La bandiera gialla e bianca della Santa Sede, con le chiavi del regno dei cieli affidate da Gesù a san Pietro, spicca sulla carlinga blu dell’Airbus A320 della Ita Airways. È il 28 aprile 2023, una mattina particolarmente soleggiata, e l’aereo usato dal papa per i suoi viaggi internazionali è appena atterrato all’aeroporto di Budapest. Ai piedi della scaletta una delegazione ufficiale aspetta che Francesco scenda dall’aereo usando un marchingegno speciale (il papa soffre di dolori alle ginocchia e ormai si muove quasi esclusivamente su una sedia a rotelle). Poco dopo, il capo della chiesa cattolica riceve gli onori militari sulla piazza antistante a palazzo Sandor, la residenza della presidenza ungherese. Dopo aver salutato la presidente dell’epoca, Katalin Novák, seduta al suo fianco durante la cerimonia, il papa s’intrattiene per venti, lunghi minuti con il primo ministro Viktor Orbán.
Francesco è la guida spirituale di 1,3 miliardi di cattolici sparsi nel mondo (di cui 2,9 milioni ungheresi), ma quel giorno non è a Budapest per parlare di religione. Certo, alla fine della visita ha celebrato una messa nell’imponente piazza Kossuth, però l’obiettivo del viaggio era un altro: il papa voleva parlare della guerra e della pace. Dialogando con Orbán, leader dalle tentazioni autoritarie e vicino a Mosca, Francesco ha esposto la sua opinione sul conflitto in Ucraina.
In quel momento i due uomini, in disaccordo da tempo soprattutto sulla questione dei migranti (il papa li difende mentre Orbán non li vuole accogliere a nessun costo), avevano qualcosa in comune: per motivi diversi e in opposizione con la maggior parte dei paesi occidentali, entrambi chiedevano un cessate il fuoco immediato e l’apertura di un negoziato tra la Russia e l’Ucraina.
Un interlocutore necessario
Città del Vaticano è uno stato microscopico con una superficie di appena 44 ettari nel cuore di Roma. Eppure oggi il suo sovrano eletto, papa Francesco, non si accontenta di gestire la vita religiosa dei cattolici. Il pontefice vuole partecipare alle sfide globali e per farlo si affida a un esercito di diplomatici con il colletto ecclesiastico che spesso agiscono dietro le quinte. Alla fine della seconda guerra mondiale, rivolgendosi a Winston Churchill che gli chiedeva di ascoltare le raccomandazioni della Santa Sede, Iosif Stalin aveva risposto con una frase diventata celebre: “Quante divisioni ha il papa?”. Lo stato pontificio ha perso i suoi territori nell’Italia centrale con la riunificazione del paese, nella seconda metà dell’ottocento. Da allora la Santa Sede, sprovvista di un esercito e ininfluente sul piano economico e demografico, ha mantenuto un unico attributo statale: la diplomazia. “Anche dopo la fine del potere temporale dei papi come sovrani di Roma e dei territori pontifici, il Vaticano è rimasto un interlocutore importante per molti stati che ne apprezzano il ruolo di arbitro”, spiega Roberto Regoli, professore all’università pontificia Gregoriana, a Roma.
Francesco l’ha dimostrato il 14 aprile 2024, all’indomani del lancio da parte dell’Iran di centinaia di droni e missili contro Israele, quando durante l’angelus ha invocato la pace in Medio Oriente. Nella sua preghiera domenicale il papa si è detto “triste” e “preoccupato”. Dopo l’attacco del 7 ottobre compiuto da Hamas contro Israele e la guerra che ne è seguita a Gaza, il pontefice ha invocato ripetutamente la fine delle ostilità, esattamente come fa da due anni a proposito del conflitto in Ucraina.
Da piazza San Pietro si possono ammirare le finestre rinascimentali del palazzo apostolico, sormontate da magnifici frontoni che si stagliano nella pietra color ocra. L’edificio del cinquecento ha ospitato i papi fino a Francesco (che però ha scelto di abitare nella più modesta residenza Santa Marta) e oggi è la sede della segreteria di stato, il ministero degli esteri vaticano. Al terzo piano del palazzo lavorano circa sessanta diplomatici, uomini di chiesa e un piccolo gruppo di laici, tra cui alcune donne. Durante la giornata i funzionari ricevono e analizzano informazioni provenienti da tutto il mondo.
Il microstato vaticano intrattiene rapporti ufficiali con 184 paesi e in 103 di essi è presente un ambasciatore, il nunzio apostolico, incaricato di gestire i rapporti con le chiese locali e individuare i potenziali candidati all’episcopato. Ma la missione del nunzio va oltre la sfera religiosa. Spesso, infatti, è chiamato a ricoprire il ruolo di intermediario tra istituzioni o leader che non si parlano e a riferire messaggi importanti in contesti particolarmente tesi. Anche se i diplomatici della Santa Sede sono appena due per ogni paese (il nunzio e il suo segretario), possono contare su un’impressionante rete composta da preti, suore, scuole e organizzazioni non governative cattoliche, ovvero su centinaia di migliaia di ecclesiastici e laici che sono sempre al corrente dei cambiamenti economici e sociali interni.
Seduto nei magnifici giardini della sua residenza romana, l’ambasciatore di un grande paese europeo presso la Santa Sede (che ha chiesto di mantenere l’anonimato, come la maggior parte dei diplomatici con cui abbiamo parlato), commenta: “È semplice. Grazie alle loro reti possono sapere prima di chiunque altro tutto quello che succede in un paese. Se volete conoscere il numero di carri armati di cui dispone l’esercito pachistano non serve bussare alla loro porta, ma potranno dirvi che in Belucistan sta per scoppiare una rivolta perché la popolazione non ha l’acqua corrente”.
Un altro diplomatico di stanza a Roma riassume così la forza del Vaticano: “Noi di solito abbiamo una decina di diplomatici per ogni capitale, ma spesso non possiamo muoverci liberamente. Loro invece hanno contatti ovunque, nelle città e anche nelle campagne”. Eduárd Habsburg-Lotharingiai, ambasciatore ungherese presso la Santa Sede, sintetizza l’efficacia della diplomazia papale: “Qui in Vaticano si sentono le prime scosse di una crisi che sta per esplodere all’altro capo del mondo”.
Alla metà del 2022, appena insediata a villa Bonaparte (il palazzo dove dal 1950 si trova l’ambasciata di Francia presso la Santa Sede), Florence Mangin ha capito subito che in Vaticano s’incontra il mondo intero. “Quello che impariamo e discutiamo qui è di grande interesse per altri colleghi”, spiega l’ambasciatrice. Se è possibile, Mangin ospita una volta all’anno i responsabili dei dipartimenti mediorientali e americani del ministero degli esteri per scambiare informazioni con i diplomatici vaticani. “Quando il presidente Emmanuel Macron incontra il papa, due terzi della conversazione sono dedicati alla situazione internazionale”.
Francesco, malgrado i suoi 87 anni, continua a dar prova di un’iperattività diplomatica, viaggiando di frequente all’estero e visitando in particolare i paesi alla periferia del mondo, spesso trascurati dalle grandi potenze. Ad agosto il papa dovrebbe andare in Papua Nuova Guinea e a Timor Leste. Nel marzo 2021 Francesco è stato il primo capo di stato a visitare l’Iraq dopo la sconfitta del gruppo Stato islamico. Pochi mesi dopo è stato Macron a visitare il paese. Per informarsi della situazione sul campo e avere un’idea più precisa di cosa lo aspettava, il presidente francese prima di partire ha telefonato al papa.
Scuola di diplomazia
Capelli e barba bianca, abito talare e sorriso sincero, Paul Gallagher, originario di Liverpool e segretario per i rapporti con gli stati e le istituzioni internazionali (il ministro degli esteri della Santa Sede), risponde così a chi si stupisce per il coinvolgimento del Vaticano nelle vicende del mondo: “Il papa è un referente morale per i leader globali. Interessarsi alla vita internazionale fa parte del suo ruolo”, spiega. Come da prassi, Gallagher non ci ha ricevuti nel suo ufficio, ma in una sala del palazzo apostolico situata al termine di un lungo corridoio adornato da splendide mappe del cinquecento. Il motivo è semplice: meglio evitare di rivelare inavvertitamente dettagli riservati sul funzionamento della macchina diplomatica vaticana.
Gallagher è al comando di un’organizzazione capillare che al livello centrale dipende da un manipolo di persone. Il suo superiore diretto, il segretario di stato e cardinale Pietro Parolin, ha il controllo dell’intera amministrazione dello stato pontificio. Gallagher e Parolin accompagnano il papa in tutti i suoi viaggi apostolici e a volte partono anche senza di lui, partecipando alle discussioni con i governi e raccogliendo materiale per le analisi che Francesco riprende nei suoi discorsi o usa per prendere decisioni.
Quando riceve un capo di stato (succede diverse volte al mese), il pontefice riferisce ai due alti prelati le sue impressioni e le frasi che hanno attirato la sua attenzione. “La Santa Sede, in fin dei conti, è il papa. Il pontefice ha una libertà immensa. Diversamente dagli altri capi di stato, che devono gestire un equilibrio tra interessi economici, industriali e geostrategici, il papa non è vincolato dalle problematiche nazionali. Questo gli permette di mantenere una certa neutralità ed essere nelle condizioni di poter parlare con tutti”, spiega Gallagher.
Come i funzionari del servizio che dirige, Gallagher è passato da una scuola molto speciale. Creata nel 1701, la Pontificia accademia ecclesiastica si trova in piazza della Minerva, nel centro di Roma. Luogo chiuso e difficilmente accessibile, la scuola è frequentata da giovani preti provenienti da tutto il mondo e determinati a entrare nel corpo diplomatico vaticano. Nominati segretari di un nunzio al termine degli studi, vengono poi richiamati a Roma o promossi al rango di ambasciatori. Per reclutarli, i rappresentanti della chiesa cattolica organizzano una vera e propria caccia ai talenti. Con il calo delle vocazioni, infatti, i giovani preti promettenti sono sempre più rari e spesso i vescovi non vogliono inviarli a Roma perché preferiscono tenerli vicini a sé.
Seduto davanti a un piatto di pasta a pochi passi dal Vaticano, un giovane diplomatico ricorda il suo periodo all’accademia. “Ti possono inviare ovunque”, spiega. Notando un collega, chiede immediatamente di cambiare tavolo: meglio non farsi notare in compagnia di giornalisti. Proseguendo il suo racconto, il giovane prete, che indossa l’abito talare e il colletto ecclesiastico, ricorda la cerimonia al termine dei quattro anni di corso durante i quali un dirigente della scuola legge a voce alta i nomi e le destinazioni, decise da una commissione apposita senza tenere conto delle preferenze, in funzione esclusivamente delle necessità e dei candidati. Poco importa se un sacerdote è cagionevole e preferirebbe evitare un paese tropicale: intanto ci va e poi in caso tornerà con un certificato medico che lo esonera dal servizio in zone umide. Passato dalle Filippine e dalla Giordania, il cardinale Fernando Filoni, oggi gran maestro dell’Ordine equestre del santo sepolcro di Gerusalemme, è stato particolarmente segnato dal suo trascorso in Iraq all’inizio del nuovo millennio. La storia che ci racconta risale al 2003, quando era ormai imminente l’invasione del paese da parte della coalizione militare guidata dagli Stati Uniti. “Un giorno alla nunziatura apostolica è arrivato un emissario di Saddam Hussein e mi ha chiesto: ‘Come possiamo evitare questa guerra?’. Voleva sapere quali fossero i limiti e le possibilità, poi mi ha comunicato che il governo iracheno avrebbe accettato le richieste degli statunitensi, ma a una condizione: non voleva essere umiliato”.
Il nunzio aveva fatto presente al dittatore iracheno che avrebbe dovuto compiere “un gesto forte” e aveva proposto la promulgazione di una legge che vietasse le armi di distruzioni di massa, per dare prova della sua buona fede. Il testo della legge era stato approvato nell’arco di 48 ore, ma non era bastato. Il cardinale Filoni è stato l’ultimo diplomatico rimasto in Iraq dopo lo scoppio della guerra, e ancora oggi porta al collo la croce pettorale (creata da artigiani musulmani) che alcuni iracheni gli hanno regalato per ringraziarlo di essere rimasto nel paese.
Ma il Vaticano ha ottenuto anche importanti vittorie. Nel 2015 il papa e il suo apparato diplomatico hanno avuto un ruolo decisivo nel riavvicinamento storico tra Cuba e gli Stati Uniti. Un anno più tardi, in Colombia, la partecipazione della chiesa locale, appoggiata da Roma, ha contribuito al buon esito del lungo processo di pace tra il governo e i ribelli delle Farc. La diplomazia vaticana non arretra mai davanti alle difficoltà. Come prevedibile, dal 2022 il conflitto in Ucraina è diventato una priorità per la Santa Sede.
E proprio per far sentire la sua influenza, nella primavera del 2023 il papa è andato a Budapest. Francesco voleva la pace a tutti i costi e intendeva proporsi come intermediario nel conflitto. Già nelle prime ore della guerra aveva visitato l’ambasciata della Russia presso la Santa Sede per chiedere, inutilmente, un contatto telefonico con il presidente Vladimir Putin. Nell’aprile 2022 ha condannato il massacro di Buča, ma il mese successivo ha criticato anche “l’abbaiare della Nato alle porte della Russia”.
Per informarsi della situazione in Iraq il presidente francese ha telefonato al papa
Francesco ha messo la diplomazia vaticana al servizio di una missione precisa: aprire un dialogo con Mosca. Finora i tentativi sono stati infruttuosi. Nel maggio 2023 il papa ha deciso di giocarsi un’altra carta affidando la questione ucraina a una persona esterna al suo apparato diplomatico ufficiale, il cardinale Matteo Zuppi. Arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana, Zuppi è uno dei fondatori della Comunità di sant’Egidio, un movimento religioso coinvolto nelle azioni umanitarie e in attività di mediazione in tutto il mondo a cui Francesco è particolarmente vicino. Con le sue vaste reti di contatti e le sue conoscenze sul campo, la comunità è usata come braccio diplomatico informale fin dai tempi di Giovanni Paolo II.
I primi contatti tra Zuppi e il papa argentino risalgono agli anni novanta, tramite la Comunità di sant’Egidio di Buenos Aires. La nomina di Zuppi è stata decisa senza passare dalla segretaria di stato, un’ennesima dimostrazione del fatto che Francesco preferisce i rapporti personali alla burocrazia, anche a rischio di irritare i suoi diplomatici. Alberto Melloni, storico della chiesa, titolare della cattedra dell’Unesco sul pluralismo religioso e la pace all’università di Bologna e assiduo osservatore della macchina pontificia, sottolinea che “scegliendo Zuppi, e affidando un mandato umanitario a una persona esterna all’apparato diplomatico, Francesco ha voluto scongiurare un’umiliazione per la Santa Sede in caso di fallimento”.
Canali di comunicazione
Fondata nel 1968 sulla scia del concilio Vaticano II da un gruppo di liceali romani guidati da Andrea Riccardi, la Comunità di sant’Egidio aveva come missione originaria quella di aiutare i poveri delle periferie della capitale italiana. Nel corso degli anni la comunità si è ingrandita (oggi ne fanno parte settantamila persone sparse in 74 paesi), allargando i propri orizzonti al dialogo interreligioso e di conseguenza all’attività di mediazione diplomatica.
Attiva in Libano durante la guerra civile all’inizio degli anni ottanta, Sant’Egidio si è distinta in seguito nel contesto del conflitto in Mozambico, grazie a una mediazione durata ventisei mesi: l’accordo di pace firmato nel 1992 nella sede romana della comunità, un ex monastero carmelitano del seicento situato nel rione Trastevere, è ancora oggi motivo di orgoglio.
Attualmente la missione affidata a Matteo Zuppi consiste nell’aprire canali di comunicazione, ottenere concessioni umanitarie e favorire le condizioni per una via d’uscita in Ucraina. Subito dopo la nomina, Zuppi è volato a Kiev per incontrare il presidente Volodymyr Zelenskyj, dirigendosi poi a Mosca e a Washington, dove è stato ricevuto dal presidente Joe Biden. Il cardinale ha fatto tappa anche a Pechino: il coinvolgimento della Cina nella risoluzione del conflitto è un punto su cui la Comunità di sant’Egidio insiste particolarmente.
“Bisogna sempre cercare di capire, non per giustificare ma per individuare le ragioni profonde dietro il ricorso alle armi”, spiega Zuppi all’interno dei locali romani della Conferenza episcopale italiana. “Personalmente penso che la guerra non abbia alcuna giustificazione. Questo mi rende libero davanti ai belligeranti, perché nessuno può accusarmi di prendere le parti degli uni o degli altri. Tuttavia questo non m’impedisce di prendere in considerazione le responsabilità dei diversi attori e le dinamiche che portano ai conflitti”.
Per spiegare il senso della sua missione, l’arcivescovo di Bologna evoca la figura di san Francesco d’Assisi e il suo incontro con il lupo di Gubbio. “Quando san Francesco parla al lupo che terrorizza il villaggio, può essere sospettato di complicità con l’animale o di ingenuità. Ma dato che è libero da qualsiasi odio, riesce a capire cosa spinge il lupo a comportarsi in quel modo, ovvero la fame. Francesco rientra al villaggio e spiega che bisogna assicurare un po’ di cibo al lupo, e a quel punto l’animale smette di attaccare le persone”.
“Bisogna parlare con tutti e agire pensando a lungo termine”, afferma Mario Giro
A Mosca, per Zuppi, il lupo ha il volto del patriarca Kirill, capo della chiesa ortodossa russa, ex agente del Kgb, pilastro del regime russo e principale sostenitore dell’aggressione contro l’Ucraina. “Non posso pensare che non sia un uomo di fede”, afferma Zuppi parlando del patriarca, con cui Francesco ha cercato instancabilmente di dialogare dopo averlo incontrato a Cuba nel 2016, il primo dopo lo scisma del 1054. “All’Avana il papa ha firmato con Kirill un documento ultraconservatore sui valori morali minacciati e la crescita del materialismo. Quel documento non corrisponde al pensiero di Francesco, ma bisogna tenere conto del perché il papa abbia accettato di firmarlo. Francesco, infatti, ha spiegato che per lui l’importante, più che il documento, era incontrare personalmente Kirill”, ricorda lo storico Melloni.
Oltre al capo della chiesa ortodossa russa, a Mosca Zuppi ha incontrato anche Maria Lvova-Belova, commissaria russa per i diritti dei bambini accusata di crimini di guerra dalla Corte penale internazionale per la deportazione dei minori ucraini in Russia. Il prelato italiano ha cercato di facilitare il ritorno nel paese d’origine dei bambini prelevati dalle autorità russe.
Per il momento i tentativi di Zuppi non hanno prodotto risultati importanti. Ufficialmente solo un ragazzo, che presto sarà maggiorenne e rischia la coscrizione in Russia, è stato riportato in Ucraina, a dicembre. Zuppi, però, assicura che altri casi sono stati risolti in modo più discreto. “Ci preoccupiamo anche della situazione di alcuni religiosi ucraini che sono stati fatti prigionieri, sono prigionieri civili”, afferma l’arcivescovo.
“Zuppi cerca davvero di aiutare. La sua missione è importante e noi apprezziamo il fatto che parli apertamente della morte dei civili ucraini. Tuttavia la Santa Sede continua a mantenere una visione idealizzata della Russia”, ha dichiarato Andrii Yurash, ambasciatore dell’Ucraina presso il Vaticano.
Nel febbraio 2024, nei giardini adiacenti alla basilica di San Paolo fuori le mura, a Roma, si è formata una lunga fila di persone arrivate per partecipare al cinquantaseiesimo anniversario della fondazione della Comunità di sant’Egidio. All’interno della chiesa ci sono diversi diplomatici provenienti da tutto il mondo ma anche importanti esponenti del governo italiano, come il ministro degli esteri Antonio Tajani. Quella sera Zuppi pronuncia l’omelia ricordando che “il grido di pace di interi popoli ha trovato in questa arca di Noè ascolto, protezione, compagnia, casa, luce, calore. [La comunità] non ha mai smesso di cercare una soluzione, ben diversa da compiaciute e facili dichiarazioni e commozioni digitali e da spettacolo”.
Mario Giro, responsabile per le relazioni internazionali di Sant’Egidio ed ex viceministro degli esteri e della cooperazione internazionale del governo italiano, è uno degli artefici degli sforzi diplomatici della comunità. “Bisogna parlare con tutti, conoscere personalmente i protagonisti e agire pensando a lungo termine”, afferma Giro in una sala della sede della comunità che in passato ha ricevuto capi di stato e capi delle milizie, diplomatici e lobbisti.
Sul suo telefono, Giro conserva le testimonianze fotografiche dei suoi incontri con diversi presidenti e capi ribelli del continente africano, tra cui quelle di una missione del 2006 in cui, nel cuore della foresta dell’Africa centrale, ha negoziato con il signore della guerra ugandese Joseph Kony.
Capo dell’Esercito di resistenza del Signore (Lra), conosciuto per le atrocità commesse dai suoi uomini e per l’uso di bambini-soldato, Kony è stato braccato dalle forze speciali statunitensi dal 2011 al 2017, senza risultati. Riassumendo la posizione di Sant’Egidio rispetto a questo tipo di operazioni, Giro cita il Vangelo: “Quando si caccia un demone e non si lascia nulla al suo posto, il demone torna con altri sette demoni più malvagi di lui”.
In questo momento la diplomazia della Santa Sede si mobilita anche per la guerra a Gaza. Nel suo ufficio situato nei pressi di porta Sant’Anna, poco lontano dal palazzo apostolico, Issa Jamil Kassissieh, ambasciatore della Palestina in Vaticano dal 2018, mostra gli attestati della benevolenza di Francesco nei suoi confronti. Arrivato a Roma nel 2013, Kassissieh è il primo rappresentante della Palestina nella città eterna e mantiene contatti regolari con l’arcivescovo Gallagher e il cardinale Parolin. L’ambasciatore è grato al papa per aver ripetutamente sostenuto la soluzione dei due stati dopo l’attacco del 7 ottobre.
A gennaio, in occasione dell’udienza annuale accordata dal pontefice agli ambasciatori, Kassissieh si è presentato con una foto che ritraeva Joe Biden, commosso e in ginocchio, mentre pregava nella chiesa di Santa Caterina a Betlemme, con un rosario in mano. Il diplomatico ha tentato ancora una volta di attirare l’attenzione del leader religioso, sensibile alla sua causa, nella speranza che provasse nuovamente a convincere il cattolico Biden a intervenire in favore della Palestina. “Il papa parla ogni giorno con un prete di Gaza per conoscere i dettagli della situazione”, ricorda Kassissieh.
Tra le preoccupazioni del Vaticano c’è la difesa dei cattolici che si trovano ancora nella Striscia di Gaza e in generale nel mondo arabo, ma anche il sostegno ai migranti, alle minoranze oppresse e alle vittime delle guerre, che il papa attribuisce spesso all’economia predatoria dell’occidente. “Non possiamo comprendere il pensiero di Francesco se non teniamo conto che è un ottantenne sudamericano che ha conosciuto la dittatura e valuta il mondo dalla prospettiva del sud globale, come Lula”, spiega un diplomatico di stanza a Roma.
La visione internazionale del papa è in sintonia con l’evoluzione demografica del cattolicesimo: in occidente le chiese si svuotano inesorabilmente, ma restano molto attive in Africa, Asia e America Latina. Le stesse tendenze si ripresentano all’interno della scuola per nunzi apostolici. “Ai miei tempi il 70 o addirittura l’80 per cento degli studenti era composto da occidentali provenienti dall’Europa o dal Nordamerica”, ricorda un ex studente che ha completato gli studi negli anni settanta. “Ora invece non superano il 30 per cento. La proporzione si è invertita perché la chiesa è diventata davvero universale”.
Sforzi inefficaci
A differenza dei suoi predecessori Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, due europei la cui visione e i cui interessi coincidevano con quelli dell’occidente, Jorge Mario Bergoglio è una sorta di non allineato. Il problema è che la sua politica di apertura non sembra produrre i risultati sperati. Gli sforzi della diplomazia vaticana e le parole di Francesco per influenzare Putin o fermare i bombardamenti a Gaza sembrano inefficaci. “Ci danno retta? Forse. Ma cosa abbiamo ottenuto?”, sottolinea con rammarico un diplomatico originario del Medio Oriente. “Viviamo un periodo in cui la diplomazia fatica parecchio, ma senza di essa niente è possibile”, precisa l’arcivescovo Gallagher.
Qualcuno, in questo senso, ricorda che neanche Macron, nonostante le sue ripetute telefonate con Putin all’inizio della guerra, ha ottenuto risultati apprezzabili, e lo stesso vale per il segretario di stato americano Antony Blinken, che malgrado tutti i suoi viaggi in terra santa non è riuscito a far ragionare il governo israeliano.
Gli osservatori della Santa Sede sottolineano un elemento centrale della politica estera vaticana: presentandosi come un’istituzione perenne, la chiesa romana analizza lo scacchiere internazionale sul lungo termine, immaginando cambiamenti e mediazioni nell’arco di decenni. “Quando non ci sarà più nessuno disposto a parlare con la Russia, quando i governi saranno cambiati, la chiesa sarà ancora lì, e potrebbe essere utile a tutti”, riassume l’anonimo ambasciatore europeo. Le chiavi di san Pietro, d’altronde, sono state forgiate per essere eterne. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1567 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati