Ho letto il suo messaggio nel dormiveglia. Era scritto metà in persiano e metà in arabo. Nel crepuscolo mattutino ho teso l’orecchio al suono della chiamata alla preghiera. Quando è stata intonata la formula “Ashhadu anna Aliyyan waliu Allah” (testimonio che Ali è il vicario di Dio) mi sono guardata intorno e mi sono ricordata dov’ero. Ero in Iran, a Isfahan, in quella vecchia casa di cui mia madre non aveva mai amato molto parlare.
Ho risposto a Mazen. Gli ho risposto perché mi sentivo in dovere di ricambiare la sua gentilezza. Annegavo nel suo affetto, che per me era quasi un ostacolo.
Un fascio di luce ricadeva sulla foto impolverata della bisnonna, ricadeva sui suoi grandi occhi color miele, che si diceva cambiassero colore all’alba e al tramonto
Ho scritto una sola frase: “Mi sento smarrita”.
Non ho aggiunto che quel senso di smarrimento scorreva nel nostro sangue da generazioni. Almeno sette, secondo la mia bisnonna. Sosteneva che già da allora i confini della nostra vita si estendevano ben oltre Isfahan, per arrivare fino alla Mecca, a Baghdad e all’Andalusia. Diceva che era stata una nostra antenata, la cui bellezza instillava la follia negli occhi e nei cuori di chiunque, a spargere per la prima volta il seme dello smarrimento dentro di noi.
Mi sono guardata intorno, fino a quando non ho messo a fuoco la stanza dove mi ero addormentata. La risposta di Mazen è stata: Tuba liman hara, beato chi si smarrisce.
Gli ho scritto: “Mazen, sapevi che qui la chiamata alla preghiera è diversa da quella di Baalbek?”.
Mi sono alzata e ho fatto qualche passo. Un fascio di luce ricadeva sulla foto impolverata della bisnonna che qualcuno aveva incorniciato e appeso nella stanza, ricadeva sui suoi grandi occhi color miele, che si diceva cambiassero colore all’alba e al tramonto. Ma si diceva anche che non possedevano un millesimo della bellezza e dell’intensità dello sguardo di una nostra antenata di cui in famiglia si tramandavano leggende e racconti.
Mi sono allontanata di un passo dalla cornice. Ricordavo poco la bisnonna. Quando era morta ero una bambina. Era la nonna di mia madre. Tutte le volte che venivamo a Isfahan ci raccontava delle città in cui aveva viaggiato. Raccontava le sue avventure all’università di Al Azhar in Egitto, dove aveva studiato, ma non appena arrivava il momento di parlare della sua antenata, mia madre mi allontanava dalla stanza con una scusa. Non voleva che conoscessi le misteriose leggende della nostra discendenza.
Anche se dopo la morte della nonna mia madre aveva ereditato questa casa, nei nostri viaggi a Isfahan non ci stavamo mai. Eravamo sempre ospiti di questo o quel parente.
Mi sono allontanata dalla fotografia, dallo sguardo e dalla bellezza abbacinante della bisnonna. Ho attraversato la stanza diretta verso una grande finestra che occupava una parete intera. Ho scostato la tenda di pizzo. La stanza si è illuminata. Sono apparsi un portapenne e un quadro smaltato in minakari. Quando ero arrivata la sera precedente, tutto era avvolto nell’oscurità. Ero partita dall’aeroporto di Beirut, avevo fatto scalo a Doha e poi ero atterrata a Isfahan. Avevo aperto la porta di casa al buio, avevo salito tre piani di scale ed ero crollata sul letto. Avevo detto a mia madre che mi sarei fermata a Isfahan solo un giorno, perché non c’era un volo diretto per Teheran. Non aveva detto nulla, sapeva che la casa di Teheran non era la stessa senza di loro, che sarebbero dovuti rimanere in Canada per altre tre settimane, nell’attesa che mio padre firmasse dei contratti per alcuni lavori di oreficeria.
Prima di mettermi in viaggio, Mazen mi aveva posato una mano sul cuore e aveva detto: “Sapevi che queste due città sono gemellate? Perfino le nostre città sono sorelle, e chi è più affidabile di una sorella per custodire vita e segreti?”. Aveva pronunciato tutto in arabo, senza una parola di persiano.
Gli avevo chiesto: “Perché mi ami?”.
Il suo volto si era rabbuiato. Era perché avevo parlato in arabo, lo sapevo. Fin dall’inizio, eravamo d’accordo che gli avrei sempre parlato in persiano, poiché desiderava molto impararlo. Per me, tuttavia, parlare arabo o persiano non faceva nessuna differenza. Così come la bellezza e il senso di smarrimento, anche questa lingua scorreva nel nostro sangue da generazioni.
Anche la mia bisnonna era sepolta in quel cimitero. Aveva vissuto fino a novantanove anni e i suoi occhi avevano brillato fino all’ultimo. Il suo volto aveva conservato i suoi tratti delicati e gentili fino alla vecchiaia
Aveva risposto: “Perché ti amo? Come afferma il custode dell’amore, al-hubb sirr ilahi, l’amore è un segreto divino. Per questo semplice, banale motivo”.
Ho scostato la tenda della finestra per metà. L’altro lembo era rimasto incastrato. Ho tirato di nuovo la tenda con fatica, finché tutta la stanza non si è rischiarata. La grande finestra è rimasta nuda e il cimitero, come un mare infinito, ha occupato l’intero riquadro. Le cupole azzurre e i minareti grandi e piccoli di alcuni mausolei sono apparsi tra i rettangoli bianchi e lisci.
Ho provato una grande serenità. Dalla finestra si poteva scorgere un lato del cimitero di Takht-e Fulad, la ragione del mio viaggio.
Anche la mia bisnonna era sepolta in quel cimitero. Aveva vissuto fino a novantanove anni e i suoi occhi avevano brillato fino all’ultimo. Il suo volto aveva conservato i suoi tratti delicati e gentili fino alla vecchiaia.
Ho preso il telefono e ho sceso le scale, su cui correva un tappeto di seta fatto a mano. Mi sono fermata sul pianerottolo del secondo piano e ho ripulito dalla polvere le foglie di una pianta in un vaso. Al centro del salotto c’era un grande tavolo intarsiato, su cui erano stati disposti dei contenitori grandi e piccoli, d’argento e di rame. Al loro interno, medagliette di zucchero incollate tra loro erano diventate preda delle formiche. Ho aperto una scatolina placcata d’argento piena di torroncini ormai rinsecchiti. Non c’era niente di commestibile.
Mi aggiravo tra le stanze, quando Mazen mi ha mandato un messaggio: Ana uhibbuki. Anche se era innamorato della lingua persiana, non la usava mai né per scrivere né per pronunciare questa frase. Era convinto che dire “ti amo” avesse valore solo nella sua lingua madre, l’arabo.
Come d’abitudine, gli ho risposto: “Perché?”.
Dopo tre anni vissuti in un paese lontano, dopo aver studiato nella stessa facoltà ed essere stata sua compagna di corso, non era mai successo che gli rispondessi: “Ti amo anch’io”. Gli chiedevo sempre “perché?” e lui, ogni volta, mi rispondeva con una nuova ragione.
Sono entrata nella cucina che era invasa da piatti impolverati. I loro motivi a goccia e ad arabeschi mi hanno cambiato l’umore. Quanto avrei desiderato rispondere a Mazen con entusiasmo: “Anch’io”.
Sul frigorifero era stato appeso il volantino di una gastronomia da asporto. Ho telefonato e ho ordinato da mangiare a sufficienza per qualche giorno. Riso beriyani, stufato allo yogurt, halim di melanzane e una zuppa kale jush.
Ho vagato tra il salotto e il lungo corridoio. Sono arrivata a una stanza più piccola delle altre. Sulla parete era appeso un quadro con un ritratto a grandezza naturale della bisnonna, della nonna e di mia madre. Tre generazioni in piedi di fronte al fiume Zayanderud. Ho alitato sul vetro e l’ho strofinato con la manica. I loro occhi rilucevano sotto il chiaroscuro delle luci del ponte Khaju. C’era uno specchio d’argento a figura intera posizionato in un angolo. Mi ci sono messa di fronte. Mi sono legata i capelli in uno chignon alto e ho fatto ricadere la frangia sul viso. Ho modellato le ciglia con la mano. Erano più belli i miei occhi o quelli della bisnonna?
In quello stesso istante, Mazen ha risposto al mio “perché”: “Per le tue languide palpebre”. Era come se fosse costantemente presente nel mio spirito e nella mia anima. La volta precedente, quando avevo risposto “perché?” al suo “ti amo”, aveva dichiarato: “È prerogativa dell’amore che l’amore stesso ne sia la sola ragione”. In un’altra occasione mi aveva detto: “Qualsiasi devozione di cui sia noto il movente provoca sfiducia e separazione”.
Dopo tre anni vissuti in un paese lontano, dopo aver studiato nella stessa facoltà ed essere stata sua compagna di corso, non era mai accaduto che gli rispondessi: “Ti amo anch’io”. Gli chiedevo sempre “perché?”
E io? Io amavo Mazen? Non lo sapevo. E cos’era questo viaggio? Forse stavo solo scappando dal suo amore, da Mazen stesso, dal Libano. Una fuga simile a quella di una storia che aveva raccontato una volta la mia bisnonna. Una storia misteriosa sulla nostra antenata, che un tempo aveva vissuto alla Mecca con suo padre. Era impegnata a studiare la mistica e la religione, quando un illustre erudito della città rimase colpito dalla sua bellezza ammaliante e dalla vastità del suo sapere. Il colto mistico compose delle poesie per lei e le trascrisse in un libro. Tuttavia, quando le dichiarò il suo amore, lei scappò dalla città, in fuga da quel sentimento. Andò di città in città finché non fece ritorno a quella dov’era nata, Isfahan, e lì visse fino alla fine dei suoi giorni.
Non ero mai riuscita a capire se questo racconto fosse vero o fosse una semplice leggenda per animare le feste di famiglia. Inoltre, mia madre evitava a tal punto di parlarne che non conoscevo neppure il nome della mia antenata.
Ho fatto un giro per la stanza. In un angolo c’era un baule di legno con una decorazione a fiori e uccelli cesellati, sul quale avevano steso un drappo in termeh broccato d’oro. Ho scostato la spessa tenda per far entrare la luce. Mi sono seduta sul baule. Il legno ha cigolato. Mi sono alzata e ho spalancato del tutto la tenda. Al centro del cortile su cui affacciava la finestra si ergeva un albero imponente. Le radici spesse, intrecciate le une alle altre, avevano spaccato il mosaico. Fiori freschi appena sbocciati nascondevano tutta la superficie del cortile e il muro del vicino. Attraverso il telaio della finestra chiusa, penetrava nella stanza un delicato profumo.
Stavo ammirando la maestosità di quella pianta, quando mia madre ha telefonato. Mi consigliava, come sempre, di non trattenermi troppo a Isfahan e di andare a Teheran il prima possibile. Insisteva particolarmente che non uscissi di casa e non entrassi in cortile finché la questione della casa non fosse stata risolta. Ha detto che avrebbero potuto sorgere dei problemi se si fossero accorti che ci abitava qualcuno. Era stato infatti stabilito che l’edificio fosse registrato presso l’indice dei monumenti nazionali per via del suo interesse storico e architettonico.
Dopo aver rassicurato mia madre che avrei fatto come diceva lei, sono salita al piano superiore. Mi sono fermata davanti al panorama del mio adorato cimitero. Mia madre non immaginava che sarei rimasta a Isfahan a lungo né che avevo intenzione di visitare ogni giorno il cimitero, il più antico lembo di terra di tutto il Medio Oriente. Che bel nome gli avevano dato, Lisan al-ard, lingua della terra. Chissà che storie avrebbe raccontato, se solo avesse aperto bocca. Ho preso una sedia, l’ho posizionata di fronte alla finestra e mi sono messa a fissare il cimitero. Forse era proprio a causa della vista che mia madre non amava questa casa.
Ho strizzato gli occhi nel tentativo di distinguere la tomba del profeta Giosuè nel muto affollamento delle lapidi, ma non la trovavo. Le distruzioni e le ricostruzioni avevano fatto sparire molte sepolture.
Forse mia madre temeva che qualche segreto fosse svelato. Non era da escludere che la nostra stirpe risalisse agli ebrei residenti a Isfahan anziché a un hojjatoleslam e ai sapienti religiosi musulmani. I continui viaggi e i vagabondaggi della nostra famiglia potevano essere una spia del fatto che eravamo ebrei. Forse, scavando più a fondo nelle radici della nostra famiglia, saremmo risaliti a un gruppo di antenati che erano emigrati da Gerusalemme portando con sé un po’ d’acqua e di terra dalla loro città. Vagavano di luogo in luogo e non appena raggiungevano una nuova regione, esaminavano le acque e il terreno, che però non corrispondevano mai a quelli della loro terra d’origine. Solo a Isfahan avevano trovato un terreno uguale a quello della loro città.
Mentre sedevo alla finestra, ho mandato un messaggio a Mazen su WhatsApp: “Sapevi che la terra delle nostre città è la stessa?”.
Ha risposto: “Te l’avevo detto che l’amore che ci lega è molto più antico di me e di te”.
Ho avvicinato ancora di più la sedia alla finestra. L’orizzonte del cimitero si è fatto più ampio. Qui riposava la storia. Un angolo di questa terra riviveva ancora nella mente del profeta Giosuè e ancora ricordava il giorno in cui il sole e la luna si erano fermati su sua richiesta.
Ho risposto a Mazen con una rosa rossa.
Quando avevo risposto “perché?” al suo “ti amo”, aveva dichiarato: “È prerogativa dell’amore che l’amore stesso ne sia la sola ragione”. In un’altra occasione mi aveva detto: “Qualsiasi devozione di cui sia noto il movente provoca sfiducia e separazione”
Mi ha scritto: “Non l’ho detto io, ma Muhiddin: Isfahan è una città dove dimorano graziose fanciulle persiane, delicate nelle movenze e dalle languide palpebre”.
Si era riferito a Ibn Arabi con il suo soprannome, Muhiddin, come se fossero amici. Inoltre, ogni parola e ogni frase, consciamente o inconsciamente, apparteneva proprio al mistico.
Hanno suonato alla porta. Era arrivato il motorino delle consegne. Sono uscita in cortile a ritirare l’ordine. Il profumo dei boccioli schiusi avvolgeva il giardino. Ho lasciato il pacchetto sul bordo della fontana e gli ho appoggiato accanto il telefono in modo che la telecamera riprendesse sia me sia l’albero. Poi sono andata sotto i fiori della pianta e ho cominciato a ballare. Boccioli rosa e bianchi. Mentre piroettavo su me stessa, i fiori più piccoli svolazzavano, adagiandosi sui mosaici spaccati del cortile. Roteando tra i rami, mi sono accorta di una chiave che penzolava. Ho fatto alcuni saltelli sulla punta dei piedi, finché non l’ho sfilata dall’estremità del ramo. Piccola e arrugginita, era legata a una minuscola rete. Sono rientrata in casa e ho cominciato a provarla nella serratura di ogni stanza, di ogni sgabuzzino. Ho perlustrato ogni piano e ogni angolo. La chiave non girava mai.
Sono tornata al terzo piano e mi sono seduta. Ho scritto a Mazen: “Magari fossi qui con me. Se tu sapessi com’è piacevole mangiare il beriyani guardando il cimitero”.
Mi ha risposto: “Cara Golnesa, mia Nezam, armonia della mia vita, se sapessi che gioia dà leggere L’interprete delle passioni con un tè al cardamomo”.
Ho infilato il telefono in tasca e ho mangiato un cucchiaio di beriyani. Mi sono spostata leggermente sulla sedia, facendola scricchiolare. Ho afferrato la chiave dal bracciolo della sedia e sono scesa al piano inferiore. Sono entrata nella stanza con la grande finestra che si affacciava sul giardino, da cui si scorgeva l’albero dai rami rosa e bianchi. Ho rimosso il drappo broccato d’oro dal baule di legno e ho girato la chiave nel lucchetto. Si è aperto con uno scatto. Polvere, ragnatele e piccolissimi cadaveri d’insetti morti si erano raccolti su una pila di libri antichi e fogli voluminosi.
Tutti i rumori sono scomparsi. C’era silenzio, una quiete assoluta. Ho sfogliato le pagine ingiallite del libro. Era piccolo, pieno di poesie d’amore, le stesse che avevano determinato il viaggio della mia antenata
Ho estratto uno di quei grandi fogli e un libro, entrambi scritti in arabo. Li ho appoggiati con cautela sul pavimento e li ho spolverati passandoci la mano. Poi mi sono dedicata ad aprire il foglio, che era stato ripiegato più e più volte. La mia mano era diventata appiccicaticcia. Intorno a me si era sollevato il mormorio della brezza primaverile che ora turbinava tra i rami dell’albero, e le si aggiungeva il suono del mio cuore che intonava una strofa in fortissimo. Quando ho finito di dispiegarlo, al centro della stanza c’era un foglio fragile e consunto che copriva metà del pavimento: un albero genealogico con spessi tratti neri e lunghi nomi. Ho seguito le linee fino ad arrivare a un nome conosciuto. Ho trovato il nome della nonna e della bisnonna. Sono risalita di ramo in ramo di sei generazioni. C’era scritto: Nezam-e Mohaddes-e Abi Shaja Zahir bin Rustam Isfahani.
Era un nome familiare, ma non ricordavo dove l’avevo sentito. Ho lasciato da parte l’albero genealogico e mi sono accostata al libro. Ho girato le pagine in modo tale che la rilegatura non si rovinasse. Sulla prima era riportato il titolo del volume. Era a malapena leggibile e tra le parole arabe sbiadite sono riuscita a distinguere solamente la prima, qualcosa di simile a “interpretazione”.
Le righe della seconda pagina, anche se erano scolorite, si riuscivano ancora a leggere. Era una dedica in arabo: “Ho scritto questo libro per te. Per la mia Nezam, per la gioiosa armonia dei miei occhi che è sorta nel cuore di Muhiddin Arabi. È viva e mai morirà. Mio incanto dalla vita sottile, occhio che impreziosisce l’assemblea”.
Tutti i rumori sono scomparsi. C’era silenzio, una quiete assoluta. Ho sfogliato le pagine ingiallite del libro. Era piccolo, pieno di poesie d’amore, le stesse che avevano determinato il viaggio della mia antenata e provocato l’insorgere di quel senso di smarrimento da cui sarebbero scaturiti tutti quei racconti che circolavano nella mia famiglia di bocca in bocca, di generazione in generazione. La mia antenata, quella bellezza eterna, aveva lasciato Baghdad in sella a un cavallo con suo padre, per poi arrivare a Isfahan. Nella bisaccia, un libro a ricordo del suo amore: questo libro.
Le poesie sembravano le parole di Mazen. Molte pagine erano del tutto sbiadite, le ultime erano le più intatte. Ho letto una delle righe che si distinguevano meglio: “Sono assente e l’amore, il suo tumulto e la sua ebbrezza, annienta la mia anima. Come mi trovo di fronte a lei…”.
Da lì in poi non c’era più una parola, le righe si erano cancellate. Ho chiuso il libro. Qualcosa ha tremato. Mi sono guardata le mani, il corpo. Riecco il tremolio. Mi sono alzata e ho controllato dappertutto. Era il telefono che avevo messo in tasca.
Sul retro del foglio erano stati trascritti i nomi di tutti i componenti della famiglia con le indicazioni esatte del loro luogo di sepoltura. Al centro era stata disegnata una piantina simile alla casa in cui mi trovavo, con specificato il numero di passi necessari a coprire la distanza tra le tombe e la casa.
Anche la mia bisnonna era sepolta in quel cimitero. Aveva vissuto fino a novantanove anni e i suoi occhi avevano brillato fino all’ultimo. Il suo volto aveva conservato i suoi tratti delicati e gentili fino alla vecchiaia
Tutti i rumori sono scomparsi. C’era silenzio, una quiete assoluta. Ho sfogliato le pagine ingiallite del libro. Era piccolo, pieno di poesie d’amore, le stesse che avevano determinato il viaggio della mia antenata
Mentre osservavo assorta il panorama, mi sono ricordata che non avevo ancora risposto al suggerimento di Mazen. Non gli avevo detto che non m’interessava lavorare su Ibn Arabi. Non avevo letto molto su di lui. Aspettavo solo di raggiungere questa casa e questa finestra per cominciare la ricerca per la mia tesi. Dovevo realizzare un repertorio delle lastre funerarie del cimitero di Takht‑e Fulad per fare uno studio approfondito delle epigrafi tombali, dei mausolei di famiglia e dei monasteri dei dervisci, i khanqah. Avrei studiato incisioni i cui primi esemplari risalivano all’epoca preislamica e alla tomba del profeta Giosuè, fino al periodo dei saggi sufi. Anche la mia bisnonna era sepolta in quel cimitero. Aveva vissuto fino a novantanove anni e i suoi occhi avevano brillato fino all’ultimo. Il suo volto aveva conservato i suoi tratti delicati e gentili fino alla vecchiaia. Ho preso il telefono e ho sceso le scale, su cui correva un tappeto di seta fatto a mano. Mi sono fermata sul pianerottolo del secondo piano e ho ripulito dalla polvere le foglie di una pianta in un vaso. Al centro del salotto c’era un grande tavolo intarsiato, su cui erano stati disposti dei contenitori grandi e piccoli, d’argento e di rame. Al loro interno, medagliette di zucchero incollate tra loro erano diventate preda delle formiche. Ho aperto una scatolina placcata d’argento piena di torroncini ormai rinsecchiti. Non c’era niente di commestibile. Mi aggiravo tra le stanze, quando Mazen mi ha mandato un messaggio: Ana uhibbuki. Anche se era innamorato della lingua persiana, non la usava mai né per scrivere né per pronunciare questa frase. Era convinto che dire “ti amo” avesse valore solo nella sua lingua madre, l’arabo. Come d’abitudine, gli ho risposto: “Perché?”. Dopo tre anni vissuti in un paese lontano, dopo aver studiato nella stessa facoltà ed essere stata sua compagna di corso, non era mai successo che gli rispondessi: “Ti amo anch’io”. Gli chiedevo sempre “perché?” e lui, ogni volta, mi rispondeva con una nuova ragione. Sono entrata nella cucina che era invasa da piatti impolverati. I loro motivi a goccia e ad arabeschi mi hanno cambiato l’umore. Quanto avrei desiderato rispondere a Mazen con entusiasmo: “Anch’io”. Sul frigorifero era stato appeso il volantino di una gastronomia da asporto. Ho telefonato e ho ordinato da mangiare a sufficienza per qualche giorno. Riso beriyani, stufato allo yogurt, halim di melanzane e una zuppa kale jush. Ho vagato tra il salotto e il lungo corridoio. Sono arrivata a una stanza più piccola delle altre. Sulla parete era appeso un quadro con un ritratto a grandezza naturale della bisnonna, della nonna e di mia madre. Tre generazioni in piedi di fronte al fiume Zayanderud. Ho alitato sul vetro e l’ho strofinato con la manica. I loro occhi rilucevano sotto il chiaroscuro delle luci del ponte Khaju. C’era uno specchio d’argento a figura intera posizionato in un angolo. Mi ci sono messa di fronte. Mi sono legata i capelli in uno chignon alto e ho fatto ricadere la frangia sul viso. Ho modellato le ciglia con la mano. Erano più belli i miei occhi o quelli della bisnonna? In quello stesso istante, Mazen ha risposto al mio “perché”: “Per le tue languide palpebre”. Era come se fosse costantemente presente nel mio spirito e nella mia anima. La volta precedente, quando avevo risposto “perché?” al suo “ti amo”, aveva dichiarato: “È prerogativa dell’amore che l’amore stesso ne sia la sola ragione”. In un’altra occasione mi aveva detto: “Qualsiasi devozione di cui sia noto il movente provoca sfiducia e separazione”. E io? Io amavo Mazen? Non lo sapevo. E cos’era questo viaggio? Forse stavo solo scappando dal suo amore, da Mazen stesso, dal Libano. Una fuga simile a quella di una storia che aveva raccontato una volta la mia bisnonna. Una storia misteriosa sulla nostra antenata, che un tempo aveva vissuto alla Mecca con suo padre. Era impegnata a studiare la mistica e la religione, quando un illustre erudito della città rimase colpito dalla sua bellezza ammaliante e dalla vastità del suo sapere. Il colto mistico compose delle poesie per lei e le trascrisse in un libro. Tuttavia, quando le dichiarò il suo amore, lei scappò dalla città, in fuga da quel sentimento. Andò di città in città finché non fece ritorno a quella dov’era nata, Isfahan, e lì visse fino alla fine dei suoi giorni. Non ero mai riuscita a capire se questo racconto fosse vero o fosse una semplice leggenda per animare le feste di famiglia. Inoltre, mia madre evitava a tal punto di parlarne che non conoscevo neppure il nome della mia antenata. Ho fatto un giro per la stanza. In un angolo c’era un baule di legno con una decorazione a fiori e uccelli cesellati, sul quale avevano steso un drappo in termeh broccato d’oro. Ho scostato la spessa tenda per far entrare la luce. Mi sono seduta sul baule. Il legno ha cigolato. Mi sono alzata e ho spalancato del tutto la tenda. Al centro del cortile su cui affacciava la finestra si ergeva un albero imponente. Le radici spesse, intrecciate le une alle altre, avevano spaccato il mosaico. Fiori freschi appena sbocciati nascondevano tutta la superficie del cortile e il muro del vicino. Attraverso il telaio della finestra chiusa, penetrava nella stanza un delicato profumo. Stavo ammirando la maestosità di quella pianta, quando mia madre ha telefonato. Mi consigliava, come sempre, di non trattenermi troppo a Isfahan e di andare a Teheran il prima possibile. Insisteva particolarmente che non uscissi di casa e non entrassi in cortile finché la questione della casa non fosse stata risolta. Ha detto che avrebbero potuto sorgere dei problemi se si fossero accorti che ci abitava qualcuno. Era stato infatti stabilito che l’edificio fosse registrato presso l’indice dei monumenti nazionali per via del suo interesse storico e architettonico. Dopo aver rassicurato mia madre che avrei fatto come diceva lei, sono salita al piano superiore. Mi sono fermata davanti al panorama del mio adorato cimitero. Mia madre non immaginava che sarei rimasta a Isfahan a lungo né che avevo intenzione di visitare ogni giorno il cimitero, il più antico lembo di terra di tutto il Medio Oriente. Che bel nome gli avevano dato, Lisan al-ard, lingua della terra. Chissà che storie avrebbe raccontato, se solo avesse aperto bocca. Ho preso una sedia, l’ho posizionata di fronte alla finestra e mi sono messa a fissare il cimitero. Forse era proprio a causa della vista che mia madre non amava questa casa. Ho strizzato gli occhi nel tentativo di distinguere la tomba del profeta Giosuè nel muto affollamento delle lapidi, ma non la trovavo. Le distruzioni e le ricostruzioni avevano fatto sparire molte sepolture. Forse mia madre temeva che qualche segreto fosse svelato. Non era da escludere che la nostra stirpe risalisse agli ebrei residenti a Isfahan anziché a un hojjatoleslam e ai sapienti religiosi musulmani. I continui viaggi e i vagabondaggi della nostra famiglia potevano essere una spia del fatto che eravamo ebrei. Forse, scavando più a fondo nelle radici della nostra famiglia, saremmo risaliti a un gruppo di antenati che erano emigrati da Gerusalemme portando con sé un po’ d’acqua e di terra dalla loro città. Vagavano di luogo in luogo e non appena raggiungevano una nuova regione, esaminavano le acque e il terreno, che però non corrispondevano mai a quelli della loro terra d’origine. Solo a Isfahan avevano trovato un terreno uguale a quello della loro città. Mentre sedevo alla finestra, ho mandato un messaggio a Mazen su WhatsApp: “Sapevi che la terra delle nostre città è la stessa?”. Ha risposto: “Te l’avevo detto che l’amore che ci lega è molto più antico di me e di te”. Ho avvicinato ancora di più la sedia alla finestra. L’orizzonte del cimitero si è fatto più ampio. Qui riposava la storia. Un angolo di questa terra riviveva ancora nella mente del profeta Giosuè e ancora ricordava il giorno in cui il sole e la luna si erano fermati su sua richiesta. Ho risposto a Mazen con una rosa rossa. Mi ha scritto: “Non l’ho detto io, ma Muhiddin: Isfahan è una città dove dimorano graziose fanciulle persiane, delicate nelle movenze e dalle languide palpebre”. Si era riferito a Ibn Arabi con il suo soprannome, Muhiddin, come se fossero amici. Inoltre, ogni parola e ogni frase, consciamente o inconsciamente, apparteneva proprio al mistico. Hanno suonato alla porta. Era arrivato il motorino delle consegne. Sono uscita in cortile a ritirare l’ordine. Il profumo dei boccioli schiusi avvolgeva il giardino. Ho lasciato il pacchetto sul bordo della fontana e gli ho appoggiato accanto il telefono in modo che la telecamera riprendesse sia me sia l’albero. Poi sono andata sotto i fiori della pianta e ho cominciato a ballare. Boccioli rosa e bianchi. Mentre piroettavo su me stessa, i fiori più piccoli svolazzavano, adagiandosi sui mosaici spaccati del cortile. Roteando tra i rami, mi sono accorta di una chiave che penzolava. Ho fatto alcuni saltelli sulla punta dei piedi, finché non l’ho sfilata dall’estremità del ramo. Piccola e arrugginita, era legata a una minuscola rete. Sono rientrata in casa e ho cominciato a provarla nella serratura di ogni stanza, di ogni sgabuzzino. Ho perlustrato ogni piano e ogni angolo. La chiave non girava mai. Sono tornata al terzo piano e mi sono seduta. Ho scritto a Mazen: “Magari fossi qui con me. Se tu sapessi com’è piacevole mangiare il beriyani guardando il cimitero”. Mi ha risposto: “Cara Golnesa, mia Nezam, armonia della mia vita, se sapessi che gioia dà leggere L’interprete delle passioni con un tè al cardamomo”. Ho infilato il telefono in tasca e ho mangiato un cucchiaio di beriyani. Mi sono spostata leggermente sulla sedia, facendola scricchiolare. Ho afferrato la chiave dal bracciolo della sedia e sono scesa al piano inferiore. Sono entrata nella stanza con la grande finestra che si affacciava sul giardino, da cui si scorgeva l’albero dai rami rosa e bianchi. Ho rimosso il drappo broccato d’oro dal baule di legno e ho girato la chiave nel lucchetto. Si è aperto con uno scatto. Polvere, ragnatele e piccolissimi cadaveri d’insetti morti si erano raccolti su una pila di libri antichi e fogli voluminosi. Ho estratto uno di quei grandi fogli e un libro, entrambi scritti in arabo. Li ho appoggiati con cautela sul pavimento e li ho spolverati passandoci la mano. Poi mi sono dedicata ad aprire il foglio, che era stato ripiegato più e più volte. La mia mano era diventata appiccicaticcia. Intorno a me si era sollevato il mormorio della brezza primaverile che ora turbinava tra i rami dell’albero, e le si aggiungeva il suono del mio cuore che intonava una strofa in fortissimo. Quando ho finito di dispiegarlo, al centro della stanza c’era un foglio fragile e consunto che copriva metà del pavimento: un albero genealogico con spessi tratti neri e lunghi nomi. Ho seguito le linee fino ad arrivare a un nome conosciuto. Ho trovato il nome della nonna e della bisnonna. Sono risalita di ramo in ramo di sei generazioni. C’era scritto: Nezam-e Mohaddes-e Abi Shaja Zahir bin Rustam Isfahani. Era un nome familiare, ma non ricordavo dove l’avevo sentito. Ho lasciato da parte l’albero genealogico e mi sono accostata al libro. Ho girato le pagine in modo tale che la rilegatura non si rovinasse. Sulla prima era riportato il titolo del volume. Era a malapena leggibile e tra le parole arabe sbiadite sono riuscita a distinguere solamente la prima, qualcosa di simile a “interpretazione”. Le righe della seconda pagina, anche se erano scolorite, si riuscivano ancora a leggere. Era una dedica in arabo: “Ho scritto questo libro per te. Per la mia Nezam, per la gioiosa armonia dei miei occhi che è sorta nel cuore di Muhiddin Arabi. È viva e mai morirà. Mio incanto dalla vita sottile, occhio che impreziosisce l’assemblea”. Tutti i rumori sono scomparsi. C’era silenzio, una quiete assoluta. Ho sfogliato le pagine ingiallite del libro. Era piccolo, pieno di poesie d’amore, le stesse che avevano determinato il viaggio della mia antenata e provocato l’insorgere di quel senso di smarrimento da cui sarebbero scaturiti tutti quei racconti che circolavano nella mia famiglia di bocca in bocca, di generazione in generazione. La mia antenata, quella bellezza eterna, aveva lasciato Baghdad in sella a un cavallo con suo padre, per poi arrivare a Isfahan. Nella bisaccia, un libro a ricordo del suo amore: questo libro. Le poesie sembravano le parole di Mazen. Molte pagine erano del tutto sbiadite, le ultime erano le più intatte. Ho letto una delle righe che si distinguevano meglio: “Sono assente e l’amore, il suo tumulto e la sua ebbrezza, annienta la mia anima. Come mi trovo di fronte a lei…”. Da lì in poi non c’era più una parola, le righe si erano cancellate. Ho chiuso il libro. Qualcosa ha tremato. Mi sono guardata le mani, il corpo. Riecco il tremolio. Mi sono alzata e ho controllato dappertutto. Era il telefono che avevo messo in tasca. Sul retro del foglio erano stati trascritti i nomi di tutti i componenti della famiglia con le indicazioni esatte del loro luogo di sepoltura. Al centro era stata disegnata una piantina simile alla casa in cui mi trovavo, con specificato il numero di passi necessari a coprire la distanza tra le tombe e la casa. Ho confrontato nomi e sepolture a uno a uno. Le tombe della nonna e della bisnonna, con il loro mausoleo di famiglia, erano segnate all’interno di Takht‑e Fulad. Ho cercato quella di Nezam. Lei, che è stata la più bella delle donne del Medio Oriente. Lei, origine del viaggio, della bellezza e della ricerca della conoscenza nella nostra famiglia. Lei, segreto sigillato per lunghi anni. Il numero dei passi indicava che il luogo della sua sepoltura era più lontano, all’esterno di Takht‑e Fulad. Calcolando i passi, sono arrivata all’area della casa, nella zona del cortile. Ho deposto il foglio a terra e mi sono alzata. Ho guardato fuori dalla finestra, verso il cortile, verso l’albero centenario dai boccioli infiniti, che era il proseguimento della bellezza di Nezam, e affondava le radici nei suoi occhi e nella sua vita sottile. Ho ripiegato il lungo foglio dell’albero genealogico e l’ho riposto nel baule. Ho chiuso il libro, il cui titolo mi era ormai chiaro: il manoscritto dell’Interprete delle passioni, l’originale di Ibn Arabi, era nelle mie mani. Ho annusato il volume nella speranza di trovare traccia di lui, di loro, del loro amore. Sul retro della copertina erano impresse tre parole sbiadite. Ho sentito soffiare una leggera brezza. Ho indugiato con lo sguardo tra i rami dell’albero di Nezam che oscillavano al vento. Ho osservato la pianta. Ho digitato quelle tre parole sul telefono e le ho inviate a Mazen. Al-hubb mawt saghir. L’amore è una piccola morte.
Razieh Mehdizadeh
è nata nel 1988. Si è laureata in filosofia all’Università di Teheran e vive a New York. Ha pubblicato due raccolte di racconti e collabora regolarmente con le riviste iraniane Saan e Nadastan. Il titolo originale di questo racconto è Marg-e kuchak . La traduzione è di Veronica Turrini.
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Questo articolo è uscito sul numero 1441 di Internazionale, a pagina 102. Compra questo numero | Abbonati