Quando nell’estate 2022 ho visitato il Mali ho notato che una grande rotonda ad Aci 2000, un quartiere elegante della capitale Bamako, era diventata un mercato di bandiere. La maggior parte erano russe o maliane. Il giorno prima di ripartire sono andato a tagliarmi i capelli e il barbiere mi ha mostrato una bandiera russa che teneva dietro la porta, in attesa di poter esibire apertamente la sua lealtà. Il tricolore francese, invece, è stato bruciato in pubblico così spesso che le scorte probabilmente sono finite. Ho sentito dire anche che le bandiere francesi sono state scucite e ricucite per fare quelle russe, risistemando le parti di tessuto rosse, bianche e blu.
Il volo della compagnia Air France da Parigi a Bamako era pieno. Cumuli di bagagli aspettavano di essere caricati nella stiva. Da gennaio a luglio del 2022 il Mali è stato sottoposto all’embargo deciso dalla Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale per costringere la giunta militare al potere a ripristinare la democrazia. Dakar, in Senegal, e Abidjan, in Costa d’Avorio, i principali porti di ingresso per le merci dirette in Mali, che non ha sbocchi sul mare, erano inaccessibili. Non Parigi, però. A Bamako ho aspettato la mia valigia al ritiro bagagli per un’ora e mezza, mentre sul nastro trasportatore sfilavano enormi sacchi pieni di merci. Su una parete della sala c’era un grande ritratto di Modibo Keita, il fondatore marxista del Mali, che osservava con sguardo malinconico le folle di commercianti.
Non ero entusiasta di fare quel viaggio. Bamako non era più la sonnacchiosa capitale sotto una collina che avevo visitato la prima volta all’inizio degli anni duemila. Pullulava di moto e vecchie auto, compresi i famigerati taxi collettivi Sotrama. Come i car rapide _di Dakar, i _faba _di Niamey e i _gbaka di Abidjan, i Sotrama sono sempre strapieni di persone, cadono a pezzi e hanno autisti spericolati. Di giorno il traffico ha reso molte strade impraticabili per i pedoni. A tutto questo si è aggiunta una novità dall’inquietante nome di katakatani, un triciclo a motore con un cassone sul retro, minaccioso come un’auto e instabile come una moto. L’aria puzza di gas di scarico. Le fragili infrastrutture di Bamako sono state drammaticamente travolte dalla crescita caotica della città. Uno studente maliano che ho conosciuto nei Paesi Bassi poco prima di partire mi ha detto che nessuno dei suoi parenti vive più nel villaggio d’origine, ma “si sono tutti trasferiti a Bamako”. Citymayors.com, un sito di statistiche, indica Bamako come la città con la crescita più rapida in Africa e la sesta al mondo. La popolazione, che supera i tre milioni di abitanti, è triplicata negli ultimi vent’anni.
In tutta l’Africa subsahariana si assiste a una rapida espansione delle città, alimentata dalla povertà degli abitanti delle campagne e dalle maggiori opportunità offerte dai centri urbani. Bamako, come Dakar, esemplifica bene questo fenomeno. I posti di lavoro nell’industria e nella pubblica amministrazione, insieme a quelli nel redditizio settore degli aiuti allo sviluppo, si concentrano in città. Questo incoraggia gli investimenti nel settore dei servizi e degli alloggi – Bamako è in pieno boom immobiliare – oltre a dare lavoro a operai più o meno qualificati.
Prima dell’indipendenza, quando il Mali era ancora il Sudan francese, lo scrittore Amadou Hampâté Bâ aveva immaginato un futuro per il suo paese basato sulla coesistenza armoniosa di tre eredità storiche: la tradizione africana, l’islam e la modernità in chiave francese. È ancora possibile trovare delle tracce di questo sogno. A Koudougou, nella provincia di Boulkiemdé, in Burkina Faso, il _naaba _(signore) di Issouka ha costruito un palazzo dallo stile improbabile: un piccolo forte in mattoni rossi ornato di colonne e statue grigie sulle merlature. Una stanza è decorata da murali coloratissimi raffiguranti racconti fantastici, realizzati da un artista locale. L’immagine centrale raffigura un giardino attraversato da un fiume con sei uomini seduti: un _naaba _con indosso un copricapo regale e il suo attendente accanto; un europeo con l’elmetto coloniale; un religioso musulmano; un ministro cristiano e un sacerdote tradizionale africano. Ogni figura rappresenta una delle culture su cui si fonda il Burkina Faso.
Deviazioni insolite
In occidente sappiamo dei problemi della Francia nel Sahel, un po’ meno delle tensioni nella regione. Una sera, al crepuscolo, poco dopo il mio arrivo a Bamako, stavo ascoltando l’adhan, la chiamata alla preghiera dei musulmani, ma mi sono accorto di qualcosa di strano. Ci ho messo qualche secondo a rendermi conto che non era in arabo, ma in bambara, la lingua dell’etnia bambara, conosciuta anche come bamanankan. È parlata dalla maggioranza dei maliani, senza distinzioni etniche, ma non conosco nessun altro posto nel mondo musulmano dove l’adhan è pronunciato in una lingua diversa dall’arabo. Mi viene in mente solo un altro esempio: nel 1932 Mustafa Kemal Atatürk decretò che in Turchia l’adhan fosse scandito in turco e il governo ordinò ai poliziotti di presidiare i minareti per applicare la legge. Pochi mesi dopo un _muezzin _nella città di Bursa fu arrestato e picchiato dalla polizia per aver usato l’arabo, e successivamente altri muezzin furono incarcerati, multati o chiusi in manicomio per non aver rispettato la legge. Solo negli anni cinquanta si ricominciò a usare l’arabo.
Più o meno nello stesso periodo nel sud del Mali si stava affermando un movimento nazionalista mandinka, noto come Nko, che invocava la fine dell’“imperialismo islamico”. Agli occhi dei suoi sostenitori era peggio di quello francese. Secondo queste persone, i fanatici musulmani avevano invaso gli spazi sacri dei popoli bambara e mandinka. Nel 1949 il leader del movimento Nko, Solomana Kanté, inventò un sistema di scrittura che prevedeva l’uso di venti consonanti, sette vocali e sette segni diacritici per l’accento delle parole (molte lingue africane sono tonali, a differenza dell’arabo e del francese). Secondo Kanté e i suoi seguaci quel sistema era il modo in cui i mandinka potevano emanciparsi dal punto di vista intellettuale dai francesi e, soprattutto, dall’islam. Ancora oggi è insegnato in alcuni scuole maliane. Da allora molti affiliati al movimento si sono convertiti all’islam, ma hanno mantenuto fermo il principio secondo cui la religione musulmana deve essere separata dalla cultura araba e assimilata a quella mandinka.
Ispirazione egizia
In Mali ci sono anche i kemetisti a scontrarsi con l’islam. La loro fede è liberamente ispirata alla religione dell’antico Egitto e alle sue divinità. Alla fine degli anni ottanta a Chicago, negli Stati Uniti, il kemetismo diventò una religione ortodossa. Lo stato dell’Illinois lo riconobbe ufficialmente nel 1993. Il credo si diffuse in Europa e in Africa soprattutto grazie a forum e a piattaforme online. Sebbene siano presenti congregazioni minori in Burkina Faso e in Niger, nel Sahel il kemetismo è seguito soprattutto in Mali. I suoi seguaci sono pochi ma ambiziosi. Nell’ottobre 2022 su Facebook e WhatsApp circolava il video di un giovane kemetista in un negozio di Bamako. Esordiva con il saluto standard in egiziano antico, Hotep (che tu sia in pace), e proseguiva denunciando l’islam in lingua bambara. In mano teneva un Corano, che poi ha scagliato a terra e calpestato.
Dopo il video è sparito, o quantomeno le forze di sicurezza non sono riuscite e localizzarlo. Il ministero degli affari religiosi ha cercato di calmare i musulmani offesi, ma Doumbi Fakoly, il leader della congregazione kemetista in Mali, si è detto irritato perché il governo sembrava essersi schierato in una potenziale “guerra tra religioni”. “Molti seguono il sentiero degli antenati”, ha detto Fakoly, “e si opporranno alle imposizioni dell’islam”. Il culto degli antenati è una delle caratteristiche in comune tra il kemetismo e il movimento Nko. Un procuratore di Bamako ha ordinato di arrestare Doumbi per un “reato di natura religiosa che potrebbe portare a disordini pubblici”. Il reato sarà anche inesistente – come sostiene l’avvocato di Doumbi – ma l’accusa lascia trasparire il timore del governo che i conflitti religiosi possano rapidamente sfuggire di mano alle autorità.
L’Alto consiglio islamico del Mali ha organizzato una manifestazione per dare una dimostrazione di forza e forse richiamare all’ordine i maliani, ma la vista della bandiera nera del jihad che sventolava sulla folla ha messo in allarme le minoranze. Sui social network molti cristiani hanno denunciato le “imposizioni islamiche”. Tra queste si cita il recente sermone di un importante religioso secondo il quale la maggioranza dei maliani in origine era musulmana, fatta eccezione per quei pochi portati sulla cattiva strada (del cristianesimo) dai “bianchi”. Dopo le proteste formali di un pastore protestante il religioso ha poi dovuto scusarsi. Inoltre i difensori delle religioni tradizionali africane hanno ricordato a tutti che dieci anni fa Seid Chouala Bayaya Haidara, uno dei primi religiosi musulmani a chiedere una punizione rapida per l’uomo che aveva calpestato il Corano, aveva bruciato in pubblico un feticcio (oggetto di culto nelle religioni tradizionali africane).
Ho sentito parlare per la prima volta del movimento Nko nel 2014, quando un amico maliano a Parigi aveva cercato di convincermi ad adottare il sistema di scrittura di Kanté. Non capiva le mie “resistenze” e mi ha perfino accusato di essere un “colonizzato”. È un fervente kemetista ed è diventato uno studioso autorevole dell’antica lingua egizia. Trasuda rabbia nei confronti dell’islam ed è convinto che tutti i suoi fondamenti siano stati presi in prestito dai testi egiziani attraverso l’ebraico. Queste idee conferiscono una patina di erudizione al discorso propagandista di kemetisti come Doumbi.
Il fatto che quest’ultimo parli di “guerre di religione” è indicativo delle visioni in conflitto che potrebbero facilmente distruggere l’idea di un Mali multiculturale, come quella proposta da Hampâté Bâ. Il principale avversario di Doumbi è l’imam Mahmoud Dicko, un carismatico religioso salafita che da decenni lavora per trasformare il Mali in una repubblica islamica. Nel 2013 Dicko favorì l’ascesa al potere del presidente Ibrahim Boubacar Keita, che gli aveva promesso di promuovere delle politiche islamiste. Keita però non è servito allo scopo. Così, nell’estate 2020, Dicko ha contribuito alla sua destituzione. Finché i militari non hanno preso il potere alla fine di quello stesso anno, Dicko era a un passo dall’ottenere la ricompensa più importante: una modifica costituzionale in base alla quale la sua posizione informale di “autorità morale” del Mali, un’etichetta affibbiatagli dai mezzi d’informazione, fosse trasformata in una carica ufficiale all’interno di una repubblica islamizzata o integralmente islamica. Questo avrebbe portato i leader jihadisti nel processo politico, isolando Doumbi e altri come lui.
Gli spiriti fondatori del moderno Mali e del Sahel raffigurati sulle pareti del palazzo di Issouka devono essere aggiornati. Oggi il sacerdote tradizionale africano incarnerebbe un panafricanismo volubile, più ideologico che spirituale. L’imam sarebbe preoccupato dall’avanzata di dottrine come il salafismo o il jihadismo; il religioso cristiano difenderebbe una minoranza. La figura con l’elmetto coloniale, emblema dell’ideale repubblicano, continuerebbe a rappresentare chi sta al potere, anche se i maliani non riescono a fare i conti con l’eredità del colonialismo francese. Panafricanisti e kemetisti non hanno una teoria su come organizzare lo stato o su come vada amministrato. Gli intrighi politici di Dicko e la violenza jihadista non sono riusciti a istituire il califfato in Mali. Il paese è ancora una repubblica d’impianto francese, anche se non è sicura di volerlo essere davvero.
Gli spiriti fondatori del moderno Mali e del Sahel raffigurati sulle pareti del palazzo di Issouka devono essere aggiornati
Questo vale anche per altri stati del Sahel. A una conferenza a Niamey, la capitale del Niger, mi è stato chiesto cosa dovrebbe fare la classe dirigente nigerina per contrastare il salafismo. In Niger, in Mali e in Burkina Faso i governi controllano il sistema e i programmi scolastici, la televisione e la radio nazionale e gran parte della stampa. Ero tentato di rispondere “Credete in voi stessi”, ma non era il pubblico giusto. Stavano ancora facendo i conti con un ingombrante armamentario post-coloniale. Non avevano formulato nuovi ideali repubblicani, adattati al contesto del Sahel. Le classi dirigenti in carica comunque non hanno la tendenza a essere radicalizzate, perché troppo occupate a proteggere lo status quo.
Il fiore all’occhiello
Negli anni novanta e nei primi duemila, il Mali era il fiore all’occhiello della democrazia in Africa. Oggi è una delle più grandi delusioni africane per l’occidente. Ha vissuto tre colpi di stato in dieci anni ed è stato ingovernabile in quelli successivi. Ora è guidato da una giunta militare che perseguita gli oppositori politici, si prende gioco degli occidentali e si fa proteggere da Vladimir Putin. Ma l’attuale delusione potrebbe essere eccessiva, quanto lo era la precedente mitizzazione.
Non è sempre facile capire cosa pensano davvero i maliani. Nel 2021 i ricercatori della sede di Bamako del Netherlands institute of multiparty democracy hanno condotto un sondaggio nazionale, anche in aree controllate dai jihadisti, per capire le loro opinioni sulla democrazia. Il sondaggio divide il Mali in “regioni culturali” definite dalla storia e dalla geografia, un modello migliore rispetto a quello basato sull’etnia. In ogni regione i ricercatori hanno rilevato una diffusa ostilità alla democrazia fondata sul principio “una persona, un voto”. In un primo momento ho pensato che fosse un atteggiamento reazionario, basato sull’idea che alcune voci contino più di altre. In realtà in Mali il principio “una persona, un voto” non ha senso, perché insiste sul fatto che l’opinione della maggioranza sia l’unico modo per prendere decisioni su importanti questioni di giustizia e potere. Il principio di giustizia nei vecchi regimi saheliani, per quanto spesso violato, è che ogni persona deve avere qualcosa e nessuno dovrebbe andar via a mani vuote. La critica più ostinata alla democrazia elettorale nella regione – non solo in Mali, ma anche in Niger e in Burkina Faso – è che quest’ultima alimenta l’esclusione, impedendo a chi è stato sconfitto di avere qualcosa o di partecipare alle decisioni, mentre chi ha vinto festeggia per la vittoria del notre régime, notre pouvoir. In occidente la tirannia della maggioranza e il rituale della dignitosa ammissione della sconfitta sono ormai parte integrante della cultura politica. Agli occhi di molti saheliani sono una ricetta per conflitti e divisioni.
Immagino che dipenda dalla storia. Il Sahel è conosciuto per i suoi grandi imperi, ma la sua forma politica più comune è stata la piccola repubblica associativa. Gli etnologi occidentali, confusi dal decentramento del potere, l’hanno chiamata con nomi poco lusinghieri: acefala, senza capo, senza stato, anarchica. Ma era un governo realizzato attraverso una deliberazione continua, che teneva conto degli interessi di tutti. Tornerà un giorno? ◆ gim
Rahmane Idrissa è un ricercatore nigerino dell’università di Leida, nei Paesi Bassi. È un esperto di storia e sistemi politici dell’Africa subsahariana.
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Questo articolo è uscito sul numero 1503 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati