La bambina con gli occhi tristi avrà dieci o dodici anni. Si muove appena mentre fissa la fotocamera del telefono. Quando si muove, i suoi gesti sono lenti e stanchi. L’uomo che sta girando il video si accorge di lei ed esclama con gioia e stupore: “C’è qualcuno qui! C’è qualcuno!”.
Ma lì intorno non c’è nessuno. Solo una luce plumbea e il silenzio della neve che cade. Sono da qualche parte nel sudest della Turchia, una regione che è appena stata devastata da due terremoti di magnitudo 7,8 e 7,5.
L’uomo si avvicina alla bambina, bloccata dal petto in giù da un cumulo di macerie di cemento. È evidente che non si conoscono.
“Hai sete?”, le chiede.
“Ho freddo”, risponde la bambina. “C’è anche mio fratello”.
“Riesci a muoverti?”.
“No”, risponde debolmente la bambina. Nonostante la sua voce stia svanendo, è riuscita finalmente a farsi sentire. Ma nei suoi occhi non c’è speranza. È passata mezza giornata da quando è arrivata la prima scossa, alle quattro del mattino. Presto sarà di nuovo sera.
“Riesci a muovere le gambe?”.
“Molto difficile”, risponde la bambina con voce flebile, quasi incomprensibile. Sul suo volto c’è un’espressione nuova, come se stesse nascondendo qualcosa o si vergognasse di qualche sua mancanza.
La neve è caduta a intermittenza durante la notte, e al mattino sta lentamente stendendo un velo sull’agonia del terremoto, i morti e i moribondi, le rovine delle case e dei palazzi che sono crollati in pochi secondi nella notte.
Si avverte che l’uomo con il telefono non sa bene cosa fare. Da solo non può tirare fuori la bambina da quel mucchio di cemento spaventosamente pesante. Entrambi restano in silenzio. Gli occhi della bambina cominciano a velarsi. La stanchezza e il dolore sono scritti sul suo volto.
“Resta qui. Vado a cercare aiuto. Ti tireremo fuori”.
Ma le parole dell’uomo suonano incerte. Il quartiere, raso al suolo dal terremoto, probabilmente è lontano dal centro della città. Con tutte le strade e i ponti distrutti, i soccorsi non sono ancora arrivati. Difficilmente saranno qui a breve.
Forse alcuni abitanti della zona, usciti vivi dalle macerie delle loro case nell’oscurità, sono andati da un’altra parte a cercare riparo dal freddo. Ma è possibile che, a parte suo fratello, nessuno della famiglia della bambina sia sopravvissuto, quindi che non ci sia nessuno a cercarli.
“Non andare via!”, dice la bambina.
“Devo andare, ma tornerò! Non mi dimenticherò di te. Vado a cercare aiuto”.
Si capisce che la bambina, intrappolata da sola ormai da più di mezza giornata, si sta già preparando a morire e non ha più la forza di opporsi. Eppure dice ancora: “Non andare!”. La sua voce è fioca come un sussurro.
“Ora vado e cerco aiuto!”, ripete l’uomo, e nonostante la sua voce stavolta sia più forte, non riusciamo a credergli davvero. A questo punto la registrazione s’interrompe. Non sappiamo se sia riuscito a trovare aiuto. La sua è una delle centinaia di testimonianze in prima persona che ho guardato quel primo giorno, incollato allo schermo per ore. Come molti altri, l’uomo che ha filmato la bambina intrappolata ha semplicemente pubblicato il video su Twitter, senza aggiungere nessun commento.
Sono rimasto ad aspettare un altro video che mostrasse il salvataggio della bambina, ma non è arrivato.
Trovare aiuto non è facile come potrebbe aver pensato quell’uomo. Secondo i dati del governo, in quella zona circa settemila edifici sono stati distrutti o danneggiati. Il sisma ha colpito anche la Siria. Così come il numero reale delle vittime è probabilmente molto superiore a quello comunicato, anche gli edifici crollati potrebbero essere molti di più. Con le strade chiuse e i telefoni che non funzionano a causa dei blackout e delle reti intasate, ci sono poche informazioni su cosa sta succedendo nelle piccole città di provincia. Da alcuni post sui social network sembra che alcuni villaggi siano stati completamente distrutti. È vero?
Impotenza e frustrazione
Questo è il terremoto più forte in Turchia da più di ottant’anni. È il quarto sisma grave a cui ho assistito, da vicino o da lontano. Dopo il terremoto di Izmit del 1999, che aveva ucciso più di 17mila persone, ero andato a Yalova, una delle città travolte dal disastro. Avevo camminato per ore tra le rovine in preda al senso di colpa, pensando che avrei almeno potuto dare una mano a sgomberare le macerie, per poi tornare a casa senza essere riuscito ad aiutare nessuno. Le immagini di quel giorno mi sono rimaste addosso, insieme a una frustrazione e a una tristezza che cerco invano di dimenticare. Ora sono rimpiazzate da immagini nuove, ma fin troppo familiari. Il senso d’impotenza è schiacciante.
Dato che gli aeroporti sono danneggiati e le strade sono impraticabili, anche le troupe televisive ci hanno messo diverse ore per raggiungere alcune grandi città che il terremoto ha trasformato in panorami d’inferno. Sono arrivate in quelle vie battute dalla neve, dalla pioggia e dal vento, per trovarsi di fronte milioni di persone infuriate che aspettavano aiuto. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità il sisma potrebbe aver colpito 23 milioni di persone tra Turchia e Siria.
Il disastro ha raggiunto proporzioni veramente apocalittiche quando, nove ore dopo la prima scossa di magnitudo 7,8 registrata nella notte, ne è arrivata un’altra di magnitudo 7,5. Questa seconda scossa, il cui epicentro era a circa novanta chilometri dalla prima, ha costretto milioni di persone che erano già fuggite all’aperto ad assistere a scene raccapriccianti. I sopravvissuti avevano vagato per strada alla ricerca di aiuto o di qualcosa da mangiare, rovistando a mani nude tra le rovine o cercando un posto caldo dove rifugiarsi. A quel punto hanno cominciato a filmare la distruzione con i telefoni, gridando “Oh mio Dio!”, mentre in pochi secondi gli edifici crollavano come castelli di carta, lasciando solo montagne di polvere.
Molti hanno pubblicato queste immagini di orrore grottesco sui social network, senza commento, senza didascalia, senza una parola di accompagnamento. In questo modo hanno mandato due messaggi. Il primo è evidente dal loro shock: le sconvolgenti proporzioni della catastrofe. Il secondo è il senso di abbandono e disperazione provato da tutto il paese, straziante quanto il terremoto in sé.
Queste scene apocalittiche hanno immediatamente suscitato un marcato spirito di solidarietà, risvegliando l’istinto a condividere, raccogliere testimonianze, lasciare il segno, farsi sentire. Nel centro di ogni grande città, tra le montagne di detriti sembra che chiunque si trovi abbastanza vicino a un microfono gridi: “Filma qui, filma qui! Abbiamo bisogno di aiuto. Abbiamo bisogno di viveri. Dove è il governo? Dove sono i soccorsi?”.
Strade bloccate
Gli aiuti sono stati inviati, ma i camion sono rimasti bloccati per ore nelle strade paralizzate dal traffico, a centinaia di chilometri dalle aree colpite. Dopo aver perso la casa, la famiglia e tutto ciò che avevano, molte persone scoprono che nessuno sta facendo niente per spegnere gli incendi che cominciano a divampare. Quindi fermano tutti i veicoli ufficiali, tutti gli agenti di polizia e tutti i funzionari del governo che trovano e cominciano a protestare. Non ho mai visto il popolo turco così arrabbiato. Mentre il secondo giorno sprofonda nella sera, i rumori che arrivano dalle macerie diventano più lievi e la gente per strada comincia ad abituarsi all’orrore. Le folle si radunano davanti ai furgoni che distribuiscono pane e aiuti alimentari. Ma la rabbia, l’amarezza e la disperata sensazione di essere stati colti di sorpresa restano immutate.
Il giorno successivo scopro sui social network che alcuni medici hanno deciso di affrontare lunghi viaggi per dare una mano nelle città distrutte dal terremoto, ma sembra che non ci sia nessuna autorità, nessun responsabile a coordinare i loro sforzi quando arrivano. Tra lo sconcerto degli abitanti, anche alcuni ospedali pubblici sono crollati.
Due giorni dopo un po’ di aiuti arrivano nei centri principali. Ma per molti è troppo poco, e troppo tardi. ◆ as
© 2023, Orhan Pamuk
Orhan Pamuk è uno scrittore turco, premio Nobel per la letteratura nel 2006. Il suo ultimo libro è Le notti della peste (Einaudi 2022).
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1499 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati