La politica britannica ha un gusto spiccato per le baracconate. Trasforma il parlamento in un teatrino chiassoso e la campagna elettorale in una sfilata di pagliacci. Ogni spettacolo è diverso dall’altro, perché i candidati non sono mai gli stessi, ma certe consuetudini e un repertorio scontato danno la sensazione del già visto. C’è la farsa (conversazioni private scottanti a microfono aperto); la slapstick comedy (il candidato che si nasconde dalle troupe televisive); la partecipazione del pubblico (incontri fuori programma con elettori indignati).
Il carattere conta più della politica. Il dibattito è acceso ma provinciale. La rivalità è autentica, ma allo stesso tempo volutamente kitsch e macchiettistica. Tante volte gli astri nascenti della politica hanno promesso di cambiare le cose, ma poi tutti hanno finito per adeguarsi alle regole dello spettacolo.
Lo scontro tra i conservatori di Rishi Sunak e i laburisti di Keir Starmer in vista delle legislative del 4 luglio è a tratti divertente, spesso irritante, raramente istruttivo. I riflettori sono puntati sui due leader al centro della scena e lasciano nell’ombra le vere domande sulle necessità del paese. La posta in gioco è alta, ma la marea banalizzante della politica britannica non conosce limiti. Lo dimostra la mancanza d’informazioni sulle conseguenze della Brexit che ha caratterizzato il referendum del 2016 e le due elezioni successive.
Nel 2024 i due partiti principali hanno ancora tutto l’interesse a evitare un confronto aperto sulle sfide che il Regno Unito ha di fronte. Per Sunak è difficile parlare di un disastro che è anche il risultato delle sue scelte, mentre l’appello al cambiamento di Starmer rischia di essere soffocato dai troppi distinguo sulle poche risorse a disposizione e l’impossibilità di risolvere i problemi.
Confusione internazionale
La nebbia della campagna elettorale serve inoltre a nascondere gli argomenti più scomodi. La lista dei temi di cui non si sta discutendo è lunga, ma ci sono due questioni cruciali che dominerebbero il dibattito se il voto fosse davvero un’occasione di confronto sul futuro del paese: che tipo di economia avrà il Regno Unito? E qual è il suo ruolo nel mondo? Queste domande nascono dal declino delle istituzioni e delle norme che un tempo definivano ciò che vuol dire far parte dell’occidente. E sono diventate ancora più urgenti dopo la Brexit, che aveva scommesso – sbagliando – sulla durata infinita della globalizzazione liberista e sull’irrilevanza della geografia ai fini della sicurezza economica e politica di una nazione. La geopolitica fa paura come non succedeva dai tempi del crollo dell’Unione Sovietica e il quadro internazionale non è mai stato così instabile dal 1945. L’invasione russa dell’Ucraina ha segnato il ritorno a una concezione dello stato basata sul diritto del più forte, che troppo ottimisticamente le democrazie liberali ritenevano superata dall’interdipendenza economica della globalizzazione. E poi il conflitto a Gaza ha portato Israele e Iran sull’orlo di una guerra aperta. L’apparato delle leggi e dei trattati su cui si fondava l’ordine del secondo dopoguerra è messo in discussione in Europa da una ricomparsa del nazionalismo, e nel resto del mondo dall’ascesa della Cina come superpotenza capace di rivaleggiare con gli Stati Uniti. La democrazia statunitense è anche alle prese con un altro problema: il possibile ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, con un programma ancora più autoritario che in passato e con più consapevolezza di come realizzarlo. Anche se Joe Biden dovesse resistere, gli alleati ormai dubitano che gli Stati Uniti possano garantire ancora la loro sicurezza.
Il concetto di “autonomia strategica” nella difesa e nel commercio domina il dibattito nell’Unione europea. Crescono le spinte protezionistiche. Le dispute sui dazi, sui trasferimenti di tecnologia, sull’energia e le materie prime saranno tra blocchi continentali, rendendo ancora più onerosa la rinuncia di Londra a sedere al tavolo di Bruxelles.
Per decenni il Regno Unito ha basato la sua politica estera sull’idea di “ponte transatlantico”. Londra era la capitale europea preferita da Washington e il raccordo principale tra l’Europa e la Casa Bianca. La Brexit ha fatto saltare tutto. Le vecchie relazioni non si sono completamente perse: il Regno Unito è ancora un paese importante per gli standard europei, una potenza nucleare con un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Ma è più difficile giocare queste carte da una posizione marginale, tagliati fuori dall’alleanza di cui si è a lungo fatto parte. Questa difficoltà è acuita da una cultura politica che nega l’esistenza stessa del problema.
La negazione si estende anche alla questione di come la politica economica interna debba adattarsi alla realtà della Brexit. Secondo quelli che sostenevano il divorzio dall’Europa, il Regno Unito sarebbe uscito dal mercato unico senza subire danni. Bruxelles avrebbe riservato un trattamento di favore a uno stato che aveva fatto parte dell’Unione, e i successivi accordi commerciali avrebbero compensato eventuali perdite. Infine, la riconquista della “sovranità regolatoria” avrebbe massimizzato il vantaggio competitivo a costo zero. Erano tutte sciocchezze.
La strategia di Johnson
Questa favola economica è stata il filo conduttore di una truffa politica a 360 gradi: la Brexit è stata spacciata come il rimedio per una serie di malesseri culturali e sociali. In realtà, solo uno dei mali percepiti – l’immigrazione, risultato del libero movimento dei lavoratori – era riconducibile all’appartenenza all’Unione europea.
Quella strategia era però necessaria agli euroscettici, perché la loro dottrina economica da sola non sarebbe riuscita a conquistare la maggioranza dei britannici: ha sempre rappresentato, e rappresenta ancora, una posizione libertaria di nicchia, che considera i diritti dei lavoratori un intralcio alla libera impresa e vuole ridurre al minimo o azzerare i dazi per costringere le aziende e gli agricoltori affamati di sovvenzioni a fare i conti con la concorrenza estera. Per i sostenitori della Brexit, gli inevitabili problemi sarebbero stati un male necessario, perfino tonificante. L’inefficienza sarebbe stata eliminata dalle forze della distruzione creatrice. Questa prospettiva è parte dell’immaginario del Partito conservatore, ma non fa molta presa sui britannici. Nel blocco elettorale che l’ha resa possibile c’erano anche forze che non desideravano una Brexit turbo-thatcheriana, in particolare le roccaforti laburiste nel nord e nel centro dell’Inghilterra, che alle elezioni del 2019 hanno votato per Boris Johnson.
Uno dei talenti di Johnson è la capacità di affermare con la stessa convinzione due cose inconciliabili senza credere davvero in nessuna delle due. L’ex primo ministro è stato a favore e contrario all’interventismo statale; discepolo di Michael Heseltine, politico conservatore moderato ed europeista, e seguace dell’ultraliberista Margaret Thatcher; liberal quando era sindaco di Londra e nazionalista durante la campagna referendaria del 2016. Impermeabile alle contraddizioni intrinseche della Brexit, Johnson ha capito meglio di molti ideologi euroscettici (e di Rishi Sunak, che euroscettico non era) che il sostegno degli elettori laburisti non aveva basi solide. Bisognava ricompensarli subito per i voti che avevano prestato ai conservatori. La sua soluzione è stata un generale livellamento verso l’alto: ha aumentato la spesa nelle aree depresse ma allo stesso tempo, attraverso un’opera di alchimia fiscale, ha evitato di far pagare il conto alle zone ricche che tradizionalmente votano per i conservatori.
Questa chimera ugualitario-libertaria è stata stroncata dal covid-19. La risposta alla pandemia ha fatto crescere il debito pubblico in modo stratosferico, mettendo in moto una catena di eventi che hanno costretto Johnson alle dimissioni. Poi è arrivata la guerra in Ucraina a far impennare le bollette e l’inflazione. Liz Truss, che ha preso il posto di Johnson nel settembre 2022, ha sostituito l’incoerenza ideologica del suo predecessore con una fede nel libero mercato talmente fondamentalista da spaventare perfino i mercati stessi. Quando a Downing street è arrivato Sunak, al posto del sistema economico su cui avrebbe dovuto fondarsi il Regno Unito c’era una voragine fumante.
Quasi due anni dopo, lo scenario è ancora abbastanza cupo. Secondo l’Institute for fiscal studies, la legislatura appena terminata ha coinciso con la più bassa crescita del tenore di vita da quando sono cominciate le rilevazioni, nel 1961. L’aumento del pil pro capite è stato inferiore sia a quello della media dell’Unione europea sia a quello degli Stati Uniti. I salari reali hanno ristagnato per gran parte del periodo in cui i tory sono stati al potere. Solo di recente i redditi sono tornati ai livelli precedenti alla crisi finanziaria.
I salari reali hanno ricominciato a crescere, l’economia si è ripresa da una lieve recessione e l’inflazione sembra sotto controllo. Tutto questo, però, non basta a tirare su il morale di un paese in cui i servizi pubblici si stanno tangibilmente deteriorando per mancanza d’investimenti. Per l’anno fiscale in corso la spesa pubblica è pari al 44 per cento del pil, superiore ai valori registrati per buona parte degli anni del New labour (epoca che corrisponde ai governi di Tony Blair e Gordon Brown, dal 1997 al 2010). Il carico fiscale è alto, ma i cittadini non hanno la percezione di ricevere in cambio servizi adeguati.
Nel dibattito sul bilancio, che ha assunto toni surreali, i tory promettono tagli alle tasse e attaccano i laburisti perché si rifiutano di fare altrettanto. I laburisti, invece, si rintanano nel loro solito atteggiamento difensivo, concordando sul fatto che le tasse non vanno aumentate e promettendo “riforme” che, come un colpo di bacchetta magica, dovrebbero migliorare i servizi senza aumentare la spesa.
Nessuno dei due partiti vuole affrontare la realtà, cioè che per soddisfare le aspettative minime dei cittadini sui servizi lo stato avrà bisogno di nuove entrate, sotto forma di tasse o debiti.
L’invecchiamento della popolazione pesa sempre di più sul servizio sanitario e presto metterà a nudo le condizioni pietose in cui si trova l’assistenza sociale. Dal lato opposto dello spettro demografico, l’allargamento dei servizi di assistenza per l’infanzia, promesso dai laburisti e dai tory, si scontra con la mancanza di posti negli asili nido. Le scuole faticano a trattenere gli insegnanti. Tra gli adulti in età lavorativa comprare casa – o potersi permettere l’affitto di un alloggio adeguato – è una prospettiva remota senza l’aiuto di genitori ricchi. Le opportunità sono diventate un privilegio ereditario.
Tutte queste urgenze andranno affrontate parallelamente agli imperativi della transizione energetica. Significherà trovare nuove fonti di energia rinnovabile, adeguare la rete elettrica, sostituire le caldaie domestiche a gas, coibentare le case, installare colonnine per la ricarica dei veicoli elettrici e così via.
E queste sono solo le sfide più evidenti. Un’ondata di nuove tecnologie alimentata dall’intelligenza artificiale si sta già diffondendo nella società, con benefici e pericoli di portata incommensurabile.
Sacrifici e promesse
Il Regno Unito non è l’unico paese a dover affrontare problemi simili, e non è l’unico a essere impreparato. Ogni stato ha le sue particolarità e bizzarrie politiche. Ma la Brexit è stata la somma di diverse follie. Ha trasformato la sovranità in un feticcio e, allo stesso tempo, ha tolto allo stato i mezzi per realizzare i cambiamenti. È stata una rivoluzione sprecata, che ha dilapidato il suo modesto capitale politico in un progetto che non ha accontentato nessuno. Ha attinto al serbatoio della disaffezione verso la politica per alimentare una macchina capace solo di produrre altro malcontento.
La conseguenza è che per qualsiasi futuro governo sarà molto difficile chiedere di fare sacrifici oggi per stare meglio domani. L’opinione pubblica ha esaurito la pazienza e la buona volontà. La moneta delle grandi promesse si è svalutata.
Questi problemi non sono comparsi all’improvviso la mattina dopo il referendum. Gli archeologi alla ricerca degli errori politici hanno molto materiale in cui scavare: dai piani di austerità di George Osborne (ministro delle finanze conservatore dal 2010 al 2016) all’indolenza dei laburisti all’alba della crisi finanziaria; dalle disuguaglianze strutturali favorite dalle riforme dell’era Thatcher allo sperpero dei ricavi del petrolio del mare del Nord. Del resto già negli anni settanta il paese fu definito “il malato d’Europa”, e risale addirittura al 1962 l’osservazione, ancora valida, dell’ex segretario di stato statunitense Dean Acheson: “Il Regno Unito ha perso un impero ma non ha ancora trovato un ruolo”.
L’opinione pubblica britannica non ha più voglia di grandi discorsi
Il prossimo primo ministro britannico non dovrà essere uno storico per rendersi conto delle dimensioni dell’abisso in cui è caduto il paese. Ma dovrà essere almeno in grado di esprimere un’idea, una prospettiva che vada oltre una campagna elettorale degna di un circo itinerante.
A questo proposito è emblematico il discorso con cui Sunak il 22 maggio ha annunciato le elezioni. Il contenuto si è perso nello spettacolo deprimente di un uomo dall’aria triste che parlava sotto la pioggia, senza ombrello. Ma le sue parole non sarebbero state memorabili nemmeno se ci fosse stato il sole. È stato un intervento ridicolmente poco serio, nonostante il primo ministro cercasse di spiegare che “il mondo non è mai stato tanto pericoloso dalla fine della guerra fredda”.
Sunak ha cominciato rivendicando la decisione d’introdurre il furlough scheme (una misura di sostegno al lavoro simile alla cassa integrazione) durante la pandemia e ha proseguito con il presunto trionfo sull’inflazione (anche se è la Banca d’Inghilterra a decidere l’entità e il ritmo della stretta monetaria). Di fatto ha chiesto di affidarsi ai conservatori e a un progetto che finora è stato improvvisato, caotico e fallimentare.
Un’opportunità per i laburisti
La superficialità delle parole di Sunak esprime una drammatica povertà di immaginazione applicata a un’ideologia superata. Non c’è motivo di dubitare che il primo ministro sia un uomo intelligente, come dicono molti suoi colleghi, ma la sua è un’intelligenza di tipo computazionale: è bravo con i numeri e le informazioni, non gli interessano le idee. I suoi discorsi evitano accuratamente i riferimenti culturali o storici e raramente sostiene una tesi in modo analitico.
Un’eccezione è stata il discorso alla conferenza del Partito conservatore del 2023, in cui ha scaricato la colpa del malessere del paese sugli “interessi costituiti che per trent’anni hanno frenato il cambiamento, trent’anni di proclami retorici capaci solo di ottenere titoli sui giornali”. È un’accusa singolare, visto che il partito di Sunak ha governato per la metà di quei trent’anni. Il sottinteso era che l’ultimo primo ministro di valore era stata la Thatcher, e che lui, Sunak, avrebbe continuato il suo lavoro. D’altra parte presentarsi come eredi della Thatcher è quasi un obbligo per tutti i leader conservatori e per chiunque aspiri al ruolo. Quando era ministra degli esteri, Liz Truss aveva l’abitudine di farsi fotografare in situazioni e abiti che ricordavano la Thatcher.
Il culto kitsch della Lady di ferro è sintomatico dell’istupidimento intellettuale di un partito che ha rinunciato ad adattare i suoi valori al mondo moderno. Il muscolo ideologico dei conservatori, ormai atrofizzato, è stato temporaneamente gonfiato dagli steroidi della rabbia populista, ma ora l’effetto è svanito, rivelando quanto il partito sia inadeguato a governare.
Anche i laburisti sono a corto di grandi idee. E anche per loro, questo è il risultato del temperamento del leader e di un calcolo che nasce da una consapevolezza: l’opinione pubblica non ha più voglia di grandi discorsi. La metodica costanza di Keith Starmer è legata ai suoi trascorsi da pubblico ministero e allo stile con cui ha esercitato il mestiere di avvocato. Il leader laburista sa lavorare su casi specifici, ma non è in grado di evocare grandi princìpi. Come i suoi collaboratori più stretti, diffida della retorica sfoggiata dalla sinistra idealista che poi perde le elezioni. Il pragmatismo e la concretezza sono suoi tratti naturali, ma l’assenza di passione utopista è un scelta strategica.
Starmer si attiene strettamente alle promesse che pensa di poter mantenere: 6.500 nuovi insegnanti; liste di attesa più corte nella sanità pubblica; un nuovo ufficio di comando per la sicurezza delle frontiere. La sua proposta è pensata per un mercato politico post-Brexit, post-Johnson e sempre più cinico, dove ogni impegno altisonante desta sospetti.
Ma la modestia di queste ambizioni non è all’altezza della posta in gioco: un cambiamento condizionato da mille distinguo somiglia molto a una conservazione. Promesse minime e messaggi cauti infastidiscono l’anima radicale del Labour, ma imbarazzano anche molti elettori moderati di centrosinistra.
Gli europeisti, per esempio, sono sconcertati da come Starmer ha modellato la sua offerta elettorale a partire dall’accordo sulla Brexit concluso da Johnson, escludendo quindi il ritorno al mercato unico e all’unione doganale, mentre i reduci delle campagne contro l’austerità degli ultimi anni non riescono ad accettare che Rachel Reeves (ministra delle finanze nel governo ombra laburista e responsabile del programma economico di Starmer) si sia adeguata ai soffocanti vincoli di spesa fissati da un esecutivo che per primo non intende rispettarli. Eppure queste sono scelte razionali, considerato il compito che Starmer si è trovato di fronte quando ha preso la guida del partito. Per arrivare a Downing street i laburisti devono vincere in collegi che hanno nettamente sostenuto la Brexit e conquistare il consenso di chi considerava il Labour di Jeremy Corbin un partito di estremisti, guidato da un leader scorbutico e per niente patriottico. Mostrarsi rassicurante e moderato era un requisito necessario per farsi ascoltare dai propri elettori, figuriamoci per candidarsi alla guida del governo.
Dall’esterno non è facile distinguere il compromesso dall’assenza di princìpi, ed è proprio attaccando Starmer su questo punto che i tory sperano di erodere il suo vantaggio nei sondaggi. Anche a sinistra molti vedono l’intera operazione come un ritorno al New labour e alla sua mancanza di valori. In effetti, l’attuale campagna elettorale dei laburisti ricorda molto i metodi di Tony Blair, e la decadenza del Partito conservatore fa inevitabilmente pensare al declino del primo ministro John Mayor nel 1997. Ma le somiglianze finiscono qui.
◆ Il 4 luglio 2024 i britannici voteranno per le elezioni legislative anticipate, convocate il 22 maggio dal primo ministro conservatore Rishi Sunak. Negli ultimi quattordici anni il paese è stato guidato sempre dal Partito conservatore, che ha alternato a Downing street (residenza del primo ministro) vari leader. Nel 2010 è arrivato David Cameron, che si è dimesso nel luglio 2016 dopo la vittoria della Brexit al referendum sull’uscita dall’Unione europea. Tra il 2016 e il 2019 è stata la volta di Theresa May, sostituita poi da Boris Johnson, che ha governato fino al 2022. Il suo posto è stato preso da Liz Truss, rimasta in carica solo dal 6 settembre al 25 ottobre 2022, quando è stata sostituita da Sunak. Secondo i sondaggi, con il 41 per cento delle intenzioni di voto il Partito laburista ha un netto vantaggio sui conservatori, fermi al 20 per cento. In terza posizione, con il 16 per cento, c’è la destra populista di Reform Uk, il partito del leader euroscettico Nigel Farage, in passato a capo dell’Ukip, una delle forze trainanti della Brexit. A seguire i liberaldemocratici, con l’11 per cento. Più staccati i verdi e i nazionalisti scozzesi e gallesi. Bbc
Se infatti il New labour cavalcava l’onda della globalizzazione del dopo guerra fredda, la dottrina economica del progetto di Starmer parte dal superamento di quell’epoca. Reeves l’ha definitivamente chiarito spiegando che il quadro globale sempre più frammentato, la crisi climatica, l’insicurezza energetica e lo sviluppo dell’intelligenza artificiale impongono la presenza di uno stato interventista.
Un futuro governo laburista sarà quindi impegnato nella politica industriale più di qualsiasi esecutivo dagli anni settanta a oggi, possibilmente evitando le sovvenzioni a pioggia a cui quel decennio è associato. Reeves sostiene che la sua è una versione di quel sistema più snella, più strategicamente focalizzata e finanziata dai privati. È un’idea plausibile del tipo di economia di cui potrebbe aver bisogno il Regno Unito nel ventunesimo secolo. Ma indicare la destinazione senza la strategia per arrivarci non basta.
Reeves s’ispira all’Inflation reduction act, la legge varata negli Stati Uniti per ridurre l’inflazione, che concede sussidi per le riconversioni industriali e gli investimenti verdi. Ma il provvedimento simbolo della presidenza di Joe Biden era sostenuto da un enorme sforzo finanziario. Londra non ha risorse paragonabili. C’è poi anche un altro problema per il progetto economico di Reeves: l’Europa. In teoria, la Brexit facilita una politica industriale interventista, perché elimina il divieto europeo di concedere aiuti di stato. In realtà, però, qualsiasi vantaggio competitivo rischia di essere cancellato dall’esclusione dal mercato unico e dall’unione doganale. Gli intoppi nelle catene di distribuzione e i dazi occulti, legati alle regole previste dagli accordi commerciali, saranno un disincentivo a investire nel Regno Unito.
Se l’obiettivo della Brexit era creare un’utopia iperliberista in stile “Singapore sul Tamigi”, barattare l’accesso al mercato unico con il potere di decidere le regole da soli è stato un pessimo affare. Tuttavia le cose non miglioreranno solo perché oggi il Labour promette di avvicinare il paese al modello della socialdemocrazia europea. Un governo Starmer tratterà con Bruxelles in termini più cordiali, ma questo non si tradurrà in vantaggi o concessioni. Dagli scambi commerciali alla politica di sicurezza, l’Unione europea non farà favori al Regno Unito solo perché al governo non ci sono più i conservatori.
Nessuno dei due candidati vuole rinegoziare le condizioni della Brexit in pubblico. Ma parlare delle sfide che ha di fronte il paese senza citare la decisione epocale presa con il referendum del 2016 non è serio. Se non si considerano la Brexit e le sue conseguenze, suonano come pura retorica gli allarmi sull’instabilità globale, l’ascesa della Cina, l’aggressività della Russia, l’intelligenza artificiale, la crisi climatica e la sicurezza energetica.
Giù il sipario
È risaputo che la politica cerca di evitare le domande difficili. Le campagne elettorali non sono mai state lo spazio adatto per raffinate disquisizioni teoriche. Sono pubblicità commerciali, non seminari accademici. Eppure nel Regno Unito la banalizzazione del linguaggio e i teatrini di Westminster sembrano particolarmente inadeguati alla gravità del momento.
L’ostinato rifiuto di fare i conti con la realtà della Brexit in due elezioni consecutive ha creato una realtà parallela, una politica dell’assurdo dove artisti dell’avanspettacolo come Johnson e Truss hanno guadagnato il centro del palcoscenico. Sunak è arrivato al potere promettendo “professionalità, integrità e responsabilità”, ma non ha avuto il coraggio e il peso per imporre queste qualità al suo partito né il buon senso di scegliere priorità politiche in sintonia con quei valori. Non è stato all’altezza della situazione. Per esclusione, oggi Starmer dà la sensazione di essere il candidato più credibile. Ma il modo in cui ha deciso d’impostare la campagna elettorale lo rende complice di una serie di favole che una volta al governo non potrà più raccontare. È difficile dire se un altro capo dell’opposizione sarebbe riuscito a fare diversamente. La storia delle sconfitte del Labour suggerisce di no.
Se diventerà primo ministro, com’è probabile, Starmer avrà l’opportunità di riscrivere il copione da una posizione di potere. E non avrà scelta: dovrà dire la verità sulla situazione reale del paese. In questo senso il cambio di governo offre un’occasione unica per fare chiarezza. La campagna elettorale sembra l’ennesima ripetizione di una serie di trame ormai familiari agli elettori. Ma fa anche balenare la possibilità che ci si stia avvicinando alla fine di una stagione. Lo spettacolo, semplicemente, non può continuare: la pantomima politica più lunga della storia si chiuderà. Il 4 luglio calerà il sipario. ◆ fas
Rafael Behr è editorialista del quotidiano britannico The Guardian. Ha scritto Politics. A survivor’s guide (Londra 2023).
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Questo articolo è uscito sul numero 1569 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati