglianze economiche nel paese hanno un peso nel dibattito pubblico sul tema.

Mano di piovra

“In passato ho fatto la colf, la cameriera e la cassiera”, dice Talay, 29 anni, mentre comincia il turno allo Zombie Bar. Aspetta i clienti vestita con un top trasparente e dei pantaloncini molto attillati. “Quei lavori non mi permettevano di mettere da parte nulla”. Ma, dice lei, sgobbare sotto il sole in una risaia come fanno i suoi genitori è ancora peggio: “E va a scapito della mia bellezza”. Quando sua sorella Rose, 19 anni, è rimasta incinta e il padre se n’è andato, le due hanno deciso di andare insieme a Pattaya: “Abbiamo visto su TikTok che qui si fanno un sacco di soldi”.

Rose ci raggiunge in un bikini arancione che lascia scoperte due grandi ali tatuate sul petto. Insieme mi spiegano come funziona: il bar gli paga uno stipendio di 125 euro al mese per stare lì sei giorni alla settimana dalle 16 alle 2 di notte. Se un cliente gli offre un lady drink da tre euro e ottanta, a loro va un po’ meno della metà. Se poi vanno con un cliente, chiedono circa 38 euro per due ore di sesso, più dodici euro di commissione che il cliente deve pagare al bar. Una mama san dietro la cassa annota tutto con precisione. Talay ha anche un amico svedese che la paga per tutta la notte. “Riusciamo a mandare a casa ogni mese tra i 150 e i 200 euro”.

Un inglese con i baffi arriva a dare un’occhiata. Con un movimento discreto delle dita, Talay manda la sorella verso di lui. Poco dopo sono già seduti a bere qualcosa. Rose gli appoggia una gamba sulle ginocchia, lui le percorre avidamente il corpo con le dita. Un m ụ̄x plāh ̄ m ụ k (mano di piovra), conclude Talay con disapprovazione, un cliente che per pochi euro cerca di toccare tutto quello che può. Fastidioso quasi come un tʹhèā h ̄ạ w ngū (vecchio testa di serpente), un vecchietto che chiede un bacio innocente e poi ti ficca di colpo la lingua in bocca. Quello che cercano quasi tutte le lavoratrici sessuali è uno sugar daddy: uno straniero che ogni tanto le porta fuori a cena e in giro per negozi e che gli versa dei soldi ogni mese.

“L’immagine che molti tailandesi hanno di chi lavora nel mercato del sesso sta cambiando”, spiega Boonwara Sumano Chenphuengpawn, ricercatrice del Thailand development research institute di Bangkok. Secondo lei, le terribili condizioni nel periodo della pandemia hanno aperto gli occhi a molte persone: “Si rendono conto che nessuno lo fa per piacere. Che a spingere donne e uomini verso quel lavoro sono le disuguaglianze economiche, la mancanza d’istruzione e l’impossibilità di accedere ai sussidi”. Secondo le stime di Boonwara, circa il 60 per cento delle lavoratrici del sesso sono giovani madri single provenienti da regioni povere: “In campagna, poi, le figlie devono occuparsi dei genitori e dei nonni”. La ricercatrice racconta che il dibattito si concentra su due possibilità. Dal 2023 è cominciata una campagna che chiede di depenalizzare il lavoro sessuale: “Così la polizia non potrà più pretendere mazzette o favori sessuali per chiudere un occhio”. Un fenomeno molto diffuso, dice Boonwara. “Una volta schedati, è impossibile tornare ad avere la fedina penale pulita. Ecco perché quasi tutti preferiscono pagare”. Come primo passo, alla fine del 2023 il governo ha tolto alla polizia la facoltà di riscuotere multe per il lavoro sessuale, incaricando invece il ministero per lo sviluppo sociale e i diritti umani. “Ma nella pratica nessuno lo sa”, spiega.

Clienti da evitare

La seconda opzione è la legalizzazione (e la regolamentazione), con l’istituzione di un sistema di permessi e la registrazione degli operatori sessuali presso il ministero degli affari sociali e il fisco: “Quasi tutti i parlamentari preferiscono questa opzione perché così è possibile, per esempio, indicare dov’è consentito il lavoro sessuale, come avviene a Singapore o nei Paesi Bassi”. Per lo stato la legalizzazione comporterebbe ulteriori entrate fiscali, più contributi per la previdenza sociale e magari anche più turismo sessuale. Le lavoratrici e i lavoratori del sesso avrebbero diritto, per esempio, a un’assicurazione sanitaria, a un congedo di maternità e alla pensione. Inoltre, sarebbero meno vulnerabili nei confronti della polizia, dei datori di lavoro e degli sfruttatori.

Dean descrive i suoi clienti come “milionari per due settimane”: turisti da Stati Uniti, Europa e Australia che vivono l’illusione di essere ricchi

La domanda è cosa vogliono le lavoratrici del sesso. “La mia famiglia non immagina neanche lontanamente che faccio questo lavoro. Pensano che abbia un fidanzato ricco”, spiega Talay, che è favorevole alla depenalizzazione ma con un sistema di concessioni. Anche Plai, 22 anni, vestita in un completino corto da infermiera, è contraria al registro: “La mia famiglia sa che lavoro a Pattaya, per cui intuiscono cosa faccia qui”. Ma iscriversi in un registro del governo sarebbe troppo. “Ho una figlia di quattro anni. Tra un anno spero di tornare a casa con 2.500 euro in tasca, voglio costruire una casa per noi due e aprire un negozietto”. Si allontana per salutare un cliente abituale, un settantenne con una pancia enorme e il bastone da passeggio. Si siedono vicini, in silenzio, perché non parlano la stessa lingua. Lui scrolla sul telefono con una mano mentre le infila l’altra tra le gambe. Plai fissa il vuoto e sembra pensare ad altro.

Mai, che è più anziana, è favorevole al registro: “Ora devo pagare tutto io quando vado dal medico”. Ha 43 anni e fa questo lavoro per pagare l’istruzione del figlio. “Farà l’ingegnere!”, dice orgogliosa.

Un caso speciale è Pear, 21 anni, che studia per diventare infermiera. “Le mie compagne di stanza al campus hanno tutto, mentre io durante le vacanze lavoro qui per pagarmi la retta all’università”. Pear ci mostra anche il suo account Instagram, dove posa fiera con il diploma delle superiori e nell’uniforme da aiuto-infermiera in un ospedale. È a favore della legalizzazione, perché così le lavoratrici del sesso potranno accedere all’assistenza sanitaria e dovranno farsi periodicamente le analisi per verificare di non avere malattie veneree. Anche lei si sentirebbe più sicura: “Piaccio agli indiani, che amano le donne paffute. Però hanno una cattiva reputazione”. Chiedendo in giro, sembra che a Pattaya gli indiani abbiano sostituito i cinesi come clienti da evitare: a volte pagano meno del pattuito oppure invitano i loro amici in camera.

Anche Yong Yoon, economista del lavoro dell’università Chulalongkorn a Bang­kok, si preoccupa per la sicurezza di chi lavora nel settore. Mette in guardia da un effetto negativo della legalizzazione. “Normalizzando il lavoro sessuale, rischiamo di dimenticare che nessuno lo fa per divertimento”. Serve un approccio prudente, suggerisce Yoon, che depenalizzi il lavoro sessuale senza però romanticizzarlo. L’inglese Nick Dean, 54 anni, è il proprietario di cinque bar sulla Soi 7, tra cui lo Zombie, oltre a un albergo dove le sue dipendenti possono portare i clienti: “Naturalmente io non c’entro nulla, perché il lavoro sessuale è illegale”. Descrive i suoi locali come un luogo per gli incontri lampo. “Se una ragazza non ti piace, passi a quella successiva”. Molte delle sue impiegate sono ragazze madri originarie della provincia povera dell’Isaan. “Alcune se ne vanno dopo un’ora, la maggior parte rimane un paio d’anni”. Dean non ritiene di sfruttare le donne. “Anzi, le aiuto! Gli offro un lavoro e le tratto bene”. Attraverso una chat di gruppo, sostiene Dean, si assicura che non corrano pericoli. “Di recente un cliente si è rifiutato di pagare due ragazze. Così siamo andati là e abbiamo risolto la questione”. Aggiunge sdegnato: “Diamo addirittura consigli su come gestire i soldi!”.

Una casa di legno

Dean descrive i suoi clienti come “milionari per due settimane” – turisti da Stati Uniti, Europa e Australia che per un attimo vivono l’illusione di essere ricchi – ed expat più anziani che vivono a Pattaya una parte dell’anno. Per tutti la legalizzazione implicherà probabilmente un aumento dei prezzi: “Qualcuno deve pur pagare le tasse”. Nonostante questo, Dean è a favore della legalizzazione e spera che le autorità rendano subito obbligatorie le visite mediche: “Ora sono a discrezione delle lavoratrici, senza grandi risultati”. Quando gli chiedo se dovrà anche pagare meno mazzette alla polizia, Dean non risponde: “Su questo non posso dire niente”. Spera che la legalizzazione permetta di assumere anche lavoratrici straniere. Dalla Cambogia, per esempio: “Più l’economia thailandese migliora, più diventa difficile trovare ragazze”.

In cambio di un whisky e Coca, Talay è disposta a spiegare che piani ha per il futuro. Viene da una regione vicino al confine con il Laos: “Là è molto tranquillo. I nostri genitori coltivano riso e raccolgono gomma”. Il denaro che insieme a sua sorella manda ogni mese alla famiglia serve per la costruzione di una casa di legno: “È quasi finita! Mancano solo le finestre, le porte e una grande tenda sulla veranda”. Talay dice che dovrà fare questo lavoro ancora per qualche mese, un anno al massimo. E con sguardo sognante aggiunge: “Sarà una grande casa per tutta la famiglia, con le galline sul retro e un pesco davanti”. ◆ oa

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Questo articolo è uscito sul numero 1581 di Internazionale, a pagina 66. Compra questo numero | Abbonati