Una distesa bianca come neve fresca. O come zucchero, diceva Michelangelo. Un bianco abbagliante. Brilla soprattutto d’estate, quando le Alpi Apuane risplendono come se fossero sbiancate sopra Carrara. Dal basso, passando in autostrada o in treno, tra la Liguria e la Toscana, c’è questo improvviso momento di luce. Lo aspetti, lo desideri. Nonostante il trambusto della vita, tra i drammi grandi e piccoli del mondo in cui viviamo, certe cose dovrebbero restare nel solito posto, sempre uguali a se stesse.

Carrara e il suo marmo, visibile nelle cave sulle montagne disboscate a mille metri d’altezza. Da lontano si vede solo il bianco. Depositi calcarei che si sono compattati trenta milioni di anni fa. Avvicinandosi si scorgono i terrazzamenti spigolosi, forme geometriche intagliate nella montagna.

Il Carrara, così si chiama in Italia il marmo estratto dalle circa cento cave attive nell’omonima località. Come se fosse unico, il non plus ultra, la pietra di tutte le pietre. Come se la città e il suo marmo si fondessero. Ed è proprio così.

Anche se le tracce iniziali d’estrazione risalgono al primo secolo avanti Cristo, il marmo di Carrara, già apprezzato dagli antichi romani, è diventato famoso con gli scultori rinascimentali, tra tutti Michelangelo e Bernini, e con le loro opere: statue, fontane e ovviamente la Pietà, conservata a San Pietro. Lo chiamano anche “l’oro di Carrara”, perché al mondo non c’è marmo più apprezzato e più costoso. I ricchi ci pavimentano bagni e cucine, status symbol nei servizi igienici. I sauditi invece lo usano per ristrutturare la Mecca e si sono comprati alcune quote delle aziende di Carrara.

Questo piccolo comune toscano sul mar Tirreno, alle pendici dell’Appennino, fatto di frazioni e borghi sparsi, ha circa sessantamila abitanti e il marmo è la sua benedizione e la sua maledizione. “Se solo Dio ce ne avesse dato un po’ meno”, commenta il parroco don Raffaello, che i carrarini li conosce bene, forse meglio di tutti.

Questa bellissima pietra plasma da secoli gli abitanti, un popolo di cavatori e artisti che vive quasi esclusivamente di marmo. È la loro monocoltura. Ne vanno fieri perché li ha resi famosi in tutto il mondo, ma soffrono ancora di più per le polveri sottili nell’aria che si depositano nei polmoni, soffrono per la marmettola, il limo velenoso delle cave che sbianca l’acqua dei fiumi, soprattutto quella del Carrione, trasformandola in un brodo lattiginoso. Carrara è la provincia italiana con il maggior numero di tumori, causati dalla sua pietra: quasi ogni famiglia ha un parente deceduto, un martire della montagna. Qui la simbiosi tra gli esseri umani e la natura è fatale, arcaica.

A furia di avere a che fare con il marmo, i carrarini sono diventati duri e ribelli

“Su questo marmo ci sono sangue e sudore”, spiega don Raffaello nella sagrestia del duomo, che è fatto ovviamente in marmo di Carrara, dal cui pulpito ha predicato per quarant’anni, amato da tutti i carrarini, atei e anarchici compresi. È andato in pensione un anno fa, ma si è tenuto le chiavi della chiesa. Ha 87 anni portati bene, parla chiaro e veloce, e ha una mentalità aperta. Va ancora in montagna: qualche giorno fa è salito sul monte Sagro. Vive a Gragnana, ma tutte le mattine sale in auto per venire in città a prendere un caffè al bar vicino al duomo, parlare con le persone e comprare i giornali: l’Avvenire, organo della conferenza episcopale italiana, e Il Fatto Quotidiano, giornale molto vicino al Movimento 5 stelle.

“Bisogna sentire tutte le campane”, dice con una risata. Perché il marmo è troppo? “È come con il formaggio: se la forma è grande, se è bello grasso, attira i topi che se lo mangiano. Sono insaziabili”. Per topi intende i privati che possiedono le cave, anche se in questo contesto il concetto di proprietà privata è assurdo: chi può essere padrone delle montagne?

Il vecchio editto

A Carrara la montagna è proprietà privata dal 1751,a partire dal tanto discusso editto della duchessa Maria Teresa Cybo-Malaspina, che diede alle famiglie che si erano prese una loro cava il diritto di tenerla per sempre in cambio di una piccola tassa, una mancia, niente di più. La regione Toscana e il comune di Carrara hanno tentato più volte di cambiare le cose, senza mai riuscirci. C’è anche da dire che i politici non si sono impegnati più di tanto. “Si sono messi d’accordo”, dice don Raffaello, e sembra proprio che lo consideri un peccato.

Un terzo delle cave carrarine è ancora regolato dal vecchio editto ducale, per le altre invece sono previste concessioni pluriennali che saranno messe di nuovo a bando nel 2042. Ma i padroni delle cave sono già passati al contrattacco, comportandosi da padroni appunto, da proprietari, da dominatori della natura. Decapitano le cime, levigano le montagne. “Le stanno massacrando”, afferma il sacerdote. Con i loro macchinari le scavano e le segano al punto che i non addetti ai lavori si chiedono se a un certo punto cominceranno a vacillare, se crolleranno all’improvviso su Carrara e sulle frazioni: Gragnana, Torano, Colonnata.

L’estrazione del marmo procede frenetica, come se tutto dovesse realizzarsi subito e con il massimo profitto. Colonnata, patria del famoso lardo, dista da Carrara un’avventurosa mezz’ora di autobus e più di cento curve. Lì, per tutta la giornata risuona il rumore sordo delle scavatrici e degli altri macchinari proveniente dalle cave sulle montagne. Risuona anche il segnale acustico dei camion che procedono a marcia indietro. È la colonna sonora del paese, la colonna sonora del saccheggio. Per fortuna c’è il lardo, dolce e aromatico, lasciato a stagionare nelle celle di marmo con la cannella e la noce moscata.

La montagna rapita

A furia di avere a che fare con il marmo e con i padroni, i carrarini sono diventati duri, indomiti e ribelli. Carrara è ancora oggi la culla dell’anarchismo italiano. Non c’è da stupirsi, in queste cave la lotta di classe è stata molto forte. Nell’ottocento, quando i lavoratori erano trattati come gente senza diritti, capitava che le proteste sconfinassero nella violenza e che lo stato reagisse brutalmente schierandosi dalla parte dei padroni. E questo gli abitanti del posto non l’hanno dimenticato. “L’estrazione del marmo è il rapimento della montagna”, ha scritto qualcuno su un muro vicino a piazza Alberica. In più c’è una A cerchiata, il simbolo degli anarchici.

Con il marmo di Carrara, al momento quotatissimo, i padroni guadagnano milioni. Recentemente è venuta in città una troupe di Report, il programma d’inchiesta di Rai3, per osservare da vicino il successo economico e la catastrofe ecologica. La troupe ha girato delle riprese in città e nelle cave, intervistando alcuni industriali, tra cui Alberto Franchi della Franchi Umberto Marmi, un’azienda quotata in borsa. Parlando dei frequenti incidenti sul lavoro nelle cave, Franchi ha detto: “Qui si fanno male perché sono deficienti, purtroppo è colpa degli operai”, poi ha avvertito la sua gente di stare attenta. Non si era accorto che la telecamera era ancora accesa.

La puntata, trasmessa ad aprile, ha suscitato grande indignazione. A Carrara ci sono state manifestazioni, con migliaia di persone in piazza per dire che non avrebbero più tollerato una tale arroganza. Ma poi la squadra locale, la Carrarese, è finalmente tornata in serie B e la rivolta è stata rimandata.

Un laboratorio di scultura. Carrara, 6 aprile 2023 (Alessandro Gandolfi)

La quantità di marmo estratta a Carrara negli ultimi cinquant’anni è superiore a quella estratta in due millenni. Ormai fanno quasi tutto le macchine, che divorano la montagna come fosse di burro e sezionano le Alpi Apuane in blocchi, che dovrebbero essere il più possibile lisci e uniformi e pesare tra le trenta e le quaranta tonnellate. Se hanno queste caratteristiche sono particolarmente preziosi. L’alternativa sono le lastre tagliate su misura, due metri per tre. Colore e consistenza variano in base alle mode del mercato, che a volte vuole un marmo bianchissimo, quasi del tutto privo di venature, altre invece vuole che siano visibili.

I blocchi sono caricati su camion diretti al porto di Marina di Carrara, dove sono imbarcati su navi che vanno in tutto il mondo, comprese India e Cina. I residui dell’estrazione sono macinati fino a ottenere una polvere sottile, il carbonato di calcio, usato per produrre dentifrici, lacche e vernici: un’attività secondaria ma redditizia.

I nuovi macchinari sono talmente efficienti che ormai non ci sono quasi più operai. I cavatori sono persone come Emanuele Zaccagna, 49 anni, spalle larghe e metà della vita passata a lavorare nelle cave. È a capo della Lega dei cavatori, un’associazione sindacale fondata otto anni fa per supplire al fatto che i sindacati tradizionali non si mobilitavano a sufficienza in difesa della categoria. Dopo la puntata di Report, Zaccagna è diventato la voce di Carrara, intervistato anche dai quotidiani nazionali. La Stampa ha usato una sua frase per il titolo: “In quindici anni ho visto morire tre colleghi”.

Zaccagna è anarchico, fa parte del Gruppo Germinal. Quando lo incontriamo si presenta con sette compagni che parlano più che volentieri, con spirito intellettuale, ognuno dice la sua, senza gerarchie. In città ogni gruppo ci tiene alla sua peculiare filosofia. Il Gruppo Germinal è impegnato nel sociale e aiuta chi ha più bisogno.

Sono le 18. Nella sede di Germinal, di fronte al duomo, ci aspetta un cartone di pizza Margherita che agli incontri del gruppo non manca mai. La stanza è piccola e alle pareti sono appesi manifesti delle iniziative passate, insieme ai ritratti dei padri nobili, tra cui l’anarcocomunista Errico Malatesta. Su uno scaffale ci sono dei libri impolverati, alcuni ancora con il prezzo in lire. “Vuoi un pezzo di pizza?”.

Un tempo Zaccagna lavorava sulle piattaforme petrolifere ed era spesso fuori. Da quando è diventato padre fa il cavatore: è un lavoro più stabile, senza trasferte e pagato adeguatamente. Adesso, grazie alle lotte di chi li ha preceduti, i cavatori prendono finalmente uno stipendio degno del loro duro lavoro. Quando la pietra ancora si estraeva a mano, con cunei e picconi, gli operai erano sfruttati per pochi soldi che in parte restituivano immediatamente ai padroni, spendendoli durante le serate passate nei bar e nei bordelli di Carrara, alla ricerca di qualcosa che gli permettesse per qualche ora di dimenticare le preoccupazioni. Bar e bordelli erano di proprietà di quegli stessi padroni.

Zaccagna lavora in una cava a Fantiscritti, all’interno della montagna. All’aperto non ci ha mai lavorato. Si alza alle cinque del mattino, prende l’auto e guida in quella distesa bianca fino a scomparire nelle viscere della montagna. Di solito torna alle quattro del pomeriggio.

“Sono uno di quelli che la montagna la distrugge”, spiega, “è così che ci vedono gli altri”. A Zaccagna piacerebbe che qualcuno dei presenti lo contraddicesse, ma nessuno lo fa. E allora stasera entrambi i ruoli li interpreterà lui, quello dell’anticapitalista e quello del mediatore. È una tristezza, dice, distruggere la montagna con metodi industriali, a ritmi troppo serrati e senza rispetto, impiegando settecento operai invece di diecimila, come succedeva cent’anni fa. Poi si difende dall’accusa che l’estrazione del marmo sia responsabile di tutto, del fiume sbiancato e velenoso, delle alluvioni, dei tumori. A un certo punto si trova perfino a difendere i padroni, incluso quel Franchi visto in tv, che secondo lui non è peggio degli altri. Anzi, i suoi lavoratori li tratta abbastanza bene. Ma Zaccagna è l’unico degli anarchici a pensarla così: per gli altri il capitalista è comunque un oppressore. “La monocoltura è dittatura”, dice qualcuno al tavolo.

È già tardi e la pizza nel cartone s’è raffreddata. “La vita è una”, osserva Zaccagna. “Quando passi dieci, dodici, quattordici ore in un buco, giorno dopo giorno, a estrarre il marmo dalla montagna poi vuoi una piccola rivincita”. Tra i cavatori, racconta, c’è la moda di comprarsi la jeep, la stessa che guidano i padroni. Per “scimmiottarli” ed è un po’ ridicolo. “Nel fine settimana te ne vai in città a bordo della tua jeep. In realtà solo il sabato pomeriggio perché la mattina si lavora”. Carrara è una città povera. Si ha l’impressione che sia quasi voluto, colpisce quanto sia poco curata. “Carrara è buia, cupa, tetra”, così la descrive don Raffaello, sciorinando rapidamente gli aggettivi. “È una città morta”. È piena di marmo: sono di marmo le panchine e gli stipiti di semplici edifici residenziali, il selciato di piazza Alberica, perché questo tipo di pietra abbonda. Ma a parte il marmo c’è poco e niente.

L’ospedale sta per chiudere

Le aziende realizzano enormi profitti quasi senza sforzo, ma continuano a pagare pochissime tasse. Per ogni tonnellata del miglior marmo di Carrara, che frutta circa diecimila euro, alla collettività ne restituiscono 67. In altre parole, estraendo dalla montagna, che in teoria è patrimonio di tutti, un blocco da quaranta tonnellate i padroni incassano 400 mila euro, di cui solo 2.680 vanno alla collettività, ai carrarini. È grottesco e questi soldi sono un’inezia.

L’ospedale sta per chiudere. Lo stadio dei Marmi, dove adesso la Carrarese gioca in serie B, è in rovina. Due scuole su quattro hanno già chiuso, perché in città ci sono pochi bambini. Chi se lo può permettere si trasferisce al mare, a Marina di Carrara, che fa parte dello stesso comune ma è un mondo diverso, fatto di locali sulla spiaggia, ristoranti di pesce e supermercati. In alto ci stanno i montanari, con i loro riti e le loro leggende, le spalle voltate alla costa. In basso c’è la gente di mare, più allegra e solare. E se non fosse per tutti gli artisti, gli statunitensi e i tanti asiatici che lavorano con il Carrara, ispirati dalla vicinanza alla montagna, che la sera vanno in piazza per l’aperitivo al bar Leon d’oro, il centro di Carrara sarebbe quasi vuoto.

La città è prigioniera della sua storia, del mito del territorio, sembra una quinta di teatro sotto quella distesa bianca accecante. La vetrina del negozio di giocattoli di via Loris Giorgi è piena di scavatrici e camion di plastica, come quelli usati nelle cave, per quei pochi bambini che ancora restano in città. Perché il marmo è l’unica cosa rimasta: nelle montagne di Carrara ce n’è ancora tanto. Nessuno sa quanto però. È un dono dall’alto, l’unica speranza di futuro. ◆ sk

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Questo articolo è uscito sul numero 1590 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati