Chloé Zhao, la regista di Nomadland, è la nuova divinità di Hollywood. Dopo essere diventata la prima regista non bianca a vincere il premio Oscar, a novembre arriverà in sala Eternals, il nuovo film Marvel firmato da lei. È venerata a tal punto che riesce a farla franca anche se alla prima di un film si presenta sul tappeto rosso in jeans.
Per un certo periodo Zhao, nata a Pechino e figlia del compagno di Song Dandan, attrice comica molto popolare, era stimata anche in Cina. Ma poi si è diffusa in rete un’intervista di qualche anno fa in cui parlava della Cina come di un paese in cui “ci sono bugie ovunque”. Pechino ha reagito cancellando dai social network i contenuti che celebravano la sua vittoria dell’Oscar e bloccando la distribuzione di Nomadland. Eternals, considerato un potenziale successo in Cina, rischia di essere messo al bando.
Il sorpasso
Nel 2020 il mercato cinematografico cinese ha ufficialmente superato quello nordamericano, diventando il più grande del mondo. La Cina è ormai troppo redditizia perché Hollywood possa resisterle. Quella che la critica chiama autocensura, dal punto di vista degli studios è una strategia d’ingresso. Eppure l’autocensura è sempre più evidente sugli schermi: è un esempio lampante di come le aziende statunitensi pieghino i loro valori per accontentare Pechino e un preoccupante segnale inviato a chiunque desideri entrare nel mercato cinese.
Tra la fine degli anni ottanta e i novanta, quando la Cina ha riammesso i film di Hollywood (dopo il bando durante la rivoluzione culturale), a patto di poterli selezionare e modificare a piacimento, le case di produzione non hanno fatto una piega. “È una forma di autoregolamentazione a cui assistiamo da decenni”, afferma Russell Schwartz, ex capo del marketing di New Line Cinema e di Relativity Media, che ha supervisionato le campagne di lancio per la trilogia del Signore degli anelli. Dopo il 2000, quando ha cominciato a investire a Hollywood – non solo importando titoli, ma anche con coproduzioni e finanziamenti – la Cina è diventata una grande opportunità.
“Tutti facevano i salti mortali” per far proiettare i loro film nel paese, racconta Schwartz. Il governo cinese controlla l’industria dell’intrattenimento, limita la quota dei film internazionali – 34 all’anno, a volte due in più –, decide le date di uscita, la quantità di pubblicità a cui possono aspirare e il numero di sale in cui possono essere proiettati. Le case di produzione straniere, spiega Schwartz, fanno un’insistente attività di lobby per ottenere la distribuzione dei loro titoli.
La diffusione dei film di Hollywood in Cina potrebbe sembrare un modo per promuovere gli ideali occidentali in un paese autoritario, ma secondo Wendy Su, docente di comunicazione e autrice di China’s encounter with global Hollywood, Hollywood ha sempre avuto un solo obiettivo: “Entrare nel vasto mercato cinese a caccia di profitti”. E con le sue più di 75mila sale (nel 2020 gli Stati Uniti ne contavano circa 41mila) il botteghino cinese può fare la differenza tra il successo e il fallimento di un film. Si è arrivati così a una “autocensura preventiva”, sostiene James Tager, direttore delle ricerche di Pen America e principale autore di un rapporto esaustivo sulla censura pubblicato nel 2020. Oltre a scritturare attori cinesi e a girare alcune scene in Cina, afferma lo studio, le produzioni statunitensi accettano la presenza di “controllori” sul set, come si dice sia avvenuto con Iron man 3. Il governo di Pechino aumenta poi il senso di soggezione imponendo condizioni mutevoli, pensate per creare incertezza, spiega Tager.
Si è ormai diffuso un atteggiamento che tenta di prevedere le aspettative del paese: le storie in cui i personaggi cinesi sono ritratti come antagonisti o in cui si parla dell’avversione contro Pechino in regioni come Tibet, Taiwan e Xinjiang sono considerate intrattabili.
Tuttavia, lisciare il pelo alla Cina in modo troppo evidente può essere controproducente. Un attore cinese che ha un ruolo inconsistente in un film di Hollywood è chiamato dal pubblico hua ping, “vaso di fiori”: un volto familiare incluso nel cast solo per vendere qualche biglietto in più. Da quando l’industria cinematografica del paese è cresciuta, gli spettatori cinesi sono diventati più esigenti. Le commedie, per esempio, faticano a incontrare i favori del pubblico. “Molti potenziali clienti ritengono, sbagliando, che basti entrare in Cina per contare su un mercato salvifico”, ha scritto per email Rance Pow, amministratore delegato di Artisan Gateway, un’azienda di consulenza specializzata nell’industria cinematografica asiatica. “In realtà, per gli stranieri la Cina può essere un contesto complesso, a volte perfino spietato”.
Modello in difficoltà
Secondo gli analisti, le case di produzione statunitensi si trovano in una posizione perdente. Aynne Kokas, docente di scienze della comunicazione all’università della Virginia e autrice di Hollywood made in China, spiega che, se il cinema degli Stati Uniti dovesse ammettere l’autocensura, il contraccolpo nei mezzi d’informazione occidentali sarebbe enorme e il governo cinese, che non ama le polemiche, potrebbe inserire nella lista nera i suoi film per evitare ulteriori noie.
Allo stesso tempo, ha detto Kokas, gli studios potrebbero attirare l’attenzione di alcuni legislatori statunitensi, danneggiando la loro reputazione in patria. Ma Hollywood non smetterà di cedere alle richieste di Pechino, perché è in Cina che il settore ha reali possibilità di espansione. Nessun altro mercato, soprattutto durante la pandemia, può competere con quello cinese. “Quindi, in un certo senso, è il modello statunitense a essere messo in discussione”, ha detto Kokas. “Esiste un prodotto redditizio senza il mercato cinese?”.
La risposta, a quanto pare, è no. Gli affari di Hollywood oggi poggiano in gran parte su basi traballanti. Gli effetti della pandemia, la guerra per lo streaming, la concentrazione delle case produttrici, lo sfruttamento dei franchise come attrazioni nei parchi a tema: sono tutte variabili imprevedibili. Ma, anche se gli investimenti cinesi a Hollywood sono diminuiti a causa della guerra commerciale con gli Stati Uniti, il pubblico cinese è un’ancora di salvezza per gli studios: profitti garantiti, purché Pechino approvi.
Tager suggerisce che le major di Hollywood potrebbero unirsi per riscrivere le regole, ma finora non sono state individuate misure in grado di modificare radicalmente il rapporto asimmetrico tra il più grande produttore mondiale di film e il suo pubblico più redditizio. “Non credo che riusciremo mai a stabilire dei punti fermi”, conclude Schwartz. ◆ nv
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Questo articolo è uscito sul numero 1430 di Internazionale, a pagina 79. Compra questo numero | Abbonati