Nel tardo pomeriggio del 5 aprile 2023 Andrea Papi aveva deciso di andare a correre. Il giovane di 26 anni aveva detto alla sua ragazza che sarebbe tornato per le sette, in tempo per cenare con la famiglia. Poi si era avviato attraversando Caldes, un paesino di case rosa tenue, sparse lungo tortuose strade di montagna, che scendono fino a un torrente.
Papi era cresciuto lì, in Trentino-Alto Adige. Aveva lasciato il paesino per andare a studiare scienze motorie all’università di Ferrara e dopo la laurea era tornato a casa, dove svolgeva dei lavoretti in attesa di decidere cosa fare della sua vita. Stava pensando di aprire una palestra.
Correre sui sentieri di montagna intorno a Caldes era una delle sue attività preferite. Lo rilassava. Quel pomeriggio aveva attraversato il torrente e imboccato un sentiero che conduceva a un bosco.
L’ora di cena era passata, ma di Papi nessun segno. Non era da lui fare tardi. Verso le otto la famiglia ha deciso di avvisare il sindaco, Antonio Maini, della scomparsa di Andrea. I genitori, la sorella e la fidanzata si sono ritrovati alla caserma dei vigili del fuoco, che coordinano le operazioni di soccorso in montagna.
Le ore passavano. A mezzanotte è stata inviata una squadra di ricerca specializzata, formata da un centinaio di persone, per setacciare le montagne con i cani e i droni. Alle due e mezza di notte un soccorritore ha trovato la borraccia di Papi su un sentiero usato dalle scolaresche per le gite in montagna. Pochi minuti dopo la squadra ha trovato il suo corpo. Lì vicino c’era un ramo d’albero spezzato e insanguinato.
Maini è stato chiamato sul posto e ha capito subito com’era morto il giovane. Si è sentito in dovere di andare dai familiari a dare la notizia. Quando gliel’ha comunicata, quasi non hanno reagito, come se già sapessero cosa aspettarsi. Gli hanno chiesto se era stato un orso ad attaccare, e Maini ha chiamato a raccolta tutta la sua professionalità per non dire subito di sì. La causa della morte doveva essere determinata dall’autopsia.
Quando ho chiesto a Maini che tipo di ferite aveva subìto Papi, non ha voluto entrare nei dettagli. Un altro funzionario è stato altrettanto reticente. Mi ha detto solo che gli orsi attaccano gli umani con la stessa forza che usano contro gli altri orsi.
Le montagne di Caldes sono letteralmente fatte di corpi di animali antichi. Il colore rosato delle sue case in pietra deriva dai resti calcificati di creature marine: nella preistoria l’Italia settentrionale era sommersa dalle acque. L’area è insolitamente ricca di fauna selvatica. È costellata di rigogliosi vigneti, filari di meli e paesini graziosi come Caldes. Le aquile volano sopra i boschi e i camosci s’inerpicano sulle pareti a strapiombo delle montagne per sfuggire a lupi e linci.
In questo splendido assortimento di animali la creatura che suscita più venerazione è l’orso bruno eurasiatico (Ursus arctos arctos). Gli orsi vivono in queste zone da sempre. Le loro immagini si trovano sulle insegne dei ristoranti e sulle magliette souvenir. Si dice che i trentini siano timidi e taciturni, come gli orsi. Una leggenda narra che san Romedio, un eremita locale a cui è dedicato un santuario, riuscì ad addomesticare un orso e a cavalcarlo.
Gli orsi bruni eurasiatici sono solo leggermente più piccoli dei grizzly americani. Il loro peso può partire da 140 chili e arrivare a 450 chili negli esemplari più grandi. Superano in altezza la maggior parte delle persone. Hanno teste che sembrano larghe quanto le loro spalle, circa un metro, e si muovono con una scioltezza da atleti.
Negli anni novanta, la lunga storia degli orsi in Trentino sembrava vicina al termine. La popolazione di questi animali era diminuita a quattro esemplari e nessuno aveva capito bene perché. Gli orsi, come gli esseri umani, entrano ed escono da alcuni territori. A volte creano una famiglia, altre no.
Nel 1992 le autorità di gestione del parco naturale Adamello-Brenta, l’area protetta più grande del Trentino, organizzarono un incontro di esperti internazionali per discutere le misure da adottare per salvare l’orso bruno. Un’ipotesi era catturare esemplari selvatici in Slovenia, dove la loro popolazione era in espansione, e portarli in Trentino. Alcuni studiosi si chiedevano se il piano poteva funzionare davvero, ma tutti concordavano sul fatto che fosse importante intervenire tempestivamente, quindi il comitato approvò la strategia. L’amministrazione provinciale l’adottò ufficialmente e fu finanziata con fondi dell’Unione europea. Nel 1999 le autorità liberarono i primi orsi sloveni in un tratto di foresta non lontano da Caldes.
Una delle idee alla base del programma dell’Unione europea è quella che oggi chiamiamo rewilding (rinaturalizzazione). Il termine, non ancora molto usato all’epoca, comprende una serie di interventi che vanno dal divieto di tagliare l’erba alla liberazione dei puma in una foresta. Si basa sulla premessa che più biodiversità c’è in un ambiente naturale più questo sarà resiliente. Se le attività umane – come costruire città, abbattere foreste o sversare sostanze chimiche – hanno turbato gli equilibri ambientali, il rewilding promette di farli funzionare di nuovo, dove possibile, lasciando fare alla natura.
Uno dei modi è riportare i grandi carnivori nei loro habitat originari, dove la caccia li ha fatti quasi estinguere. Si pensa che la loro presenza abbia un effetto benefico sul resto della catena alimentare (un concetto noto come “cascata trofica”). Nel 1995, gli ambientalisti del parco di Yellowstone, negli Stati Uniti, sperimentarono questo sistema reintroducendo nell’habitat i lupi. Il numero di alci scese rapidamente, il che significava più cibo per i piccoli mammiferi come i castori, la cui popolazione in diminuzione cominciò a risalire. Il parco diventò un esempio di come sviluppare la biodiversità (oggi, però, gli scienziati s’interrogano sul reale impatto dei lupi).
Il fascino del rewilding non ha confini politici o ideologici. Piace ad alcune persone di destra per il suo rifiuto implicito della modernità; altre lo considerano l’ennesimo esempio del fatto che i burocrati di Bruxelles non tengono conto delle preoccupazioni dei cittadini. C’è chi lo promuove perché vede la natura innanzitutto attraverso la lente delle necessità umane; e chi pensa che gli umani debbano rendersi conto di non essere l’unica specie sulla Terra: per queste persone il progetto è qualcosa di più di una serie di cascate trofiche, è un atto di pentimento e riparazione.
Incontri più frequenti
Inizialmente la reintroduzione degli orsi in Trentino non sembrava aver avuto grandi effetti. Pochi animali si accoppiavano e la popolazione rimaneva contenuta. Alla metà degli anni dieci del duemila, però, il loro numero è salito. Secondo gli esperti la popolazione di orsi si sarebbe stabilizzata intorno ai cinquanta esemplari: nel 2023 erano un centinaio di adulti e una ventina di cuccioli.
Gli orsi sono onnivori, e vanno alla ricerca di cibo o cacciano soprattutto di notte. Mangiano bacche, noci e nocciole, insetti, frutta, pesce, carne e qualunque cosa sia alla loro portata. Generalmente cercano di evitare le persone, ma non sempre è possibile. Le montagne del Trentino, un tempo molto tranquille, ora sono piene di abitanti e di turisti: più di 30 milioni all’anno. Gli incontri casuali tra le due specie sono diventati più probabili.
Gli orsi maschi percorrono lunghe distanze. Quelli del Trentino si spostano valicando i confini con l’Austria e la Germania. Dopo essere stati in letargo per tutto l’inverno, in primavera e in estate tornano nel territorio delle femmine per accoppiarsi. Le madri allevano i cuccioli da sole e li difendono ferocemente dagli orsi maschi, che spesso uccidono i piccoli dei rivali.
Una serie di aggressioni
Intorno al 2010 gli orsi in Trentino avevano cominciato a fare regolarmente incursioni nei centri abitati, soprattutto alla ricerca di bidoni della spazzatura. Questo aveva spinto il servizio forestale della provincia ad adottare cassonetti speciali a prova di orso, ma gli animali riuscivano lo stesso ad aprirli.
Un orso particolarmente grande aveva preso l’abitudine di entrare nelle case. Ne aveva attaccate una cinquantina. Porte e finestre non erano un ostacolo. Le strappava via, con gli infissi e tutto, con un semplice movimento dei suoi lunghi artigli.
Gli abitanti erano preoccupati, soprattutto quelli delle montagne, dove i ricordi della convivenza con gli orsi erano più vividi che in una sala riunioni di Bruxelles. Ritrovarsi insieme a un orso in un ambiente di dimensioni limitate, per esempio scendendo al piano terra di casa dopo aver sentito il rumore di una finestra sfondata, può essere molto pericoloso.
Le regole di base da seguire durante questi incontri sono semplici. Resistere a un orso è inutile quanto cercare di fermare una valanga. Mettersi a correre serve solo a ritardare l’inevitabile. Gli orsi possono correre a una velocità di 56 chilometri orari e non si fermano finché non hanno eliminato quella che percepiscono come una minaccia. Per quanto possiamo immaginare di affrontare un orso, la realtà sarà tutta un’altra cosa. Tom Smith, un professore della Brigham Young university, negli Stati Uniti, che studia le interazioni tra orsi ed esseri umani, ricorda il caso di un uomo che, sorpreso da un orso nel bosco, aveva spinto per terra la moglie ed era scappato via più veloce che poteva.
Negli Stati Uniti si raccomanda a campeggiatori e a cacciatori di portare con sé delle bombolette di spray repellente per gli orsi. Ma l’Italia la considera un’arma e non ne permette la vendita al pubblico. L’amministrazione locale consiglia a chi s’imbatte in un orso di sdraiarsi per terra a faccia in giù con le braccia e le mani posizionate in modo da proteggere testa e collo (la logica, non esplicitata negli opuscoli ufficiali, è che questa posizione aumenta le probabilità di sopravvivere a un’aggressione con la testa e gli organi vitali intatti).
All’inizio la crescente popolazione di orsi non minacciava nessuno. Poi nel 2014 Daniele Maturi, un addetto alle funivie, era andato a cercare funghi vicino casa. Alzando lo sguardo, si era reso conto che un’orsa e i suoi due cuccioli dormivano a meno di sei metri da lui. L’orsa Daniza era stata uno dei primi esemplari sloveni liberati in Trentino. Appena Maturi l’aveva avvistata, la femmina si era svegliata. L’aveva spinto a terra con una zampata e gli era saltata addosso. Era sopravvissuto solo perché a un certo punto l’orsa aveva deciso di allontanarsi. Maturi non ha mai capito perché.
Nel 2015 un podista che era andato a correre con il suo cane era stato sorpreso da un orso ed era finito in ospedale con gravi ferite al volto, alle braccia e al petto.
Due anni dopo, nel luglio 2017, un altro uomo era andato a fare una passeggiata con il cane, aveva sentito qualcosa alle sue spalle e, non appena si era voltato, l’orso gli era saltato addosso. Prima l’aveva morso a una gamba, poi aveva mirato alla gola. Lui era riuscito ad alzare un braccio per difendersi dall’animale per qualche istante. Poi il suo cane aveva abbaiato, distraendo l’orso, e l’uomo era riuscito a mettersi in salvo.
Le autorità avevano detto ai giornalisti che i due casi erano riconducibili allo stesso animale: una femmina di quattordici anni di nome KJ2. Alle nuove generazioni si assegnano dei codici identificativi basati sulle iniziali dei genitori, anche se alcuni esemplari sono conosciuti con un nome proprio.
L’amministrazione provinciale ne aveva ordinato l’abbattimento. La Lega anti-vivisezione (Lav, un’ong animalista) aveva definito l’uccisione dell’orso “un verdetto di condanna vergognoso, una sentenza senza processo, emessa… da un’amministrazione provinciale che vuole pieno potere di vita o di morte sugli orsi”.
Intorno al 2010 gli orsi avevano cominciato a fare incursioni nei centri abitati, alla ricerca di bidoni della spazzatura
Nel 2018 la provincia autonoma di Trento aveva approvato una legge che rendeva più facile per le guardie forestali uccidere gli orsi che si mostravano pericolosi. Le organizzazioni per la difesa dei diritti degli animali erano insorte e avevano moltiplicato le denunce al governo di Roma, trovando un alleato nel ministro dell’ambiente Sergio Costa del Movimento 5 stelle. “I lupi e gli orsi non si toccano”, aveva scritto Costa su Twitter (oggi X). Le autorità trentine avevano dovuto cambiare strada.
Nel 2020 il corpo forestale ha catturato M49, l’orso che entrava nelle case. Vista la nuova posizione delle autorità locali, l’orso è stato rinchiuso in una struttura faunistica sicura. Ma è riuscito a liberarsi e a scappare per due volte dal recinto elettrificato. I giornali di tutt’Europa hanno parlato delle sue imprese e l’hanno soprannominato Papillon (dal titolo di un famoso film del 1973 che ha come protagonisti due evasi). L’attrice francese Brigitte Bardot ha chiesto di liberarlo. La gente del posto è rimasta alla larga dai boschi finché non è stato catturato di nuovo.
In tribunale
Maurizio Fugatti, un esponente della Lega, il partito guidato da Matteo Salvini, si è sempre opposto al progetto degli orsi in Trentino. Nel 2011 aveva partecipato a un provocatorio banchetto a base di carne di orso che, a detta degli organizzatori, era stata importata dalla Slovenia. I carabinieri avevano confiscato la carne prima che fosse consumata, ma Fugatti aveva detto che con la sua presenza voleva dare “un chiaro segnale” di sostegno agli italiani a cui era impedito l’accesso ai loro boschi a causa del pericolo rappresentato dagli orsi.
Nel 2018 Fugatti è stato eletto presidente della provincia autonoma di Trento, però la sua disapprovazione nei confronti del progetto di reintroduzione degli orsi è passata alle vie di fatto solo nel 2020. Quell’estate un padre e un figlio stavano camminando sul monte Peller quando era comparsa una femmina di orso che si era sollevata sulle zampe posteriori e aveva cominciato a colpire il figlio con gli artigli. Il padre aveva cercato di aiutarlo saltando addosso all’animale. Prima di allontanarsi l’orsa, conosciuta con il nome di Gaia, gli aveva rotto una gamba in tre punti. Gaia è la quarta figlia di due orsi, Joze e Jurka, introdotti in Trentino all’inizio degli anni duemila. Il suo nome ufficiale è JJ4. Nel 2020 aveva circa quattordici anni e tre cuccioli. Fugatti aveva ordinato di catturarla e ucciderla. Ma non aveva fatto i conti con il potere dei social media, che avevano contribuito a dare al caso una risonanza internazionale. Alcune organizzazioni animaliste hanno presentato ricorso al Tar di Trento chiedendo la sospensione del provvedimento.
“Non abbiamo ancora elementi sufficienti per valutare il comportamento dell’orsa”, aveva dichiarato il Wwf al New York Times. “Prima di sopprimerla, dobbiamo capire meglio cos’è successo”. Nel luglio 2020 il tribunale ha dato ragione agli attivisti. Le associazioni animaliste hanno espresso la loro gioia per il fatto che nessuno avrebbe più potuto “torcere un pelo” all’orsa.
Giovanni Giovannini è il responsabile del servizio foreste della provincia di Trento. Lavora nella guardia forestale da più di vent’anni. Ha i capelli grigi tagliati corti e gesticola con entusiasmo quando parla di argomenti come la conservazione dell’acqua. Gli piacerebbe che il suo lavoro si concentrasse sulla scienza degli ecosistemi boschivi, ma è costretto a dedicare gran parte del suo tempo a rispondere alle preoccupazioni suscitate dagli orsi.
Nella primavera del 2023 Giovannini aveva già scritto tre rapporti ai suoi superiori sostenendo che Gaia rappresentava una minaccia per le persone e avrebbe dovuto essere trasferita o abbattuta. Quando uno dei suoi collaboratori gli ha detto che era stato trovato il corpo dilaniato di un giovane vicino a Caldes, gli è tornato subito in mente il nome di Gaia, perché si sapeva che viveva da quelle parti. Sul corpo di Papi era stata trovata della saliva. Le analisi del dna hanno confermato il sospetto di Giovannini. Maurizio Fugatti ha emesso immediatamente un nuovo ordine di cattura e abbattimento di Gaia.
A quel punto Giovannini non sapeva dire quale sarebbe stato l’aspetto meno piacevole, tra dover dare la caccia a un’orsa intelligente e a tre cuccioli abbastanza grandi da infliggere ferite mortali, o affrontare l’indignazione degli animalisti che quella caccia avrebbe inevitabilmente suscitato. La sua squadra conosceva approssimativamente l’estensione del territorio in cui si muoveva Gaia e ha usato delle telecamere e altre attrezzature per individuare il posto migliore dove tenderle un’imboscata. È stata usata una trappola a tubo: una grande gabbia di metallo, leggermente più alta di una persona, con all’interno un tubo orizzontale che può contenere un orso. Quando la gabbia si chiude, l’orso non ha angoli su cui fare leva per rompere la gabbia o dove ferirsi.
La squadra di Giovannini ha usato come esca della frutta, del miele e del mais invece di qualcosa di più allettante come la carne, per non attirare orsi da altre parti della foresta. Le guardie forestali hanno monitorato la trappola attraverso telecamere e sensori a tutte le ore. Se un altro animale l’avesse rovesciata o spostata, avrebbero dovuto reintrodursi nel pericoloso territorio degli orsi per rimetterla a posto. Almeno altri venti orsi vivevano nella zona di Gaia. Voltando le spalle alla foresta buia per sistemare la trappola, le guardie forestali avevano provato un brivido di paura. Il 18 aprile Gaia è entrata nella gabbia. Non si è arrabbiata quando la porta si è chiusa alle sue spalle e non ha opposto resistenza, neanche quando è stata separata dai cuccioli.
Reale e immaginario
La morte di Papi ha scatenato molta rabbia tra gli abitanti della zona. Maini, il sindaco di Caldes, ha ricevuto messaggi scarabocchiati su foglietti e su Facebook, alcuni minacciosi, in cui gli si chiedeva perché non aveva protetto i suoi cittadini. Un compagno di scuola della figlia di sei anni del sindaco le ha detto che suo padre era un assassino.
Sono stati attaccati cartelli in tutto il paese con scritto: “Giustizia e dignità per Andrea”. Fugatti ha soffiato sul fuoco dichiarando che Papi sarebbe ancora vivo se le autorità avessero avuto il permesso di uccidere Gaia nel 2020.
Volevo vedere un orso bruno euroasiatico dal vivo per capire come sarebbe stato trovarsene uno davanti all’improvviso nel bosco
Fuori dal Trentino gli animalisti si sono mobilitati per evitare che l’orsa fosse uccisa. Si sono rivolti al consiglio di stato, che ha ordinato la sospensione dell’abbattimento e suggerito il trasferimento dell’animale. Gli attivisti hanno proposto di portarla in una riserva in Romania. Il futuro di Gaia sarà deciso dalle dispute legali ancora in corso nei tribunali a Trento e a Roma.
In tutti quei mesi gli attivisti per i diritti degli animali hanno protestato davanti alla casa di Fugatti (“Fugatti, siamo tutti JJ4!”). Dichiarandosi “antispecisti e antifascisti”, i difensori di Gaia hanno manifestato a Milano e a Roma. Hanno scritto anche a Maini.
“Vivono tutti su una montagna ideale”, mi ha detto Maini. “Ma noi dobbiamo vivere in quella vera”. Il suo paese è stato preso d’assalto da giornalisti di tutto il mondo e lo scalpore gli ha causato molto stress.
Andrea Papi è sepolto nel cimitero di una piccola chiesa a Caldes. La sua tomba è decorata da fiori colorati, candele e una fotografia in cui appare sulla cima di una montagna. Sulla facciata di una casa lì vicino è appeso uno degli striscioni che chiedono giustizia.
All’inizio la famiglia di Papi si era tenuta fuori dalle polemiche. Poi, nel luglio 2023, ha rilasciato una dichiarazione attraverso il suo avvocato. Era breve ma potente. La famiglia esprimeva rabbia verso chi si concentrava solo sul benessere di Gaia e criticava le autorità locali che non facevano abbastanza per garantire la sicurezza delle persone nei boschi. Papi, sostenevano, era stato “il martire di un progetto politico che ora risulta fuori controllo”.
Prendendo un sentiero appena fuori della città di Trento, superati i cartelli che avvertono del rischio di incontrare cinghiali portatori della peste suina africana, si arriva a un grande cancello nero che si apre in una recinzione sormontata da quattro giri di filo spinato. È il Casteller, un centro di cure veterinarie, ma di fatto una prigione per animali.
Gaia vive lì in un limbo, insieme a Papillon. Il Casteller è diventato un punto di raccolta per i manifestanti, che hanno perfino fatto volare dei droni sulla struttura per vedere le condizioni in cui sono tenuti gli orsi. Gaia e Papillon hanno a disposizione recinti di 2.500 metri quadrati, cibo in abbondanza e ottime cure veterinarie, ma per gli attivisti è lo stesso un crudele surrogato della vita libera nei boschi.
Massimo Vitturi, della Lav, mi ha raccontato di aver potuto incontrare Gaia. Per lui è stata un’esperienza emotivamente molto forte. “Vedere gli occhi con cui mi guardava mi ha trafitto il cuore”, ha detto. “Ho sentito l’intera responsabilità della specie umana. Ho sentito il bisogno di scusarmi a nome di tutti gli otto miliardi di abitanti della Terra”.
Molte delle persone coinvolte nella battaglia sul destino di Gaia sono giunte a conclusioni sorprendentemente simili sul progetto di reintroduzione in natura degli orsi. Vitturi è contrario perché secondo lui gli umani non dovrebbero interferire con la vita degli animali: gli orsi non avrebbero mai dovuto essere portati in Trentino da un altro paese. Giovannini, del servizio foreste, è d’accordo, ma per ragioni diverse: è impossibile gestire la popolazione degli orsi senza ricorrere agli abbattimenti, che in Slovenia sono consentiti.
Maini, il sindaco, contesta l’idea di “natura selvaggia” a cui sono affezionati gli attivisti. La foresta è gestita con grande cura e nessuno si lamenta. Perché non dovremmo tenere sotto controllo la popolazione degli orsi?
Ho trascorso molto tempo a Trento immerso tra gli orsi. Ho letto rapporti, ascoltato opinioni diverse e resoconti emotivi di incontri con questi animali. Ho visto video e foto, orsi imbalsamati, calchi in gesso delle impronte e riproduzioni in plastica dei loro escrementi. Ma volevo vedere un orso bruno euroasiatico dal vivo per capire come sarebbe stato trovarsene uno davanti all’improvviso nel bosco. Così ho visitato il santuario di san Romedio, che ospita in cattività un maschio di nome Bruno.
Guardando dalla terrazza che si affaccia su un recinto boscoso circondato da muri di pietra, all’inizio non sono riuscito a vederlo. Poi mi sono reso conto che si trovava sotto di me, rannicchiato accanto al muro su un tratto di terreno fangoso.
Ha circa vent’anni, cioè ha superato la metà di una vita vissuta in balia degli umani. Prima era un orso da circo e viveva in una piccola gabbia. Poi è stato salvato, e una decina di anni fa è arrivato a San Romedio, dov’è ben accudito.
Ma non sembrava felice, almeno ai miei occhi. Si girava e rigirava, spalancando la bocca. A volte si dondolava avanti e indietro, palesemente ansioso.
La sua pelliccia era un po’ bagnata e ho pensato fosse un segnale positivo. Non riuscivo a vedere quanto fosse grande il suo recinto. Forse era ampio. Forse riusciva a raggiungere il torrente di montagna che avevo costeggiato per raggiungere il santuario. Forse riusciva a sentirsi libero e selvaggio mentre cacciava una delle trote scure, lunghe quanto il mio avambraccio, che avevo avvistato tra i massi nelle acque gelide. Poi ho capito che il torrente era troppo lontano. Vicino alle sue zampe c’era una pozza di acqua fangosa non più grande di una piscinetta per bambini. Aveva tentato di bagnarsi la pelliccia, ma ci era riuscito solo in parte. ◆ bt
Ravi Somaiya, a lungo corrispondente del New York Times, collabora con diversi giornali anglofoni. Ha scritto The golden thread (Twelve 2020), sulla morte del segretario generale delle Nazioni Unite Dag Hammarskjöld.
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Questo articolo è uscito sul numero 1574 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati