Al suo arrivo in Papua Nuova Guinea il 7 settembre, il papa Francesco è stato accolto da bambini che portavano fiori, da ventuno salve di cannone e da una fiaccolata. Era da trent’anni che un papa non viaggiava nelle isole del Pacifico. Questa regione profondamente devota ha avuto un ruolo poco noto nello scandalo legato agli abusi sessuali nella chiesa cattolica. Lo si apprende da documenti processuali, indagini governative, testimonianze, inchieste giornalistiche e commenti di funzionari ecclesiastici.

Nei decenni passati almeno dieci tra preti e missionari si sono trasferiti in Papua Nuova Guinea dopo essere stati accusati o condannati per abusi su minori nei paesi occidentali. A questi se ne aggiungono almeno altri 24 che hanno lasciato in circostanze simili la Nuova Zelanda, l’Australia, il Regno Unito e gli Stati Uniti per andare in paesi del Pacifico come le Fiji, le Kiribati e le Samoa. In almeno tredici casi i loro superiori sapevano delle accuse e delle condanne a loro carico precedenti ai trasferimenti e li hanno protetti da ulteriori accertamenti.

In diversi casi il trasferimento sembra aver offerto una via di fuga

È stato ampiamente documentato come la chiesa abbia protetto dalle autorità molti sacerdoti trasferendoli, a volte in altri paesi. Nel caso delle isole del Pacifico, tuttavia, la lontananza ha reso più difficile per le autorità portarli in tribunali, e al tempo stesso i ricollocamenti li hanno assegnati a comunità vulnerabili in cui i preti erano considerati figure al di sopra di ogni sospetto. Almeno tre di loro avrebbero continuato a commettere abusi dopo il trasferimento. Per la gran parte questi uomini sono stati mandati o hanno prestato servizio in quindici paesi o territori della regione negli anni novanta. Uno fa ancora il sacerdote itinerante a Guam, territorio statunitense, e un altro è rientrato in Nuova Zelanda, dove la chiesa cattolica ha cancellato tutte le accuse a suo carico consentendogli di riprendere servizio. Entrambi respingono le accuse.

Dopo la Papua Nuova Guinea, il papa è andato a Timor Leste. Nel 2022 il Vaticano ha punito il vescovo Carlos Ximenes Belo, eroe dell’indipendenza del paese e premio Nobel per la pace nel 1996, per aver stuprato e abusato di alcuni adolescenti a Timor Leste. Francesco ha più volte chiesto scusa per lo scandalo degli abusi nella chiesa e ha ordinato al clero di riferire le accuse di abusi e insabbiamenti. Ma secondo le vittime i rimedi proposti non sono all’altezza delle sue parole.

Michelle Mulvihill, ex suora e consigliera per la chiesa cattolica australiana, accusa da tempo le organizzazioni cattoliche di usare le isole del Pacifico come “discarica” per i sacerdoti molestatori. “Stiamo trasferendo pedofili nei paesi più poveri del mondo”, dice Mulvihill. La chiesa “ha usato questi paesi per sbarazzarsi di persone che non voleva affrontare”. Per tutti i sacerdoti e i missionari in questione si tratta di accuse o condanne già documentate, ma per più di una decina di loro è la prima volta che si parla dei trasferimenti nel Pacifico e del fatto che sembrano rientrare in uno schema preciso.

Accordo economico

Alle isole Fiji una delle prime accuse pubbliche di abusi contro un sacerdote risale al 2022, quando Felix Fremlin ha denunciato di essere stato molestato da bambino da missionari neozelandesi. Il padre non gli ha creduto e per tutta risposta l’ha picchiato. “Dire qualcosa contro la chiesa è come dire qualcosa contro dio”, dice Fremlin, che è stato allontanato da molti familiari e soffre di depressione. La corrispondenza tra il suo avvocato e i funzionari cattolici mostra che Fremlin ha stretto con loro un accordo economico. Casi come questo, dice Mulvihill, sono stati possibili proprio per come è organizzata la chiesa. Molti dei sacerdoti accusati appartengono a ordini cattolici e dovrebbero essere sotto la supervisione dei loro diretti superiori e non di vescovi e arcivescovi diocesani. Altri erano sacerdoti di diocesi e dunque dovevano avere l’approvazione dei vescovi o arcivescovi locali prima di essere trasferiti. Probabilmente però, dice Mulvihill, i vescovi “non facevano domande”.

Ciascun ordine e diocesi riferisce in ultima istanza al Vaticano e il portavoce del Vaticano, Matteo Bruni, ha dichiarato di non essere a conoscenza di questi casi e ha ritenuto quindi inopportuno commentare. Ha sottolineato “l’impegno di Francesco a garantire tolleranza zero sugli abusi” e ci ha rimandato alle singole diocesi e ai singoli ordini. Abbiamo chiesto un commento agli ordini e alle diocesi dei 34 uomini, ma molte non hanno risposto e alcune hanno rifiutato di commentare. Chi ha risposto ha dichiarato per lo più di non avere documentazione su quegli uomini o di aver saputo degli abusi solo dopo il loro rientro dall’estero.

Ventidue di questi sacerdoti e missionari sono stati condannati per abusi, sono rei confessi o le accuse nei loro confronti sono state ritenute credibili dai loro ordini religiosi e dalle loro diocesi. Altri quattro sono morti prima che le accuse contro di loro diventassero di dominio pubblico. Tre hanno respinto le accuse, sono stati indagati dalla polizia ma hanno evitato un processo per ragioni di salute o di idoneità mentale. Altri tre hanno respinto le accuse dei pubblici ministeri, e non sono stati processati per ragioni diverse.

Il cristianesimo e il cattolicesimo si diffusero nelle isole del Pacifico nel settecento e nell’ottocento attraverso la stretta collaborazione tra missionari e capi locali. Oggi in molti paesi della regione più del 95 per cento della popolazione si dichiara cristiana. Il reverendo Julian Fox ha insegnato per decenni in diverse scuole cattoliche vicino a Melbourne, in Australia, dov’è nato, dopo essere stato ordinato sacerdote. È poi diventato capo dei salesiani di don Bosco in Australia. Secondo alcuni documenti di un’inchiesta ordinata dal governo australiano, però, nel 1999 fu trasferito alle Fiji.

Più o meno nello stesso periodo, un ex studente lo accusò di stupro. I dirigenti ecclesiastici non gli chiesero di tornare in Australia dopo aver saputo di altre accuse di molestie a suo carico. Aveva il diritto di restare alle Fiji, al riparo dalle autorità australiane. Dopo anni nell’arcipelago, ha ottenuto un incarico in Vaticano. Secondo i mezzi d’informazione, la chiesa ha risolto in privato la prima accusa di abusi a suo carico con un accordo finanziario. Poi, nel 2015 è stato condannato per aver abusato di cinque bambini, alcuni dei quali picchiati e stuprati con una stecca da biliardo. I salesiani a Melbourne non hanno risposto alle richieste di un commento e non è stato possibile rintracciare padre Fox.

In molti casi i funzionari della chiesa sapevano, prima di inviarli nel Pacifico, che i sacerdoti e i missionari avevano commesso degli abusi. Nel 1986 una coppia andò da un sacerdote a Baltimora per parlargli di frate William Morgan, un missionario statunitense tornato per un breve periodo dalla Papua Nuova Guinea. È quanto rivela un rapporto di diversi anni dopo dell’ufficio del procuratore generale del Maryland. Secondo gli appunti del sacerdote di Baltimora citati nel rapporto, la coppia aveva riferito che frate Morgan aveva toccato con il pene la loro nipote di quattro anni e che in passato aveva molestato altri bambini. Una lettera del sacerdote mostra che frate Morgan aveva poi ammesso di aver “palpeggiato” spesso bambini mentre era in Papua Nuova Guinea. Nonostante questo, i superiori del suo ordine, la Società del verbo divino, lo rimandarono sull’isola per altri cinque anni. L’ufficio del procuratore generale del Maryland, che ha ottenuto gli appunti e la corrispondenza, non ha trovato traccia di denuncia alle autorità.

Una rete di sostegno

In vari casi il trasferimento nel Pacifico sembra aver offerto una via di fuga. Nel 1971 l’ordine ospedaliero di san Giovanni di Dio nominò frate Rodger Moloney direttore della Marylands school di Christchurch, in Nuova Zelanda. Il suo compito era prendersi cura di bambini disabili. Da un’indagine del governo neo­zelandese emerse che sei anni dopo qualcuno in forma anonima aveva riferito al suo superiore in Australia le molestie di Moloney su un bambino. Nei mesi successivi il frate fu trasferito in Vaticano, a lavorare in una farmacia. L’inchiesta ha accertato che in seguito andò in Papua Nuova Guinea, dove lavorò negli anni ottanta e novanta, per poi finire in Australia. Nel 2006 fu estradato in Nuova Zelanda e condannato a quasi tre anni di carcere per molestie su cinque bambini. È morto nel 2019.

Alle Fiji Fremlin oggi coordina una rete di sostegno per le vittime dei sacerdoti. Tutti “hanno problemi coniugali e di lavoro”, dice. “Alcuni sono violenti con le donne, altri sono tossicodipendenti”. E aggiunge: “Voi avete degli specialisti. Qui non abbiamo nessuno. Le uniche occasioni di supporto sono i momenti in cui ci sediamo e parliamo tra noi”. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1580 di Internazionale, a pagina 30. Compra questo numero | Abbonati