Pensate per un momento a un amico o a un familiare a cui tenete molto, ma con cui non trascorrete tutto il tempo che vorreste. Non dev’essere per forza il vostro rapporto più importante, ma semplicemente quello con una persona che vi fa sentire pieni d’energia quando siete insieme e che vorreste vedere più spesso. Con che frequenza la incontrate? Ogni giorno? Una volta al mese? Una volta all’anno? Calcolate quante ore trascorrete insieme in un anno e annotate la cifra. Noi, Robert e Marc, pur lavorando a stretto contatto e sentendoci ogni settimana per telefono o in videochiamata, ci vediamo di persona solo due giorni all’anno. Robert ha 71 anni, Marc sessanta. Siamo ottimisti e diciamo che festeggeremo insieme i cento anni di Robert. Considerando due giorni all’anno per 29 anni, ci restano quindi 58 giorni da trascorrere insieme su 10.585.
L’università di Harvard, negli Stati Uniti, conduce dal 1938 lo Study of adult development, una ricerca sullo sviluppo degli adulti che esplora il modo in cui le persone si realizzano. Dopo aver cominciato con 724 partecipanti – ragazzi provenienti da famiglie svantaggiate e problematiche di Boston e laureandi di Harvard – lo studio ha incluso le mogli dei primi partecipanti e, negli ultimi anni, più di 1.300 discendenti del gruppo originario. I ricercatori intervistano periodicamente i partecipanti, gli chiedono di compilare dei questionari e raccolgono informazioni sulla loro salute fisica. In qualità di responsabile dell’indagine (Robert) e di direttore associato (Marc), abbiamo potuto osservare i partecipanti mentre stringevano e interrompevano le loro relazioni, sperimentavano il successo e il fallimento nel lavoro, diventavano madri e padri. È la più lunga ricerca longitudinale sulla vita umana mai realizzata e ci ha portato a una conclusione semplice e profonda: le buone relazioni assicurano salute e felicità. Il segreto è coltivarle. Non sempre mettiamo i nostri legami al primo posto. Nel 2018 lo statunitense medio ha passato undici ore al giorno in attività solitarie come guardare la tv e ascoltare la radio. Trascorrere 58 giorni in 29 anni con un amico è un’inezia rispetto ai 4.851 giorni che gli statunitensi occupano interagendo con mezzi di comunicazione di ogni tipo nello stesso intervallo di tempo.
Ogni minuto
Riflettere su questi dati può aiutarci a mettere in prospettiva le nostre relazioni. Provate a calcolare quanto tempo dedicate a un buon amico o a un familiare. Non è necessario trascorrere ogni minuto con gli amici, alcune relazioni funzionano perché ci si frequenta con parsimonia. Ma quasi tutti abbiamo qualcuno nella nostra vita che vorremmo vedere di più. State passando del tempo con le persone a cui tenete davvero? C’è un rapporto nella vostra vita che gioverebbe a entrambi se poteste stare più tempo insieme? Molte di queste relazioni sono risorse inutilizzate, che aspettano solo di essere sfruttate. E impegnarsi a coltivarle può a sua volta nutrire la mente e il corpo.
Non serve esaminare risultati scientifici per riconoscere che i legami hanno effetti anche sul corpo. Basta osservare come ci sentiamo rinvigoriti quando, in una bella conversazione, percepiamo che qualcuno ci ha davvero capito. Oppure la tensione e l’angoscia che proviamo dopo una discussione, o l’insonnia che ci coglie in un periodo di conflitti amorosi. In quest’ottica coltivare relazioni sane e soddisfacenti è una ginnastica sociale che, come quella fisica, richiede lavoro per mantenere i risultati. Invece di salire sulla bilancia, guardarsi di sfuggita allo specchio o misurare la pressione sanguigna e il colesterolo, la valutazione del nostro benessere sociale richiede una riflessione più attenta. Bisogna fare un passo indietro rispetto alla frenesia della vita moderna, fare un inventario delle nostre relazioni e guardare con onestà come usiamo il tempo, e se ci stiamo occupando dei legami che ci aiutano a fiorire. Trovare il tempo per questo tipo d’introspezione può essere difficile e a volte sgradevole. Ma può portare enormi benefici.
Molti dei partecipanti allo studio di Harvard ci hanno detto che compilare dei questionari ogni due anni ed essere intervistati regolarmente li ha portati a ragionare sulla vita e sulle relazioni. Gli chiediamo di riflettere veramente su se stessi e sulle persone che amano, e questo processo di autoanalisi aiuta alcuni di loro. È una pratica che può giovare a chiunque. Guardarsi allo specchio e considerare con onestà lo stato della propria vita è un primo passo per cercare di vivere bene. Accorgersi di dove ci si trova può servire a capire dove si vorrebbe essere. È comprensibile avere qualche riserva su questo tipo di autoanalisi. I partecipanti allo studio non sono sempre stati disposti a compilare i questionari o desiderosi di contemplare il quadro più ampio della loro vita. Alcuni saltavano le domande più difficili o lasciavano intere pagine in bianco, altri semplicemente non restituivano i questionari. Alcuni hanno perfino scritto dei commenti a margine su ciò che pensavano delle nostre richieste. “Che razza di domande sono!” è una risposta che ci è capitato di ricevere, spesso da partecipanti che preferivano non soffermarsi sulle difficoltà della vita. Anche chi ha saltato le domande o l’intero questionario ci ha aiutato: è stato importante per capire lo sviluppo degli adulti quanto chi voleva condividere la sua situazione. Molti dati utili e perle di esperienza si trovavano sepolti nei coni d’ombra delle vite. Dovevamo solo fare un piccolo sforzo in più per scavare.
Momenti difficili
Un uomo che chiameremo Sterling Ainsley si era laureato ad Harvard negli anni quaranta e poi aveva combattuto nella seconda guerra mondiale. In seguito fece il ricercatore e andò in pensione a sessant’anni. Quando gli fu chiesto di descrivere la sua filosofia per superare i momenti difficili, rispose: “Cerchi di non farti abbattere dalla vita. Ripensi alle vittorie e adotti un atteggiamento positivo”. Era il 1986. George Vaillant, all’epoca direttore dello studio, era impegnato in un lungo viaggio attraverso le montagne Rocciose. Era andato a trovare i partecipanti che vivevano in Colorado, Utah, Idaho e Montana. Sterling non aveva restituito l’ultimo questionario e bisognava recuperare. Incontrò Vaillant in un hotel per accompagnarlo alla tavola calda dove voleva rispondere alle domande. Quando Vaillant si accomodò sul sedile del passeggero dell’auto di Sterling, la cintura di sicurezza gli lasciò una striscia di polvere sul petto. “Mi domandai”, scrisse, “quando l’avesse usata qualcuno l’ultima volta”. Sterling sulla carta era sposato, ma la moglie viveva lontano e non dormivano nella stessa stanza da anni. Si parlavano solo ogni tanto. Quando gli chiese perché non avessero divorziato, rispose: “Non potrei fare questo ai ragazzi”, anche se erano cresciuti e avevano figli a loro volta. Sterling era orgoglioso dei figli e s’illuminava quando ne parlava, dicendo che erano la cosa più importante della sua vita. Li vedeva però di rado e sembrava preferire che i rapporti con loro continuassero a prosperare soprattutto nella sua immaginazione. Vaillant notò che Sterling sembrava usare l’ottimismo per allontanare alcune delle sue paure ed evitare le difficoltà della vita. Vedere qualcosa di positivo in ogni questione e poi eliminarlo dalla mente gli permetteva di credere che non c’era nulla che non andasse, che stava bene, che era felice, che i suoi figli non avevano bisogno di lui.
Non era andato a vedere la nuova casa del figlio all’estero, perché non voleva “essere di peso” anche se aveva imparato una nuova lingua per prepararsi al viaggio. Aveva un altro figlio che viveva più vicino, ma non andava a trovarlo da più di un anno. Non aveva rapporti con i nipoti e non era in contatto con gli amici. Quando gli fu chiesto della sorella maggiore, Sterling si mostrò sorpreso. “Mia sorella?”, disse. Sì, la sorella di cui aveva tanto parlato nella ricerca quand’era più giovane. Sterling ci pensò a lungo, poi disse che dovevano essere passati decenni dall’ultima volta che aveva parlato con lei. Sul suo volto comparve un’espressione preoccupata. “Sarà ancora viva?”, si domandò.
A Sterling non piaceva riflettere sulle sue relazioni e preferiva non parlarne. È un’esperienza comune. Non sempre sappiamo perché facciamo o non facciamo qualcosa, e potremmo non capire cosa ci tiene lontani dalle persone della nostra vita. Prendersi del tempo per guardarsi allo specchio può aiutare. A volte abbiamo dentro bisogni che cercano una voce. Potrebbero essere cose che non abbiamo mai fatto a cui non sappiamo dare forma.
Questo sembrava il caso di Sterling. Alla domanda su come trascorreva le serate rispose che passava il tempo con un’anziana che viveva in una roulotte vicina. Ogni sera andava a trovarla, guardavano la tv e chiacchieravano. Alla fine lei si addormentava e lui la aiutava a mettersi a letto, le lavava i piatti e tirava le tende prima di andare via. Nella sua vita era la cosa più simile a un’amica. “Non so cosa farò se muore”, disse.
La solitudine ha effetti sul corpo. Può rendere le persone più sensibili al dolore, inibire il sistema immunitario, ridurre le funzioni cerebrali e interferire con il sonno, il che a sua volta può rendere una persona già sola ancora più stanca e irritabile. La ricerca scientifica ha scoperto che, per i più anziani, la solitudine è molto più pericolosa dell’obesità. La solitudine prolungata aumenta la probabilità di morte del 26 per cento in un anno. Lo studio longitudinale sul rischio ambientale (E-risk), condotto nel Regno Unito, ha evidenziato una correlazione tra la solitudine e una peggiore salute e cura di sé nei giovani adulti. Questa ricerca, ancora in corso, coinvolge più di 2.200 persone nate in Inghilterra e Galles nel 1994 e 1995. All’età di diciotto anni i ricercatori gli hanno chiesto quanto si sentissero soli. Chi ha dichiarato di essere più solo ha mostrato più probabilità di avere problemi psichici e comportamenti rischiosi per la salute fisica, e di affrontare lo stress in modo negativo. Se a questo si aggiunge il fatto che un’ondata di solitudine sta invadendo la società moderna, abbiamo un problema serio. Le statistiche più recenti dovrebbero farci riflettere.
A Sterling non piaceva riflettere sulle sue relazioni e preferiva non parlarne
In uno studio condotto online su 55mila persone in tutto il mondo, una persona su tre – a prescindere dall’età – ha dichiarato di sentirsi spesso sola. Tra loro, il gruppo più solitario è quello dei ragazzi tra i 16 e i 24 anni, il 40 per cento dei quali ha dichiarato di sentirsi solo “spesso o molto spesso”. Nel Regno Unito il costo economico di questa solitudine – legato al fatto che le persone sole sono meno produttive e più inclini a cambiare lavoro – è stimato in più di 2,5 miliardi di sterline (3,1 miliardi di euro) all’anno.
In Giappone il 32 per cento degli adulti ha previsto che si sarebbe sentito solo per buona parte del 2020. Negli Stati Uniti uno studio del 2019 ha suggerito che tre adulti su quattro provano livelli di solitudine da moderati ad alti. È difficile alleviare quest’epidemia di solitudine, perché ciò che fa sentire sola una persona potrebbe non avere effetti su un’altra. Non possiamo basarci solo su indicatori facilmente osservabili, come il fatto che qualcuno viva o meno da solo, perché la solitudine è un’esperienza soggettiva. Una persona potrebbe avere un partner e molti amici e sentirsi sola, mentre un’altra potrebbe vivere da sola e avere pochi contatti stretti, ma sentirsi legata agli altri. Gli elementi oggettivi della vita di qualcuno non bastano a spiegare perché questa si senta sola. A prescindere dall’etnia, dalla classe o dal sesso, la sensazione di solitudine si colloca nella differenza tra il tipo di contatto sociale che si desidera e quello che si ha.
Non fa mai male – soprattutto se vi sentite giù – trovare un minuto per riflettere sull’andamento delle vostre relazioni e su ciò che vorreste cambiare. Se siete tipi che pianificano, potreste farlo con regolarità: magari ogni anno, a capodanno o la mattina del vostro compleanno, prendetevi qualche momento per tracciare il vostro attuale universo sociale e considerare ciò che state ricevendo, ciò che state dando e dove vorreste essere tra un anno. Potreste conservare il grafico o la valutazione delle relazioni in un luogo speciale, in modo che la prossima volta vedrete come sono cambiate le cose.
Se non altro, ci ricordano le cose che contano. Più volte i partecipanti al nostro studio, una volta raggiunta la vecchiaia, hanno sottolineato che ciò che apprezzavano di più erano le loro relazioni. Lo stesso Sterling lo ha sottolineato. Amava profondamente la sorella maggiore, ma aveva perso i contatti con lei. Alcuni dei ricordi più belli riguardavano gli amici, che non contattava mai. Non c’era nulla a cui tenesse di più dei suoi figli, che vedeva raramente. Dall’esterno poteva sembrare che non gliene importasse niente. Non era così. Sterling si emozionava raccontando le sue relazioni più care e la sua riluttanza a rispondere a certe domande era chiaramente legata al dolore che mantenere le distanze gli aveva causato nel corso degli anni. Non si è mai seduto a riflettere sul modo in cui avrebbe potuto gestire i suoi legami o su cosa avrebbe potuto fare per prendersi cura delle persone che amava.
La sua vita ci ricorda la fragilità dei nostri legami e riecheggia le conclusioni della scienza: le relazioni ci rendono più felici e più sani per tutta la vita. Trascuriamo i rapporti con gli altri a nostro rischio e pericolo. Investire nella nostra forma sociale è possibile ogni giorno, ogni settimana. Anche piccoli investimenti nelle relazioni con gli altri oggi possono creare effetti di benessere a lungo termine. ◆ svb
Robert Waldinger insegna psichiatria all’Harvard medical school e dirige l’Harvard study of adult development. Marc Schulz è direttore associato dell’Harvard study of adult development. Questo articolo è tratto dal loro libro The good life. Lessons from the world’s longest scientific study of happiness (Simon & Schuster 2023). A luglio uscirà in Italia per Mondadori con il titolo Una buona vita.
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Questo articolo è uscito sul numero 1508 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati