Fabrice Arfi arriva in bicicletta. Ha il casco in testa e il naso arrossato. È una fredda mattina dell’autunno parigino, ai bordi delle strade ci sono cumuli di foglie gialle. “È qui”, dice il giornalista osservando la facciata decorata del civico numero 8. “Non è folle questa storia? Sembra un fumetto”. Ma quello di cui parla, in realtà, non è affatto divertente.
Rue Edmond Valentin è una tranquilla strada laterale del settimo arrondissement di Parigi. Nessun negozio, solo un piccolo ristorante. Da qui c’è un’ottima vista sulla torre Eiffel. Come un punto esclamativo rovesciato, la torre svetta dai tetti. Arfi, 42 anni, per un po’ è stato lontano da Parigi, ma qui c’è una storia che continua a ossessionarlo. L’immobile al civico 8 appartiene alla famiglia Bongo del Gabon, in Africa occidentale, dall’altra parte del mondo. Per loro la torre Eiffel era uno status symbol. Come se gli appartenesse, insieme alla città.
I Bongo, prima Omar e poi il figlio Ali, hanno governato il Gabon per più di 56 anni, dal 1967 fino all’estate 2023, quando sono stati cacciati con un colpo di stato. Sono durati così a lungo anche perché la Francia, l’ex potenza coloniale del paese, li ha sostenuti. I francesi hanno corteggiato i Bongo, forse li hanno perfino aiutati a truccare le elezioni. E quando l’opposizione scendeva in strada nella capitale Libreville, a volte era l’esercito francese a reprimere le proteste. I legami sono stati tramandati da una generazione politica all’altra, con inquilini dell’Eliseo di destra e di sinistra. Insieme ai Bongo hanno saccheggiato il paese africano: uranio, legno, ma soprattutto petrolio. Anche se le ricchezze personali e le proprietà di lusso della famiglia Bongo tra Parigi e Nizza continuavano ad aumentare, questo non interessava a nessuno. Era solo un piccolo inconveniente su cui chiudere un occhio davanti agli interessi ben più grandi della repubblica francese.
Per esempio i Bongo avevano quel palazzetto in rue Edmond Valentin: tre piani, uno stemma in rilievo sopra il portone d’ingresso, un gioiello. E un simbolo.
Le carte di questa proprietà parigina e di altri venti immobili fanno ora parte del dossier di un caso giudiziario destinato a fare storia. La procura francese sta indagando per scoprire se la famiglia Bongo ha acquistato case e appartamenti con i soldi di tangenti provenienti da Parigi. In ballo non c’è solo la reputazione dei Bongo, ma anche quella della Francia. Forse è una coincidenza che l’indagine si apra proprio ora che Ali Bongo è stato rovesciato e che una serie di colpi di stato ha interessato le ex colonie francesi: il Mali, il Ciad e la Guinea nel 2021, il Burkina Faso nel 2022, il Niger nel 2023. Ora che il vecchio sistema di favori reciproci sta crollando e che in Africa monta il rancore antifrancese. Ma è davvero una coincidenza?
Una classe scolastica passa davanti al civico 8, una donna bionda suona alla porta, ma nessuno risponde. Arfi appoggia il casco al muretto della casa e si lascia mettere in posa dai fotografi. Nello scatto per i giornali devono apparire i tre protagonisti della storia: la torre Eiffel, la casa dei Bongo e l’uomo che ha rivelato tutto. Arfi sembra a suo agio. Con un rapido gesto della mano si aggiusta una ciocca di capelli davanti alla fronte. È disinvolto davanti all’obiettivo: “Ancora una?”.
Vera passione
Figlio di un poliziotto e di un’insegnante di Lione, Arfi è il più famoso giornalista d’inchiesta francese. In realtà avrebbe voluto fare il musicista e suona la chitarra. “Quella è la mia vera passione”, dice. Con il suo gruppo si esibisce nei bar: “Piccoli concerti, con la musica non potrei mai viverci”. Dopo la maturità ha frequentato una scuola di giornalismo a Lione, è diventato cronista giudiziario e ha cominciato a scrivere per diversi quotidiani. Spesso, in famiglia, il padre gli raccontava dei casi con cui aveva a che fare per lavoro. Arfi è cresciuto con queste storie.
Ora è corresponsabile della sezione inchieste di Mediapart, un quotidiano online indipendente per il quale lavora dal 2008, quando è stato fondato. Il sito si sostiene senza pubblicità, senza aiuti statali, senza i milioni dei complessi industriali su cui possono contare i grandi gruppi editoriali del paese. Mediapart si finanzia con gli abbonamenti e al momento le cose vanno bene: ogni anno i guadagni crescono. Così sono liberi, e la libertà è quello di cui Mediapart ha bisogno per poter indagare sui potenti di ogni colore politico. Lo scandalo dei finanziamenti elettorali versati dalla Libia all’ex presidente francese di destra Nicolas Sarkozy? L’hanno scoperto Arfi e la sua squadra. L’evasione fiscale commessa dall’ex ministro delle finanze socialista Jérôme Cahuzac? Ancora Arfi. Le intercettazioni di Liliane Bettencourt, la donna più ricca di Francia e proprietaria dell’Oréal? Sempre Arfi. E le sue imprese non finiscono qui. Su Canal + c’è una serie intitolata D’argent e de sang (Di soldi e di sangue) che si basa sul libro omonimo in cui il giornalista racconta una truffa sulla tassa per le emissioni di carbonio. Su X, un tempo Twitter, Arfi è seguito da circa trecentomila persone.
Il giornalista ordina un tè. Davanti a lui sul tavolino del bistrò c’è il portatile che di tanto in tanto apre per controllare un numero o un indirizzo. C’è anche una cartellina rossa sulla quale ha scritto a mano Foccart. Questo nome, Jacques Foccart, gioca un ruolo chiave nella storia dei Bongo. Di recente Arfi è stato nell’archivio di stato, dove ha trovato documenti firmati da Foccart che non erano mai stati resi noti. “Amo gli archivi”, dice sorridendo. Bisogna solo avere pazienza e sopportare le scartoffie, ma prima o poi ci s’imbatte in qualche “perla”, come le chiama lui. Ama anche i catasti, i registri commerciali, gli organigrammi. Quando parla, Arfi dice spesso “c’est passionant”, è appassionante, e si sporge in avanti sopra il tavolo, in modo che non si perda nemmeno una parola nel brusio che proviene dal bancone.
I rapporti tra il Gabon e la Francia, per esempio, sono appassionanti. Il Gabon è un grande paese scarsamente popolato sulla linea dell’Equatore con appena 2,3 milioni di abitanti. È ricco di risorse naturali, è uno stato petrolifero.
Nel 1960 il Gabon è diventato indipendente. Ma Charles de Gaulle, il presidente francese dell’epoca, voleva mantenere il controllo delle ex colonie francesi. Dovevano rimanere un cortile di casa francese. Quando altri volevano fare affari lì, era preferibile che prima chiedessero il permesso a Parigi. Ed è stato così per molti anni. La Francia si è assicurata monopoli e privilegi. E affinché le cose non cambiassero, i paesi indipendenti dovevano essere governati da leader manovrabili. Ancora meglio se non democratici: la Francia preferiva i dittatori, almeno sapeva con chi aveva a che fare. Di questo si occupava Jacques Foccart, “Monsieur Afrique”, il “signor Africa” di De Gaulle, una figura che sembra uscita da un romanzo di spionaggio. Il primo presidente del Gabon libero si chiamava Léon M’ba ed era stato proposto da Foccart. Ma M’ba era gravemente malato e presto servì un sostituto adatto.
Nell’archivio Arfi ha trovato lo scambio di lettere “strettamente confidenziale” dell’autunno del 1966 nel quale Foccart si accordava con l’ambasciatore francese in Gabon sulla figura di Omar Bongo come successore di M’ba. Bongo, giovane capo di gabinetto di M’ba, non era “significativo sul piano politico”, si legge nella lettera. Ma era l’unico di cui ci si poteva fidare: avrebbe sempre “mantenuto stretta la collaborazione e l’amicizia con la Francia”. “Guardi qui”, dice Arfi aprendo di nuovo la cartellina rossa, “il movente, nero su bianco”. Ha cerchiato la frase con un evidenziatore. Una vera perla.
“Per tanti francesi la corruzione è un male qualunque. Per me è un cancro”
Nel 1967, a 31 anni, Omar Bongo diventò presidente. Lo stesso anno fu fondata la Elf, la più grande compagnia petrolifera francese, che oggi si chiama Total. È da lì che dev’essere passata la maggior parte dei soldi per le tangenti destinate ai Bongo.
Omar Bongo era la persona ideale, anche perché amava la Francia, la moda, le auto, i ristoranti, perché era corruttibile e a sua volta pronto a corrompere. Sapeva muoversi nella politica. Dev’essere atterrato a Parigi più volte con una valigia piena di contanti. Prendeva una stanza all’hotel Le Meurice, un cinque stelle proprio accanto al giardino delle Tuileries, e distribuiva soldi ai politici di tutti i partiti, anche ai giovani. Li ha ricoperti di soldi. Si è comprato l’appoggio di un’intera classe politica, l’ha resa dipendente da sé.
La lista dei ministri
A quanto pare, a volte Omar Bongo ha avuto voce in capitolo anche sulla formazione del governo francese. Nel documentario Françafrique di Patrick Benquet si sostiene che Jacques Chirac abbia presentato almeno una volta una lista di potenziali ministri a Bongo. Lui avrebbe cancellato due nomi. A un certo punto, con il suo petrolio era diventato così potente che sembrava quasi che i rapporti di potere si fossero invertiti. Poteva sempre minacciare di favorire altri paesi. Allo stesso tempo voleva restare al centro delle trattative politiche a Parigi. Per anni è andata avanti così. Nell’ambiente della politica, tutti sapevano come stavano le cose. “Non dimentichiamoci”, dice Arfi, “che le vere vittime di questo scandalo sono i popoli sfruttati, cioè i gabonesi”. Il Gabon avrebbe abbastanza risorse per far vivere l’intera popolazione nella ricchezza. Ma nel paese i ricchi sono pochi e la maggioranza delle persone vive in povertà.
Il Gabon dei Bongo era l’esempio più lampante della cosiddetta Françafrique: un intreccio malato e sistematico tra gli interessi francesi e quelli dei leader corrotti che Parigi aveva insediato in Africa. Un prolungamento del colonialismo. Arfi paragona il sistema al patto tra Faust e Mefistofele. La Francia ha messo da parte i suoi princìpi morali.
Omar Bongo ha avuto 54 figli, sia suoi sia adottati. Alcuni hanno studiato a Parigi, come Ali Bongo, che gli è succeduto come presidente del Gabon dopo la sua morte nel 2009. Era uno studente poco preparato e, come ha rivelato il quotidiano Les Echos, probabilmente non si sarebbe mai diplomato se suo padre non avesse minacciato il governo francese. Valéry Giscard d’Estaing, allora presidente, incaricò i servizi segreti di trovare una soluzione. E così gli insegnanti fecero sparire le prove di maturità di tutta la classe di Ali. In questi casi la regola è che gli studenti passino con buoni voti perché è colpa della scuola. Così Ali Bongo si è diplomato.
A volte i numerosi figli di Omar Bongo volavano a Parigi per il fine settimana, giravano in città per acquisti, si coprivano di vestiti firmati e gioielli, soggiornavano nelle loro residenze e poi se ne tornavano a casa nella modesta Libreville.
Il numero 8 di rue Edmond Valentin dev’essere stata una delle seconde case più amate dai Bongo. Oggi è considerato un “bien mal acquis”. È così che i francesi chiamano i beni acquistati con fondi illeciti. Si dice che i Bongo siano proprietari di 21 immobili di questo tipo a Parigi, e solo in indirizzi vicini alla torre Eiffel. Probabilmente li hanno pagati tutti in contanti.
È loro anche il numero 7 in rue François Ier, nell’ottavo arrondissement. L’edificio è proprio dietro l’ambasciata tedesca, il Grand Palais è vicino: cinque piani, una cupola di vetro sul tetto. Le imposte sono chiuse, le tende tirate. E ancora i numeri 33 e 66 di avenue Victor Hugo, sedicesimo arrondissement, simbolo di eleganza, o i numeri 52 e 56 di avenue Foch, sempre nel sedicesimo. In questi complessi residenziali i Bongo possiedono diversi appartamenti.
Le carte di questi e altri immobili, preventivamente sequestrati, ora sono all’esame dei giudici. Diverse persone della famiglia Bongo sono incriminate per corruzione, riciclaggio e appropriazione indebita. Oltre a loro sono coinvolti anche un notaio parigino che li avrebbe aiutati con le transazioni nei paradisi fiscali, la proprietaria di un’agenzia immobiliare e alcuni dirigenti della banca Bnp Paribas, che avrebbero sempre accettato i soldi dei Bongo senza fare domande. I giudici si basano sulle inchieste di Arfi e di altri cercatori di “perle”, per esempio Patrick Benquet, che per il documentario Françafrique ha intervistato molti protagonisti della vicenda. O della ong Transparency international, sempre dalla parte delle vittime di queste azioni.
Finora le istituzioni francesi si sono impegnate poco a fare chiarezza su queste vicende. “In questo paese non c’è una riflessione pubblica sulle questioni morali”, afferma Arfi. “Per la maggior parte dei francesi la corruzione è un male qualunque della democrazia. Per me è un cancro”. Per questo a volte lo chiamano il “giustiziere”, un angelo vendicatore. “Come fossi una specie di Robespierre”, dice.
La maggior parte delle case dei Bongo è vuota. Naturalmente ora spetta al tribunale decidere. In caso di condanna, la città potrebbe chiedere l’esproprio e acquistare le proprietà a prezzi di mercato in modo che rimangano abbastanza soldi per i gabonesi. Prima, però, il denaro entrerebbe nelle casse dello stato francese dove resterebbe depositato. In fondo, chi dovrebbe riceverlo? I nuovi governanti del Gabon, i golpisti? Ci si può fidare? La situazione è complicata.
Ma a quel punto l’amministrazione parigina potrebbe riconvertire le case, ormai ha già esperienza con le soluzioni creative. Recentemente ha espropriato un terreno in centro appartenuto a uno zio del siriano Bashar al Assad e l’ha usato per costruire un asilo nido per i bambini delle famiglie più povere. La proprietà più lussuosa dei Bongo si presterebbe a una buona causa, per una maggiore integrazione sociale nel centro di questa città dove i prezzi sono folli. Ali Bongo aveva comprato l’immobile appena eletto, per cento milioni di euro, come riporta Le Parisien.
Civico 51 di rue de l’Université, nel settimo arrondissement. Il palazzo si chiama Hôtel Pozzo di Borgo: 5.487 metri quadrati di superficie abitabile, stile neoclassico, giardini dove cinguettano gli uccelli. Per trent’anni lo stilista Karl Lagerfeld ha vissuto in affitto in un’ala di quest’immobile, nel quale organizzava le sue feste. Si dice che fosse depresso quando, nel 2010, i proprietari corsi vendettero la casa ad Ali Bongo e lui se ne dovette andare.
A Parigi tutti conoscono il 51 di rue de l’Université, se non altro per il portone blu, dietro il quale si nasconde un cortile lastricato. Pomposo come un ministero. Ma non tutti sanno che appartiene ai Bongo. Ali Bongo ha speso 25 milioni di euro per la ristrutturazione, dice Arfi. Per evitare problemi, ha chiesto al ministero degli esteri francese di registrare la proprietà come sede diplomatica. Non lo era, ma sotto la bandiera del Gabon la casa sarebbe stata sottratta alla legge francese: questo era il piano. Il governo ha accolto la richiesta. Perfino questo è stato concesso dai francesi ad Alì Bongo. Oltre al diploma. E alla sua elezione a presidente. “Il voto è stato truccato, un risultato incredibile”, dice Arfi. “È grottesco”. Come un fumetto. ◆ nv
◆ 1981 Nasce a Lione, in Francia.
◆ 1999 Dopo il diploma entra nella redazione locale di Le Figaro. Prima si occupa di musica, poi di cronaca giudiziaria.
◆ 2008 Comincia a lavorare per il quotidiano online Mediapart.
◆ 2018 Una sua inchiesta svela che nel 2007 l’ex presidente francese Nicolas Sarkozy ha ricevuto finanziamenti illegali dalla Libia per la sua campagna elettorale.
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Questo articolo è uscito sul numero 1544 di Internazionale, a pagina 69. Compra questo numero | Abbonati