La durata dell’esperienza percepita è tra i due e i tre secondi. Più o meno quanto ci mette Paul McCartney a cantare il verso “Hey Jude”, come osserva lo psicologo Marc Wittmann. Tutto quello che avviene prima appartiene alla memoria, ciò che segue è anticipazione. È strano, quasi incomprensibile, il fatto che le nostre vite siano vissute attraverso questa piccola finestra in movimento. Chi pratica la mindfulness si sforza proprio di far riposare la coscienza al suo interno. Potremmo imbatterci in qualcosa di simile durante certi istanti del presente, magari mentre ci arrampichiamo in montagna, in un’improvvisazione musicale o mentre facciamo l’amore. Sembra che vivere nel momento sia uno dei benefici del sadomasochismo, come spiegò una volta un estimatore del Bdsm (bondage, dominazione, sadismo e masochismo): “Una frusta è un ottimo modo per far sì che qualcuno sia presente qui e ora. Non può distogliere lo sguardo, e non riesce a pensare ad altro”.
Nel 1971 il libro Essere qui, adesso, del maestro spirituale Ram Dass, contribuì ad avvicinare l’occidente allo yoga. Per buona parte del tempo siamo altrove. Nel 2010 gli psicologi Matthew Killingsworth e Daniel Gilbert hanno pubblicato uno studio in cui, attraverso un’applicazione per iPhone, chiedevano a un gruppo di volontari, in momenti casuali della giornata, cosa stessero facendo o pensando e quanto fossero felici. I ricercatori hanno scoperto che, in circa la metà delle volte, la mente delle persone stava vagando, spesso ricordando il passato o contemplando il futuro. Questi frangenti erano, in media, meno piacevoli del momento presente. Spesso i pensieri rivolti al futuro sono associati all’ansia e alla paura, mentre i pensieri del passato possono essere pieni di rimpianto, imbarazzo e vergogna.
Alla fine della loro vita spesso le persone rimpiangono di non aver agito
Eppure è essenziale che la mente viaggi nel tempo. In una favola di Esopo le formiche rimproverano una cicala per non aver raccolto il cibo per l’inverno. La cicala, che vive nel presente, ammette: “Ero così occupata a cantare che non ho avuto il tempo”. È importante trovare un giusto equilibrio tra vivere nel momento e uscirne. Tutti conosciamo qualcuno che vive troppo nel passato o si preoccupa troppo del futuro. Alla fine della loro vita, spesso le persone rimpiangono soprattutto di non aver agito, a causa di preoccupazioni irrealistiche per le conseguenze che avrebbero avuto quelle azioni. Altre persone, indifferenti al futuro o sprezzanti del passato, diventano sprovveduti amanti del rischio o semplicemente degli imbecilli. Qualsiasi persona di buon senso deve vivere, in una certa misura, fuori dal momento. Potremmo anche pensare che alle nostre coscienze faccia bene muoversi nel tempo, visto che questa mobilità interiore fa parte di una vita piena e soddisfacente.
Anche a livello collettivo fatichiamo a trovare un equilibrio. È una critica diffusa che, come società, siamo troppo fissati sul presente e sull’immediato futuro. Nel 2019, in un discorso alle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, la giovane attivista Greta Thunberg inveì contro l’inerzia dei politici: “I giovani cominciano a capire il vostro tradimento”, disse. “Gli occhi di tutte le generazioni future sono su di voi”. Ma se quell’inerzia è un tradimento, molto probabilmente non è intenzionale: è solo che i nostri attuali piaceri e disagi sono, nelle nostre menti, molto più importanti rispetto ai destini dei nostri discendenti. Ma c’è anche chi si preoccupa del fatto che siamo troppo orientati al futuro. Un’obiezione tipica ai piani a lungo termine, come il programma Apollo del presidente statunitense John F. Kennedy o
SpaceX dell’imprenditore Elon Musk, è che il denaro sarebbe speso meglio destinandolo a chi ne ha bisogno adesso. Altri si lamentano che siamo troppo concentrati sul passato, o sulla sua ricostruzione nostalgica. Passato, presente, futuro; la storia, quest’anno, i decenni a venire. Come dovremmo bilanciarli nella nostra mente?
Meghan Sullivan, filosofa all’università di Notre Dame, negli Stati Uniti, riflette su questi interrogativi nel suo saggio Time biases: a theory of rational planning and personal persistence (Distorsioni temporali: una teoria sulla pianificazione razionale e la perseveranza personale). Sullivan si occupa principalmente di come ci relazioniamo con il tempo e pensa che molti di noi lo facciamo male, perché soffriamo di un “pregiudizio (bias) temporale”, cioè abbiamo preferenze immotivate su quando gli eventi dovrebbero succedere. Per esempio possiamo avere un “pregiudizio sull’immediatezza”: mangiamo i popcorn quando il film sta per cominciare, anche se forse ce li potremmo godere di più aspettando. O un “pregiudizio sul futuro”: ci turba un compito spiacevole che dovremo svolgere domani, anche se non c’infastidisce per niente il ricordo di aver fatto un compito altrettanto sgradevole ieri. O forse abbiamo un “pregiudizio strutturale”, quando preferiamo una certa sequenza temporale per le nostre esperienze: pianifichiamo la vacanza in modo che la parte migliore arrivi alla fine. Secondo Sullivan questi pregiudizi temporali sono errori. La filosofa è favorevole a una neutralità temporale, un’attitudine mentale che conferisce al passato, al presente e al futuro lo stesso peso. La studiosa arriva a queste conclusioni descrivendo diversi princìpi del processo decisionale razionale. Secondo il principio del successo, scrive Sullivan, una persona razionale preferisce che “la sua vita vada sempre al meglio”; secondo il principio della non arbitrarietà, le preferenze di una persona razionale “sono insensibili alle differenze arbitrarie”. Impegnandoci a essere razionali, sostiene Sullivan, saremo più neutrali rispetto al tempo, e la neutralità temporale ci aiuterà a pensare meglio ai problemi quotidiani, come prendersi cura dei genitori anziani nel migliore dei modi e risparmiare per la pensione.
Forse il nostro più grande errore sul tempo è il pregiudizio sull’immediatezza. Ci sono occasioni in cui questo tipo di preconcetto può essere razionale: se qualcuno vi proponesse di scegliere tra un dono di mille dollari oggi o tra un anno, sareste giustificati, per una serie di ragioni, a prendere i soldi ora (potete metterli in banca incassando gli interessi; inoltre c’è la possibilità di morire nel giro di un anno; infine, chi vi offre i soldi potrebbe cambiare idea). Tuttavia, succede più spesso che, come dicono gli economisti, “scontiamo” con troppa rapidità il valore di ciò che verrà. Questa distorsione ci orienta nelle nostre decisioni quotidiane. Tendiamo a essere freddi e razionali quando pianifichiamo un futuro distante, ma perdiamo il controllo quando le tentazioni si avvicinano nel tempo. In un saggio intitolato The intimate contest for self-command (L’intima gara per l’autocontrollo), del 1980, il premio Nobel per l’economia Thomas C. Schelling descrive il consumatore presumibilmente razionale come qualcuno che in realtà “sta seduto incollato alla tv, sapendo che anche domani si sveglierà presto con i sudori freddi, impreparato per quella riunione da cui dipende gran parte della sua carriera”.
Le chiavi dell’auto
Lottiamo per sconfiggere il pregiudizio sull’immediatezza, per essere come Ulisse, che fece legare i suoi marinai all’albero maestro per resistere al canto delle sirene. Chi è a dieta compra cibo in porzioni piccole. I bevitori consegnano le chiavi dell’auto agli amici. Mio figlio minore a un certo punto aveva una sveglia che quando suonava si allontanava. Possiamo provare a negoziare con noi stessi: mangio quello che voglio ma solo tra mezzogiorno e le otto di sera; mangio quello che voglio ma solo nella giornata di sgarro. Posso andare su Twitter, ma prima lavoro su questo articolo per altri trenta minuti.
Se il pregiudizio sull’immediatezza è irrazionale, sostiene Sullivan, lo è anche quello sul futuro. Immaginate di esservi allenati a lungo per una competizione di triathlon. È arrivato il giorno della gara. Il tempo è bello, siete in forma, ma non avete voglia di partecipare. Supponiamo che siate abbastanza certi che, se non partecipate, non rimpiangerete questa scelta in futuro. Dovreste correre, anche se non ve la sentite? Per Sullivan dovreste prendere in considerazione questa possibilità. Potreste giustificare questa scelta con un approccio orientato al futuro: forse, se restate a casa, tenderete a vedervi come il tipo di persona che fa piani e poi li abbandona, e questo vi scoraggerà dal fare ulteriori piani. Ma un’altra considerazione è che non c’è motivo di prendere gli obiettivi attuali più seriamente di quelli passati. “Il semplice fatto che un piano sia stato fatto in passato non è una ragione per ignorarlo ora”, scrive Sullivan. Trascurarlo rivela una volontà irrazionale di sottovalutare ciò che è successo in passato, semplicemente perché è passato. Perché dovremmo essere prevenuti sul passato e avere una propensione verso il futuro?
Perché dovremmo essere prevenuti sul passato e propendere verso il futuro?
Sullivan propone un esempio inventato dal filosofo Derek Parfit. Supponiamo che abbiate bisogno di un intervento chirurgico. È una cosa poco piacevole, durante la quale dovete essere vigili, per poter collaborare con il chirurgo. Al termine, vi sarà dato un farmaco che cancella il ricordo dell’esperienza. Il giorno stabilito, vi svegliate nel letto d’ospedale, in stato confusionale, e chiedete all’infermiera dell’intervento. Lei dice che ci sono due pazienti nel reparto: uno ha già subìto l’operazione e l’altro la subirà presto. Aggiunge che, stranamente, l’operazione già avvenuta ha richiesto molto più tempo del previsto. Non è sicura di quale paziente voi siate, e deve andare a controllare. Sareste molto sollevati, dice Parfit, se l’infermiera tornasse e vi dicesse che avete già subìto l’operazione. In altre parole, preferireste consegnare al vostro io passato una procedura lunga e straziante per evitare una procedura che sta per cominciare.
C’è una logica evolutiva dietro questo tipo di pregiudizio. Come afferma Caspar Hare, un filosofo del Massachusetts institute of technology (Mit), “non è un caso che abbiamo un pregiudizio sul futuro quando si tratta di dolore. Questa caratteristica è stata selezionata dall’evoluzione”. Nel complesso, scrive Hare, è plausibile che gli animali maggiormente focalizzati sul futuro siano sopravvissuti più a lungo e si siano riprodotti di più. “E una modalità cognitiva efficace per far convergere l’attenzione pratica di un essere vivente sul futuro è quella di far sì che si preoccupi molto dei dolori futuri e per nulla dei dolori passati. Uno schema di attenzione che produce una naturale preferenza per il dolore passato piuttosto che per quello futuro”. Tuttavia, nella vita moderna, il nostro pregiudizio sul futuro può avere conseguenze perverse. Prendiamo uno studio dello psicologo Eugene Caruso e dei suoi colleghi. I ricercatori hanno chiesto alle persone d’immaginare di aver accettato d’inserire dati in un computer per cinque ore, e poi di dire quanto avrebbero dovuto essere pagati per quel lavoro. Quando i soggetti immaginavano di aver fatto l’inserimento dei dati un mese prima, chiedevano una media di 62 dollari. Ma se immaginavano di farlo da lì a un mese, volevano una media di 125 dollari. In un altro esperimento Caruso e i suoi colleghi hanno fatto leggere ai partecipanti due versioni di una storia su una donna che era stata gravemente ferita da un autista ubriaco. In una versione l’incidente era avvenuto sei mesi prima, nell’altra era successo in quel momento. Mantenendo invariato il resto, i volontari attribuivano alla donna molti più danni quando l’incidente era più recente. Questi non sono effetti marginali e, come notano gli psicologi, hanno un rilievo pratico. “Le vittime di incidenti farebbero meglio a chiedere un risarcimento prima di guarire dall’infortunio”, scrivono. Allo stesso modo, “gli impiegati farebbero meglio a stabilire quanto valga una prestazione superiore agli obiettivi prefissati prima di superarli”. Negoziate il vostro bonus prima di lavorare per aumentare il valore della vostra azienda. Una volta fatto il lavoro, gli individui con un pregiudizio sul futuro lo apprezzeranno meno.
Proprio come con i pregiudizi sull’immediatezza, superiamo più facilmente i pregiudizi sul futuro quando pensiamo ad altri piuttosto che a noi. Hare offre la sua versione dell’esperimento mentale di Parfit: immaginate di svegliarvi, intontiti, non sapete se avete subìto un doloroso intervento odontoiatrico ieri o se dovete sottoporvi a un’operazione un po’ meno invasiva nel pomeriggio. Probabilmente sperate che l’operazione si sia già conclusa, optando per un maggior dolore nel passato piuttosto che per un minor dolore nel futuro. Ma ora, scrive, supponiamo che non siate voi a dover affrontare questa scelta, ma vostra figlia, e che lei sia lontana, in un remoto ritiro solitario, e che non avrete contatti con lei per altri due mesi. Preferireste che avesse avuto un’operazione più dolorosa ieri o che fosse sottoposto a un’operazione meno dolorosa più tardi oggi? Per Hare, e anche per me, il pregiudizio sul futuro scompare.
Nel campo di concentramento
È sorprendente pensare che il passato ha un peso non solo perché influenza il futuro, ma perché ha un valore intrinseco. Nel suo libro L’uomo in cerca di senso (FrancoAngeli 2017) lo psichiatra e superstite dell’olocausto Viktor Frankl ricorda un discorso che fece in un campo di concentramento quando la situazione era disperata. I prigionieri venivano affamati per punizione e Frankl temeva che alcuni si sarebbero uccisi. Gli parlò del presente (potrebbe andare peggio) e del futuro (potrebbe andare meglio), ma poi considerò la vita in retrospettiva: “Parlai anche del passato, di tutte le sue gioie e della luce che esso emanava, pur nell’oscurità dei nostri giorni. Parlai non solo di ciò che abbiamo vissuto, ma anche di quello che abbiamo fatto, ciò che di grande abbiamo pensato e ciò che abbiamo sofferto. Tutto questo l’abbiamo salvato rendendolo reale, una volta per sempre. E anche se si tratta di un passato, è assicurato per l’eternità. Perché essere passato è ancora un modo di essere. Anzi, forse è il più sicuro”.
Rispetto al tempo è possibile assumere una posizione più radicalmente neutrale di quella di Sullivan. Lei è ciò che i filosofi definiscono “un’endurantista”: presuppone che la vita di un individuo si estenda nel tempo, in un passato, un presente e un futuro. Questo potrebbe sembrare ovvio, ma non è universalmente accettato. Parfit è stato uno dei tanti filosofi a sostenere che l’identità personale permanente è un mito. Ci consideriamo individui singoli che si muovono nel tempo e nello spazio, ha scritto, ma è un’illusione. Ogni persona invece dovrebbe essere concepita come una serie d’individui distinti, sovrapposti e interconnessi tra diversi stati fisici e psicologici. Come ha scritto sul New Yorker Larissa MacFarquhar nel ritratto che ha dedicato a Parfit, lui stesso trovava liberatoria questa visione. Vedendo il suo sé futuro come qualcun altro, afferma, “ero meno preoccupato per il resto della mia vita, e più interessato alle vite degli altri”.
Un simile rifiuto dell’identità personale è spesso bollato come velleitario. La filosofa Emily Thomas l’ha citato come esempio di “metafisica esageratamente implausibile”. Ma la psicologia e le neuroscienze hanno dimostrato che noi, in effetti, pensiamo ai nostri sé futuri come persone diverse. Gli studi hanno rivelato che, quando immaginiamo un evento nel futuro prossimo, tendiamo a vederlo da una prospettiva in prima persona. Immaginando un evento nel futuro lontano, tendiamo a vederlo in terza persona. Quando prendiamo decisioni sulla vita nel presente, spesso applichiamo a noi stessi standard diversi rispetto ad altre persone. Ma quando prendiamo decisioni sul nostro sé futuro, usiamo gli stessi standard. È stato perfino dimostrato che pensare a noi nel futuro, a livello neurale, somiglia al pensare in terza persona. Entrambi provocano uno schema di attivazione cerebrale diverso da quello creato quando pensiamo a noi nel presente.
A me il punto di vista di Parfit sembra innaturale. Se venissi a sapere che ho una malattia terminale e che in pochi anni vivrò una morte dolorosa, la mia reazione alla notizia sarebbe qualitativamente diversa da quella che avrei se sentissi la stessa cosa riguardo a qualcun altro, anche se fosse una persona cara. Sullivan, da parte sua, nota che alcuni dei modi in cui percepiamo noi stessi – in quanto genitori, per esempio, o atleti – implicano che siamo esseri che si estendono nel tempo.
Quando immaginiamo il futuro, lo vediamo in prima persona
È difficile dare un senso alle relazioni e ai progetti a lungo termine se una persona è in realtà diversi individui vagamente connessi e distribuiti nel tempo. Eppure, abbiamo visto che alcune impressioni istintive sull’importanza del tempo – ora contro dopo, passato contro futuro – potrebbero non sopravvivere alla riflessione. Forse dovremmo disfarci anche della nostra nozione d’identità personale. Nel 1992 Parfit collaborò con l’economista Tyler Cowen per sostenere, nel capitolo di un libro, che i nostri governi sono troppo propensi a ignorare le sorti delle persone future. Parfit e Cowen suggerivano che anche una piccola distorsione in favore del presente, rispetto al futuro, poteva avere enormi conseguenze nel tempo. Supponiamo che un politico affermi che una vita ora è pari a 1,01 vite tra un anno e così adotti politiche che favoriscono cento persone ora rispetto a cento persone l’anno prossimo. Non sembra avere importanza, ma questo “tasso di sconto” dell’1 per cento all’anno implica che preferiremmo salvare una sola vita ora, al costo di un milione di vite tra circa millequattrocento anni. Con un tasso di sconto del 10 per cento, una vita ora varrebbe un milione tra solo un secolo e mezzo. Anche se nessuno al potere ragiona in questi termini, molte delle nostre decisioni favoriscono il presente sul futuro.
In Stubborn attachments (Attaccamenti ostinati), un libro del 2018, Cowen ha approfondito quest’idea, chiedendo come si possano combattere i pregiudizi a livello sociale e promuovere meglio gli interessi delle prossime generazioni. C’è “una molteplicità di valori rilevanti” che potremmo voler considerare nel nostro ribilanciamento temporale, scrive, “compreso il benessere umano, la giustizia, l’equità, la bellezza, le vette artistiche della creazione umana, la virtù della misericordia” e così via. Cowen conclude che il modo migliore per massimizzare tutte queste cose per il futuro è aumentare la crescita economica (che non si basa solo sul pil, ma include vari indici di “tempo libero, produzione familiare e servizi ambientali”). Il bello della crescita economica, secondo Cowen, è che ha il potenziale di far progredire tutto ciò che la gente apprezza. “Le società più ricche hanno standard di vita migliori, medicine migliori, e offrono una maggiore autonomia personale, una maggiore realizzazione e più fonti di divertimento”, scrive. L’economista sottolinea che negli ultimi decenni la disuguaglianza è aumentata all’interno dei paesi più ricchi, ma osserva anche che, come conseguenza della crescita economica globale, “la recente storia mondiale è stata un periodo straordinariamente egualitario”: nel complesso i paesi stanno raggiungendo una maggiore uguaglianza. In termini di felicità, Cowen mostra che ci sono notevoli indizi a sostegno dell’opinione comune secondo cui i cittadini dei paesi ricchi sono più felici dei cittadini dei paesi poveri, e che, all’interno dei paesi ricchi, gli individui più ricchi sono più felici di quelli più poveri. I dati in realtà sottovalutano la forza dell’effetto, scrive Cowen, perché a molti studi manca l’aumento di felicità che viene dal trascorrere più anni sulla Terra: “I ricercatori non interrogano i morti”.
Cowen simpatizza con la scuola di pensiero nota come altruismo efficace, secondo la quale dovremmo usare dati e ricerche per capire come massimizzare il bene per il maggior numero di persone. Teme però che questo tipo di altruisti siano troppo inclini a pensare al massimo bene altrui nel presente. Un altruista efficace potrebbe sostenere che bisognerà spendere i soldi per aiutare i poveri invece che usarli per un qualche lusso personale. Ma, per Cowen, un tale suggerimento è troppo orientato al presente. Anche un minimo stimolo al tasso di crescita ha enormi ramificazioni negli anni a venire.
“Il nostro primo dovere è contribuire a una crescita economica sostenibile”, scrive, “e incoraggiare una globale diffusione della civiltà, piuttosto che impegnarsi in una mera redistribuzione caritatevole di massa”. In generale, Cowen pensa che i politici dovrebbero essere più orientati al futuro. Dovremmo investire meno risorse per migliorare la vita degli anziani e dedicare più risorse ai giovani e ai nascituri. La maggior parte dei politici si opporrebbe a questo suggerimento, ma quando fanno il contrario, be’, anche quella è una scelta.
Cowen, secondo me, glissa sul problema dei rendimenti decrescenti. Supponiamo che il nostro benessere aumenti di cento volte. La vita sarebbe migliore, ma anche la nostra felicità aumenterebbe di un multiplo di cento? Dopo una certa soglia, potrebbe avere senso preoccuparsi meno della crescita. Forse i più privilegiati tra noi sono già prossimi a quel punto. Ma queste sono stime difficili da fare. I re babilonesi potrebbero aver pensato di vivere la migliore vita possibile, senza rendersi conto che, in futuro, anche un comune cittadino sarebbe stato più saggio e libero dal dolore, e avrebbe vissuto di più, mangiando meglio e viaggiando spesso.
Rigorosamente neutrali
Che si sia d’accordo o meno con la tesi di Cowen, ci sono ovvie buone ragioni per adottare la neutralità temporale a livello sociale. È meno ovvio che abbiamo l’obbligo di essere rigorosamente neutrali rispetto al tempo come individui. Se possiamo assecondare i nostri pregiudizi temporali senza commettere tremendi errori di giudizio, perché non dovremmo? Perché non distribuire i nostri piaceri e dolori in modo disomogeneo nel corso della vita, se crediamo che, per noi, farlo contribuirà a “far sì che la vita vada avanti nel miglior modo possibile”? Per molti, come scrisse Seneca, “le cose che furono dure da sopportare sono dolci da ricordare”. Intraprendiamo attività che sappiamo essere difficili o ingrate perché le vediamo come parte di una buona vita e vogliamo soffermarci a ricordarle in futuro. Curiamo il nostro presente per arredare il nostro futuro con i giusti tipi di passato. Se questo pregiudizio benevolo ci incoraggia a intraprendere cose difficili, non è forse saggio assecondarlo?
Rinunciare a tutti i nostri pregiudizi temporali sarebbe chiedere troppo
Molte persone presumono che una buona vita sia una vita disposta in un certo modo. Gli psicologi riscontrano che le persone tendono a preferire l’idea di una vita meravigliosa che s’interrompe bruscamente all’idea di una vita altrettanto meravigliosa che prevede alcuni anni aggiuntivi moderatamente piacevoli: è “l’effetto James Dean”. C’è pure il fascino di cominciare dal peggio per poi vedere le cose migliorare. Andy Dufresne, il protagonista del film Le ali della libertà, tratto da un romanzo di Stephen King, è stato condannato per duplice omicidio ma si dichiara innocente. Passa ventotto anni in prigione prima di rubare milioni di dollari al suo direttore corrotto e fuggire, vivendo poi il resto della sua vita su una spiaggia messicana. È un racconto entusiasmante e potente, ma se si invertisse l’ordine (paradiso costiero e poi prigione brutale), sarebbe impossibile goderselo. Dalle stalle alle stelle batte dalle stelle alle stalle, anche se il bene e il male sono in perfetto equilibrio. Forse questo è ciò che Sullivan chiama un pregiudizio strutturale. Ma senza struttura non c’è storia, e le storie sono cose da tenere strette.
È vero che pensare con un pregiudizio sul tempo può trarre in inganno. Immaginate di ascoltare una sinfonia per novanta piacevoli minuti e poi, alla fine, suona un cellulare, segue un chiassoso rimprovero e una risatina soffocata. Potreste affermare che questi terribili trenta secondi hanno rovinato l’esperienza, anche se il precedente 99 per cento è stato meraviglioso; e pensare che, se il telefono avesse suonato all’inizio, sarebbe stato un inconveniente minore. Ma un’interruzione nel finale è davvero peggio di un’interruzione nell’ouverture? Le argomentazioni di Sullivan mostrano che dovremmo provare a riconsiderare questo tipo di intuizioni e che dovremmo diffidare, in generale, degli strani pensieri a cui possono condurci. In una storica serie di studi, Daniel Kahneman e i suoi colleghi hanno sottoposto i volontari a due esperienze diverse: sessanta secondi di dolore moderato e sessanta secondi di dolore moderato seguiti da trenta secondi di dolore lieve. Quando hanno chiesto alle persone quale esperienza avrebbero preferito ripetere, la maggior parte ha scelto la seconda esperienza, solo perché finì meglio. C’è ben poco da dire sulla scelta di un dolore più intenso solo perché l’esperienza finisce su una nota positiva.
Eppure rinunciare ai nostri pregiudizi temporali sarebbe chiedere troppo. Sembra che siamo fatti per favorire il qui e ora, per svalutare drasticamente il futuro lontano, e per dare un peso speciale a come si concludono le esperienze. Possiamo orientarci verso una neutralità temporale, lottando contro certi pregiudizi sul tempo, proprio come resistiamo ad altri pregiudizi e preferenze irragionevoli. Questo può renderci più razionali, più gentili con gli altri e, a volte, più felici. ◆ sb
Paul Bloom insegna psicologia all’università di Yale, negli Stati Uniti. Ha scritto Contro l’empatia. Una difesa della razionalità (Liberilibri 2019).
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Questo articolo è uscito sul numero 1438 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati