Sono quasi le sette del mattino. Un suv percorre l’autostrada fuori da Abidjan. Mentre all’esterno il paesaggio tropicale sfuma nella foschia, dentro l’auto soffia l’aria condizionata. A bordo ci sono due uomini molto diversi tra loro: il francese Julien Marboeuf e l’ivoriano Alain Kablan Porquet. La strana coppia sta andando a visitare una piantagione di cacao. Il francese, 43 anni, fino a poco tempo fa guidava i settecento dipendenti di un’azienda commerciale. L’ivoriano, 51 anni, ha servito il suo paese in veste di diplomatico, ma alla lunga si è stufato e ha deciso di dedicarsi agli affari. Dagli altoparlanti risuona una canzone del musicista nigeriano Fela Kuti, che cantava contro il governo e per la liberazione dell’Africa. Porquet canticchia muovendosi a ritmo, mentre Marboeuf non sa neanche chi sia Fela Kuti.

Marboeuf e Porquet sono soci da poche settimane. Di recente hanno incontrato alcuni potenziali investitori: Marboeuf si è presentato in giacca e cravatta, Porquet con un cappello rosa. “Io sono il sognatore”, dice l’ivoriano. “Io quello che i sogni li realizza”, aggiunge il francese.

Il sogno è fare un cioccolato di prima qualità in Costa d’Avorio, il maggior produttore di cacao al mondo, destinato però in gran parte all’esportazione in forma di fave non lavorate. Ecco perché Porquet e Marboeuf hanno fondato la Cocoaïans: vogliono trasformare il paese africano da esportatore di cacao a produttore di cioccolato. La chiamano rivoluzione. Secondo Marboeuf è una questione di valore aggiunto e filiere, per Porquet di orgoglio nazionale.

Il valore aggiunto

In Costa d’Avorio la produzione annuale di fave di cacao supera i due milioni di tonnellate, pari al 45 per cento della produzione mondiale. Il settore dà lavoro a quasi sei milioni di persone, tra cui molti piccoli agricoltori che coltivano minuscoli appezzamenti di terreno. Ma dato che il paese esporta la maggior parte delle sue fave di cacao senza quasi lavorarle, è altrove che si crea il valore aggiunto: per esempio nelle fabbriche europee che lavorano le fave ivoriane per farne massa, burro e polvere di cacao da rivendere ai produttori di cioccolato. Solo il 7 per cento delle entrate generate dal cacao resta in Costa d’Avorio. Secondo la Banca mondiale, la metà dei coltivatori di cacao ivoriani vive al di sotto della soglia di povertà, e il lavoro minorile costituisce un problema. Eppure, in questo momento il prezzo del cacao è ai massimi storici.

È uno dei problemi principali dell’economia africana: il continente è ricco di materie prime come petrolio, gas, caffè, cotone, oro, diamanti e minerali indispensabili per la transizione energetica, ma la loro lavorazione avviene altrove. È una situazione che Marboeuf e Porquet vogliono contribuire a cambiare producendo cioccolato.

Tutto è cominciato quando Porquet si è arrabbiato: dopo gli anni da diplomatico a Ginevra e New York, nel 2012 è tornato in Costa d’Avorio e si è reso conto che milioni dei suoi connazionali dipendevano dall’esportazione di cacao. Gli sembrava “umiliante” che i commercianti di cacao portassero le fave ivoriane all’estero per sottoporle a procedimenti chimici che, insieme al sapore amaro, ne eliminano anche i caratteristici aromi. Allora Porquet ha cominciato a girare il paese, andando a trovare i contadini e degustando fave di cacao. In seguito è entrato in contatto con vari agronomi e così, nel 2019, ha conosciuto Albertus Eskes, un olandese in pensione che vive in Brasile e da decenni fa esperimenti con le fave di cacao. Eskes ha inventato un metodo di fermentazione che preserva gli aromi naturali del cacao e, allo stesso tempo, evita che le fave diventino amare senza bisogno di ricorrere a procedimenti industriali. L’ha chiamato metodo Anima. Porquet considera Eskes un vero e proprio mentore, “una leggenda”. Convinto che con il suo metodo si potesse produrre cioccolato d’alta qualità in Costa d’Avorio, Porquet ha coinvolto Marboeuf, che il settore del cacao lo conosce bene.

Quando i due raggiungono la piantagione, vicino alla città di Gagnoa nel sudovest del paese, è già mezzogiorno. Per arrivarci ci sono volute cinque ore di viaggio e ora il sole picchia attraverso il fogliame degli alberi di cacao. Porquet si siede su una trave di legno con accanto una decina di frutti gialli di cacao. Ne rompe uno e se lo porta al naso, annusandolo per qualche secondo prima di richiuderlo. “Ha un sapore morbido”, osserva, “come l’acqua di fiori”. In piedi a fianco a lui, anche Marboeuf è intento a degustare: “Questo qui ha un profumo agrumato, quello è dolcissimo, quell’altro invece acidulo”.

Porquet e Marboeuf comprano il cacao da una cooperativa. Hanno formato alcuni agricoltori che fungono quasi da sommelier del cacao perché, durante la fermentazione, il metodo Anima richiede la degustazione quotidiana delle fave: prima di ottenere il sapore desiderato ci vogliono dai tre ai cinque giorni. Il processo di fermentazione non si svolge in una fabbrica ma all’interno di una decina di casse di legno poste in un capanno dal tetto di lamiera. E questo è il primo passo.

All’inizio i contadini, abituati com’erano a consegnare direttamente agli intermediari le fave essiccate, trovavano bizzarra questa procedura meticolosa, ma secondo Marboeuf offrire qualcosina in più rispetto a quello che paga l’industria è servito a convincerli.

Ed è servita anche l’eloquenza di Porquet, che dopo il giro della piantagione, riunisce intorno a sé i lavoratori, come un pastore, per parlargli di Thomas Sankara, il giovane presidente del vicino Burkina Faso che negli anni ottanta cercò di cambiare le cose rafforzando la produzione locale. Intanto, un impaziente Marboeuf aspetta in auto. Dovrà abituarsi al suo ruolo. Perché non era solo il nuovo metodo a lasciare perplessi i contadini, ma anche il fatto che, all’improvviso, si materializzasse tra loro uno che aveva lavorato ai vertici dell’industria. “Come direttore generale”, spiega Marboeuf, “in Costa d’Avorio sei una specie di divinità”.

Le dimissioni

Marboeuf è arrivato in Costa d’Avorio nove anni fa. Nel settore del cacao c’è finito per caso quando, da ingegnere, era stato chiamato a guidare l’unità ivoriana della Ecom, azienda svizzera tra i maggiori rivenditori di cacao al mondo. Marboeuf non è uno che prende decisioni affrettate. Un anno fa, quando ha conosciuto Porquet, già da tempo pensava di mettersi in proprio. E un progetto locale sul cioccolato era l’idea giusta.

Al loro incontro, Porquet gli ha parlato del cioccolato che stava producendo con il metodo Anima. “Non la smetteva più di spiegare e io pensavo: ma che sciocchezza”, racconta Marboeuf. “Solo che poi ho assaggiato il suo cioccolato”. Se l’aspettava amaro e farinoso come le tavolette di cioccolato che gli era già capitato di assaggiare in Costa d’Avorio. “E invece: l’ho sentito fruttato e poi cremoso. E, al contrario del cioccolato con aromi artificiali, non era troppo dolce”.

Qualche settimana dopo aveva già dato le dimissioni. Per unirsi a Cocoaïans, Marboeuf è andato pensione in anticipo e al momento non percepisce stipendio. Si è dato un anno di tempo per coinvolgere un numero sufficiente di investitori. Nel 2023 l’azienda ha prodotto due tonnellate di cioccolato ad Abidjan, nel Bushman café, il piccolo albergo-ristorante di Porquet. Sulla terrazza panoramica, dj e band si esibiscono per un pubblico di giovani. Nei due piani sottostanti camere e pareti sono tappezzate con artigianato artistico proveniente dall’Africa occidentale e con frasi del tipo: “Il nostro futuro è mamma Africa”. E poi ci sono fiori di cacao dipinti ovunque.

Proprio di fianco all’ingresso c’è un chiosco che vende il cioccolato preparato poco più in là, in una piccola cucina. In un angolo della stanza pezzi di cacao finiscono dentro una macina, in un altro due donne con grembiule e cuffietta sbucciano le fave tostate. Al centro della stanza, invece, un’altra spalma il caramello liquido negli stampi.

Tutte queste attività sono coordinate dal maestro cioccolatiere Mustapha Akougbe, che piomba di continuo nel caffè per controllare che la vetrina sia sempre rifornita a dovere. Cresciuto a Parigi con la mamma ivoriana, Akougbe si è trasferito ad Abidjan apposta per Cocoaïans. Da piccolo adorava starsene in cucina a preparare le torte, il che lasciava sua madre piuttosto perplessa: nelle famiglie africane al massimo è un’attività da femmine. L’adolescente Akougbe, però, riuscì a imporsi e a frequentare una scuola per pasticcieri. Aveva talento e infatti ha lavorato nei ristoranti stellati di Parigi e al Ritz di Londra. Per un po’ ha lavorato anche a Buckingham palace, ma è stata un’esperienza strana: anche se era una reggia, gli stava stretta.

Dall’inizio dell’anno il prezzo del cacao è raddoppiato a causa dei cattivi raccolti

Ora si trova in una piccola cucina di Abidjan, circondato da mezza dozzina di lavoratrici a cui insegna come fare le praline e a volte si sente molto europeo. “Qui hanno una mentalità diversa”, dice. “Non basta dire ‘è così che si fa in Europa ed è così che lo faremo noi’. Ci vuole pazienza”. E, a volte, gli capita di perderla: allora per qualche minuto esce a prendere una boccata d’aria.

Anche questo fa parte del sogno di Porquet: Akougbe è tornato in Costa d’Avorio per condividere le sue conoscenze. Il fatto che si esportino fave di cacao non lavorate, infatti, dipende anche dalla carenza di personale adeguatamente formato, appunto gente come Akougbe.

Ma, nonostante l’ottimismo, è chiaro che la Cocoaïans non avrà vita facile, per più di un motivo. Innanzitutto, in Costa d’Avorio si mangia pochissimo cioccolato: solo cinque tavolette a testa all’anno, secondo le stime. Certo, magari con il tempo gli ivoriani impareranno ad apprezzarlo, ma per ora rappresenta un mercato di nicchia, soprattutto per quanto riguarda il cioccolato gourmet ad alto contenuto di cacao, come quello della Cocoaïans.

Inoltre, Porquet e Marboeuf vogliono esportare il cioccolato, soprattutto in Europa, dove è in crescita la domanda di prodotti artigianali di qualità. Ma il cioccolato non sopporta eccessi di calore e di umidità, motivo per cui non sarà facile trasportarlo in Europa partendo dal clima tropicale della Costa d’Avorio. Inoltre, la concorrenza è agguerrita: ci sono dieci fabbriche di cioccolato solo in Svizzera e alcune – la zurighese Garçoa per esempio – producono il cioccolato con un metodo simile a quello usato dalla Cocoaïans.

Infine, il mercato del cacao è soggetto a forti scossoni. Dall’inizio dell’anno il prezzo è più che raddoppiato a causa dei cattivi raccolti dovuti alle forti piogge che si sono registrate ultimamente in Costa d’Avorio e in Ghana, i due maggiori paesi produttori di cacao. È un problema più sentito da giganti dell’industria come la Mars o la Barry Callebaut che dalla Cocoaïans, ma anche la startup accusa gli effetti dei mancati raccolti.

Nonostante tutte le difficoltà, però, Porquet e Marboeuf vanno avanti per la loro strada. Stanno già progettando un impianto di produzione più grande. Inoltre, potranno contare sull’aiuto del governo ivoriano, che ha intenzione di investire 1,6 miliardi di dollari nell’industria del cacao per favorire la creazione di ricchezza a livello locale.

Per convincere il governo e ottenere sovvenzioni, Marboeuf potrebbe raccontare una storia che non si svolge in Africa, ma in Europa. Parla di Henri Jayer, un viticoltore della Borgogna, in Francia, che negli anni cinquanta aveva avviato una produzione di vino su un solo ettaro di terreno roccioso, sperimentando un metodo che faceva a meno della chimica. Pochi lo ascoltarono, ma il suo vino si rivela eccezionale e oggi è tra i più richiesti e i più costosi al mondo. ◆ sk

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1561 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati