In quell’istante affondò nel laghetto. L’uomo magro, che lo teneva per la mano destra, improvvisamente aveva lasciato la presa.
“Oh!”.
“È caduto!”.
“È caduto!”.
Gli astanti stavano strepitando per avere una vista migliore quando improvvisamente furono spinti da dietro e sprofondarono anche loro nel laghetto. La risata chiara e acuta dell’uomo magro si udiva al di sopra del frastuono.
L’uomo magro attraversò di corsa il ponte come un cane nero e scappò verso la città buia.
“È scappato!”.
“Maledizione!”.
“Era uno scippatore?”.
“Un pazzo?”.
“Un detective?”.
“È il tengu del monte Ueno!”.
“È il kappa del lago Shinobazu!”.
L’incidente del cappello, di Yasunari Kawabata, 1926
per l’estate le serve
vestito carino cotone
cotone notoce
coonet
tcooen
toocen
toonec tocnoe
tocone toceon
contoe
Appunti durante lunga conversazione con mamma, di Lydia Davis, 2014
Cosa distingue esattamente il racconto dal romanzo? Come ha osservato lo scrittore scozzese William Boyd, la questione è più complicata di come potrebbe sembrare. Chi scrive romanzi e racconti, fa notare Boyd, usa gli stessi “strumenti letterari”, come personaggi, trama, ambientazione, titolo e dialogo, e sulla pagina il risultato – frasi e paragrafi – è lo stesso. La tentazione è quella di rispondere alla domanda rifugiandosi nella differenza più ovvia: i racconti sono semplicemente più corti dei romanzi.
Già alla fine dell’ottocento, i critici scrivevano che questa risposta non era abbastanza soddisfacente. Nel 1885, in The philosophy of the short-story (La filosofia del racconto), uno dei primi tentativi di definire il genere, il critico statunitense Brander Matthews sosteneva che il tratto distintivo del racconto non sia la lunghezza in sé (“Un racconto di lunghezza breve può scriverlo chiunque sappia scrivere”). Secondo Matthews, a definire il racconto sono l’originalità, l’inventiva e, soprattutto, la “vigorosa compressione”. Su quest’ultimo punto, afferma che nel racconto conta ogni parola, a differenza del romanzo, dove lo scrittore è libero di divagare. La forma del racconto richiede un certo grado di disciplina nella pianificazione e nell’esecuzione che, secondo Matthews, manca a molti romanzieri di successo. Anche se il suo nome è ricordato di rado, la sua tesi della “compressione” è stata ripresa nelle antologie, nei manuali e nei saggi di critica letteraria per più di un secolo. William Boyd, per esempio, contrappone la “compressione” del racconto breve all’“espansione” del romanzo.
Scrittori e critici da tempo riconoscono che è anche il pubblico a esercitare una certa pressione. Il racconto è stato fin dall’inizio una forma profondamente moderna: pubblicati originariamente su giornali e riviste, e letti su treni e autobus, erano il materiale ideale per chi non aveva il tempo o la pazienza di leggere un romanzo. Il concetto è stato sintetizzato bene da un mentore della scrittrice Olivia Clare Friedman: con il racconto “il timer parte appena leggi la prima frase”.
Ma per quanto deve andare avanti il timer? Per venti pagine? Trenta? Quaranta? Cinquanta? Per più di un secolo, gli scrittori sono andati anche nell’altra direzione, cimentandosi con le forme più brevi del genere. Negli anni venti, per esempio, un giornalista di Cosmopolitan sperimentò la pubblicazione di racconti che potevano essere stampati su poche pagine, anche una di seguito all’altra, in ottemperanza al principio che, come osservava W. Somerset Maugham (a sua volta collaboratore della testata), “al pubblico non piace cominciare un racconto e, dopo averne letto un po’, sentirsi dire che devono sfogliare fino a pagina cento e qualcosa” in fondo al giornale.
Negli ultimi quarant’anni, gli scrittori hanno mostrato una sempre maggiore inclinazione alla brevità, producendo una nuova tassonomia di forme brevissime che hanno preso nomi come microfiction, nanofiction o flash fiction (categoria quest’ultima che può comprendere tutte le altre). Per gli insegnanti di scrittura creativa la forma flash ha un chiaro vantaggio: si può ragionevolmente chiedere agli studenti di scrivere i loro microracconti nell’arco di una settimana o due. Inoltre, come i critici hanno già sottolineato fino alla nausea, la flash fiction si addice all’epoca del tweet, in cui si può contare sempre meno sull’attenzione dei lettori.
Ma i racconti brevissimi non sono necessariamente una concessione alle esigenze di praticità dei corsi di scrittura, a internet o a una soglia dell’attenzione ridotta. A volte, come ci mostrano i due estratti che ho messo all’inizio, sono anche una seria esplorazione delle possibilità della compressione estrema.
Nel primo esempio abbiamo la fine di uno dei famosi racconti “in un palmo di mano” dello scrittore giapponese Yasunari Kawabata, vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1968, che coniò la definizione nel 1925. La data è importante: come gli Stati Uniti al tempo di Brander Matthews, la scena letteraria giapponese dei primi anni venti pullulava di riviste che andavano alla ricerca di contributi stringati. Kawabata considerava i suoi minuscoli racconti come un modo per mediare tra il passato e il presente. Anche se scritta in prosa e spesso incentrata sulla vita moderna, la narrativa brevissima gli sembrava un’estensione naturale della predilezione giapponese per il minimalismo letterario caratteristico di forme poetiche come l’haiku.
L’incidente del cappello mostra immediatamente i segni dell’arte della compressione: nella traduzione dal giapponese l’azione si esaurisce in appena tre pagine e mezzo, dura pochi minuti e si svolge in un unico luogo, il ponte della luna sul laghetto Shinobazu, nel parco Ueno, a Tokyo. L’incidente del titolo si riferisce a un giovane senza nome che fa cadere il cappello nel laghetto ed è invitato a recuperarlo da un “uomo magro” dalla “voce severa”. “Afferrando la mano dell’uomo magro con la destra”, scrive Kawabata, “e appoggiando la sinistra sul bordo, l’uomo si cala lungo il pilone del ponte” per acchiappare il cappello con le dita dei piedi. Mentre il giovane tenta di risalire sul ponte, l’uomo magro gli lascia la mano facendolo cadere nel laghetto insieme al cappello. “Strepitando per avere una vista migliore”, gli astanti sono a loro volta spintonati nel fiume dall’uomo magro, che si dilegua nella notte.
Nelle battute conclusive la folla azzarda diverse teorie sulla sua identità. Si noti che i primi tre suggerimenti corrispondono a personaggi tipici della città moderna: lo scippatore, il pazzo e il detective. Gli ultimi due, invece, sono figure d’imbroglioni del folklore giapponese: il tengu è uno spirito della terra, il kappa è un folletto dell’acqua.
Poiché il racconto a questo punto s’interrompe, anche il lettore non sa bene come giustificare questi curiosi eventi. Dobbiamo propendere per una spiegazione naturalistica? (È pazzo!). O per una soprannaturale? (È un demone!).
Questo problema d’interpretazione ci fa tornare con occhi nuovi alla descrizione iniziale dell’ambiente. Il ponte della luna è un elemento classico dell’architettura paesaggistica giapponese, e la struttura e la luna che ci si riflette appartengono al mondo dei simboli tradizionali, insieme ai fiori di loto che punteggiano il laghetto. Kawabata sovrappone a queste attrazioni l’intrusività della città moderna. In modo particolare le “luci delle pubblicità” che proiettano sull’acqua nomi di marche – come “DENTIFRICIO LEONE” – e distraggono i visitatori dal magnifico riflesso della luna (le increspature create dalla brezza della sera lo fanno sembrare “un pesce dalle scaglie dorate”).
Come hanno a lungo osservato i critici, la compressione dei racconti “in un palmo di mano” spesso crea ambiguità difficili da decifrare: il lettore non ha abbastanza informazioni per capire le motivazioni di un personaggio o se ciò che pensa che sia successo è successo davvero. In molti racconti le regole fondamentali della realtà sono opache: in questo caso un problema esacerbato dall’amore di Kawabata per il fantastico e il folkloristico. Nel palmo della mano del lettore, l’autore presenta un ritratto in miniatura – vivido e misterioso come un haiku – del Giappone che si sta modernizzando.
A confronto della mia seconda selezione, i racconti in un palmo di mano di Kawabata sembrano perfino generosi. La scrittrice e traduttrice statunitense Lydia Davis è spesso citata tra i maestri della flash fiction, anche se questa osservazione è anacronistica perché l’autrice già componeva narrativa brevissima prima che il termine fosse di uso comune. Molti racconti di Davis sono lunghi uno o due paragrafi, alcuni addirittura una o due frasi. Prendiamo Companion (Compagna): “Siamo sedute qui insieme, io e la mia digestione. Io sto leggendo un libro e lei è intenta a lavorare sul pranzo che ho consumato poco fa”.
Nel testo che ho scelto all’inizio, Davis si supera nell’esercizio dell’arte della compressione. Al lettore sono forniti solo i rudimenti di una frase (“per l’estate le serve / vestito carino cotone”), seguiti da una serie di rimaneggiamenti delle lettere della parola “cotone”. Ci si potrebbe chiedere – come forse state facendo in questo momento – se questi pochi scampoli equivalgano effettivamente a un racconto.
La domanda è giusta, perché qui Davis sta testando apertamente il minimo richiesto dalla narrativa. Lo ammette lei stessa, scrivendo dei suoi primi esperimenti con l’austerità estrema: “Volevo vedere quanto riuscissi a rendere breve uno scritto e dargli comunque un senso”. A questo proposito è istruttivo ricordare (come fa Davis) il leggendario racconto di sei parole – “Vendesi. Scarpe da bambino. Mai indossate” – attribuito a Ernest Hemingway dall’agente letterario Peter Miller. Miller raccontò che Hemingway aveva vinto una scommessa sulla forza del racconto con alcuni colleghi scrittori. In seguito, il maestro della fantascienza Arthur C. Clarke scrisse a un amico che non riusciva “a pensarci senza piangere”.
Perché? Il successo del racconto dipende moltissimo dal contributo del lettore. Innanzi tutto deve riconoscere quel “Vendesi” come la formula tipica degli annunci economici dei quotidiani (la parte dove la gente comune pubblicava ciò che le serviva o voleva mettere in vendita). Poi deve dare una spiegazione del perché le scarpe da bambino non siano mai state indossate. Qui il gusto di Hemingway per il tragico influenza il nostro giudizio: il bambino dev’essere morto! (In realtà, ci sono molti altri scenari plausibili, per esempio che il bambino avesse i piedi troppo grossi).
Anche il racconto di Davis richiede un certo lavoro di assemblaggio. Il titolo fornisce una chiave interpretativa – chiamata con mamma – con cui decifrare quel che segue. Allo stesso tempo, l’interesse della storia nasce dal modo in cui si articola il titolo. Dopo le prime due righe, gli appunti non sono più dei promemoria ma anagrammi senza senso. Nella mia lettura, sono tentativi falliti di combattere la noia (è una lunga conversazione, dopotutto). In questo caso, dunque, più che leggere un racconto stiamo usando l’artefatto – una pagina strappata dal taccuino della narratrice – per creare la trama. L’arte della compressione è il trionfo dell’inferenza.
Per lo scrittore di racconti brevi, sosteneva Matthews nel 1885, “più che per chiunque altro, la metà è più del tutto”. Era una buona stima per quei tempi. I nostri esempi suggeriscono che a volte basta un ottavo, o un sedicesimo, o ancora meno. Il virtuoso del racconto brevissimo sa tirare fuori una storia quasi dal nulla. ◆ fas
Richard Hughes Gibson è professore d’inglese al Wheaton college, nell’Illinois, Stati Uniti. Questo articolo è uscito sul sito del periodico accademico statunitense The Hedgehog Review. Il titolo originale era The art of compression. Conjuring a fiction out of almost nothing.
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Questo articolo è uscito sul numero 1530 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati