Lenin morì 101 anni fa, il 21 gennaio 1924. Considerata la sorte della sua eredità negli ultimi decenni, mi sembra appropriato ricordarne l’anniversario con un anno di ritardo. Dove siamo dunque oggi, non solo in relazione a Lenin ma anche in relazione al progetto rivoluzionario associato al suo nome?
Nel 1922, quando i bolscevichi dovettero ripiegare sulla nuova politica economica che prevedeva di dare uno spazio molto maggiore all’economia di mercato e all’economia privata, Lenin scrisse un breve testo intitolato “A proposito dell’ascensione sulle alte montagne”. Qui usava la similitudine di uno scalatore che deve ritirarsi al punto di partenza dopo il suo primo tentativo di raggiungere una nuova cima montana, per descrivere come ci si ritira senza tradire in modo opportunistico la propria lealtà alla causa: “I comunisti che non si lasciano andare né alle illusioni né allo scoraggiamento, conservando la forza e l’elasticità del proprio organismo per ricominciare ogni volta da capo la marcia di avvicinamento verso un obiettivo difficilissimo non sono invece perduti”. Questo è un Lenin pienamente beckettiano, che fa eco alla battuta di Worstward Ho: “Riprova. Fallisci di nuovo. Fallisci meglio”.
Oggi il comunismo è inefficace. Forse per uscire dal vicolo cieco del meditare sulla debolezza della sinistra dobbiamo cambiare terreno e concentrarci sul capitalismo
Questo atteggiamento leninista è particolarmenre necessario oggi che il comunismo, l’unico modo per affrontare le sfide contemporanee (ecologia, guerra, intelligenza artificiale), è sempre più inefficace: quel che rimane della sinistra è sempre meno capace di mobilitare le persone intorno a un’alternativa praticabile all’ordine globale. Forse per uscire dal vicolo cieco del meditare sulla debolezza della sinistra, lamentandosi di quanto sia più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo, dobbiamo cambiare terreno e concentrarci proprio sul capitalismo. Capitalismo che non solo ha immaginato con successo il post-capitalismo, ma si sta trasformando in un ordine post-capitalista. La posta in gioco è altissima. Nessuno ne era più consapevole di un altro rivoluzionario, Lev Trockij, com’è evidente dal suo sogno su Lenin morto della notte del 25 giugno 1935:
La notte scorsa, o meglio stamattina presto, ho sognato ch’ero in conversazione con Lenin. A giudicare dall’ambiente, eravamo a bordo di una nave, sul ponte di terza classe. Lenin era sdraiato in cuccetta e io gli stavo accanto in piedi, o seduto (non ne sono certo). Egli m’interrogava ansiosamente sulle mie condizioni di salute: “Dovete aver accumulato una grande stanchezza nervosa: bisogna che vi riposiate”. Io ribattei che dalla stanchezza non avevo mai tardato a riprendermi, grazie alla mia naturale Schwungkraft (energia), ma che questa volta il male sembrava avere radici più profonde. “Allora dovreste seriamente (e sottolineò la parola) consultare i medici (fece un paio di nomi)”. Io risposi che mi ero fatto già visitare in diverse occasioni, e avevo appena cominciato a dirgli del mio viaggio terapeutico a Berlino nel 1926 quando mi ricordai che Lenin era morto. Cercai immediatamente di allontanare questo pensiero in modo da non interrompere il dialogo. Finito di raccontare il viaggio a Berlino, stavo per aggiungere: “Ciò avvenne dopo la vostra morte”, ma mi trattenni e dissi: “Dopo che vi ammalaste”.
Nella sua interpretazione di questo sogno, Jacques Lacan si concentra sull’evidente nesso con il sogno di Freud in cui gli appare suo padre, un padre che non sa di essere morto. Quindi cosa significa che Lenin non sa di essere morto? Ci sono due modi radicalmente opposti di leggere questo sogno. Nel primo, la figura terribilmente ridicola del Lenin non morto
non sa che l’immenso esperimento sociale a cui lui stesso ha dato vita (e che noi chiamiamo comunismo sovietico) si è concluso. È ancora pieno di energia, anche se è morto, e tutti i rimproveri dei vivi – essere stato la vera origine del terrore staliniano, essere stato una personalità aggressiva piena d’odio, un tiranno amante del potere e del totalitarismo, addirittura (la cosa peggiore) aver riscoperto il mercato con la sua nuova politica economica – nessuna di queste offese riesce a dargli la morte, neppure una seconda morte. Come è possibile che pensi di essere ancora vivo? E qual è la nostra posizione in questo contesto – che sarebbe poi, senza dubbio, quella di Trockij nel sogno –, cos’è che non conosciamo, qual è la morte da cui Lenin ci difende?
Il Lenin morto che non sa di essere morto rappresenta il nostro ostinato rifiuto di rinunciare a grandiosi progetti utopici e accettare i limiti della nostra situazione: non c’è un grande Altro, Lenin era mortale e ha fatto errori come tutti gli altri, quindi è arrivato per noi il momento di lasciarlo morire, di seppellire questo osceno fantasma che ossessiona il nostro immaginario politico, e affrontare i nostri problemi in modo pragmatico e non ideologico. Ma c’è un altro senso in cui Lenin è ancora vivo: lo è nella misura in cui incarna quella che il filosofo Alain Badiou chiama “l’Idea eterna” dell’emancipazione universale, quell’immortale voglia di giustizia che nessuna offesa e nessuna catastrofe può uccidere. Qui è il caso di ricordare le parole sublimi di Hegel a proposito della rivoluzione francese nelle sue Lezioni sulla filosofia della storia:
Non si deve contestare l’affermazione secondo cui la rivoluzione francese ebbe il suo primo impulso dalla filosofia. Da che il sole splende sul firmamento e i pianeti gli girano intorno, non si era mai visto che l’esistenza umana è incentrata nella sua testa, cioè nel pensiero, e da questo prende ispirazione per entrare la realtà. Fino ad allora l’essere umano non era mai arrivato a riconoscere che il pensiero doveva governare la realtà spirituale. Questa fu dunque una splendida aurora. Tutti gli esseri pensanti hanno celebrato quest’epoca. Una nobile commozione dominò in quel tempo, il mondo fu percorso e agitato da un entusiasmo nello spirito, come se allora fosse finalmente avvenuta la vera conciliazione del divino col mondo.
Questo chiaramente non impedì a Hegel di analizzare freddamente la necessità intrinseca di questa astratta esplosione di libertà di trasformarsi nel suo opposto, l’autodistruttivo terrore rivoluzionario. Tuttavia non va dimenticato che la critica di Hegel accetta il principio basilare della rivoluzione francese (e il suo principale corollario, la rivoluzione haitiana). Ed è esattamente questo che bisognerebbe fare con la rivoluzione di ottobre (e poi con la rivoluzione cinese). Come ha osservato Badiou, è stata la prima volta in tutta la storia dell’umanità che una rivolta dei poveri sfruttati risultò vittoriosa: le persone del livello sociale più basso dettarono le nuove norme di riferimento. Contro tutti gli ordini gerarchici, l’universalità egualitaria arrivò direttamente al potere. La rivoluzione si consolidò in un nuovo ordine sociale, un nuovo mondo fu creato e miracolosamente sopravvisse, sottoposto a pressioni economiche e militari inimmaginabili. Questa fu, davvero, una splendida aurora.
La differenza tra le due letture di questo sogno è in ultima analisi quella tra Stalin e Trockij. In Stalin “Lenin vive per sempre” come uno spirito osceno che “non sa di essere morto”, tenuto artificialmente in vita in quanto strumento di potere. In Trockij il Lenin morto continua a vivere ovunque ci sono persone che ancora combattono per quella stessa idea.
Per affrontare dunque più da vicino il nostro argomento, quali caratteristiche di Lenin hanno acquisito di recente un’attualità inaspettata? Il tardo Lenin sottolineava l’importanza delle buone maniere e dell’umorismo. La gentilezza è qualcosa di più del semplice obbedire a una legalità esteriore e qualcosa di meno della pura attività morale: è il dominio ambiguamente impreciso di ciò che non si è strettamente obbligati a fare (se non lo si fa, non s’infrange alcuna legge), ma ci si aspetta comunque che lo si faccia. Sono regole tacite, implicite, questioni di tatto, qualcosa verso cui il soggetto ha di norma una relazione irriflessa: qualcosa che è parte della nostra spontanea sensibilità. È l’impasse del politicamente corretto: cerca di formulare in modo esplicito, perfino di tradurre in leggi, la sostanza delle buone maniere (se guardo una donna in un modo considerato offensivo, non solo dimostro cattive maniere, ma violo anche la legge).
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Lenin è consapevole che al nuovo padrone bolscevico va affiancata un’altra forma discorsiva. Come ha notato Moshe Lewin nel suo L’ultima battaglia di Lenin (Laterza 1968), verso la fine della sua vita, pur riconoscendo la natura dittatoriale del regime sovietico, Lenin propone un nuovo organismo di governo: la commissione centrale di controllo. Ciò che colpisce per prima cosa è l’inaspettata enfasi di Lenin sulla gentilezza e la cortesia, cosa strana per un bolscevico incallito. Anche il famoso appello di Lenin ad allontanare Stalin si concentra sulla sua mancanza di garbo:
Stalin è troppo grossolano e questo difetto, del tutto tollerabile nell’ambiente e nei rapporti tra noi comunisti, diventa intollerabile nella funzione di segretario generale. Perciò propongo ai compagni di pensare alla maniera di togliere Stalin da questo incarico e di nominare al suo posto qualcuno che, a parte tutti gli altri aspetti, si distingua dal compagno Stalin solo per una migliore qualità, quella cioè di essere più tollerante, più leale, più cortese e più riguardoso verso i compagni, meno capriccioso eccetera.
Qui va notata una cosa strana: degli altri candidati Lenin cita le deviazioni politiche o teoriche, ma nel caso di Stalin parla solo delle sue cattive maniere. Anche se la battaglia di Lenin contro il dominio della burocrazia di stato è ben nota, meno noto è che – come ha osservato Lewin – con la sua proposta di un nuovo organo dirigente Lenin stava tentando di quadrare il cerchio della democrazia e della dittatura del partito-stato. Pur riconoscendo pienamente la natura dittatoriale del regime sovietico, tentò
di mettere a capo della dittatura un equilibrio fra elementi diversi, un sistema di controllo reciproco che poteva assolvere alla stessa funzione – e il paragone è poco più che approssimativo – della separazione dei poteri in un regime democratico. Un’importante commissione centrale, sollevata al rango della conferenza di partito, avrebbe dettato le linee generali della politica e supervisionato l’intero apparato del partito partecipando allo stesso tempo allo svolgimento di compiti più importanti. La commissione centrale di controllo avrebbe occupato una posizione speciale rispetto alle altre istituzioni: la sua indipendenza sarebbe stata garantita dal collegamento diretto con il congresso del partito, senza la mediazione del politburo e dei suoi organi amministrativi o della commissione centrale.
Pesi e contrappesi, divisione dei poteri, controllo reciproco… questa fu la disperata risposta di Lenin alla domanda: chi controlla i controllori? C’è qualcosa di onirico, di propriamente fantasmatico in questa idea della commissione centrale di controllo: un organismo indipendente, pedagogico, con un taglio “apolitico”, composta dei migliori insegnanti e tecnocrati, che tiene sotto controllo il comitato centrale “politicizzato” e i suoi organi. Tuttavia, qui tutto passava necessariamente dalla reale indipendenza del congresso del partito, di fatto già minata dalla messa al bando delle fazioni che consentiva ai vertici di controllare il congresso. L’ingenuità della fiducia di Lenin negli esperti tecnocrati sorprende ancor di più se teniamo presente il fatto che per altri versi era un politico assolutamente consapevole della pervasività della lotta politica, su cui non ammetteva nessuna neutralità. Tuttavia, nel “sognare” (parole sue) il modo di funzionamento della commissione centrale di controllo, egli descrive in che modo questo organismo dovrebbe fare ricorso a
qualche tiro semischerzoso, qualche astuzia, qualche tranello o qualcosa del genere. Io spero che la discussione di quest’idea susciterà in noi solo buon umore. Perché infatti non unire l’utile al dilettevole? Perché non servirsi di un tiro scherzoso o semischerzoso per scoprire qualcosa di ridicolo, di dannoso, semiridicolo, semidannoso eccetera?
È un doppione quasi osceno del “serioso” potere esecutivo concentrato nel comitato centrale e nel politburo, una sorta d’intellettuale non-organico del movimento, un agente che ricorre allo scherzo, ai tranelli e all’astuzia della ragione tenendosi a distanza. Una sorta di analista. Perciò, forse, non potremmo immaginare qualcuno come il regista Ernst Lubitsch a capo di questa commissione di controllo? L’ovvia controargomentazione è: ma la struttura autoritaria del potere bolscevico non aveva precluso a una figura come Lubitsch la possibilità di svolgere qualunque ruolo di rilievo? La nostra risposta dovrebbe essere una variazione sul pensiero di Hegel nell’introduzione alla sua Fenomenologia, per cui “la misura dell’esame cambia, se ciò di cui dovrebbe essere misura non regge all’esame. È sotto esame non solo il sapere, ma anche la misura del sapere”. Applicato brutalmente al nostro caso, questo significa che se Lubitsch non è adatto a Lenin, allora abbiamo bisogno di un nuovo Lenin, un Lenin che tolleri, o addirittura pretenda, una figura come Lubitsch a capo della sua commissione di controllo. Questa nostra epoca in cui ridicole figure dittatoriali fanno il paio con populisti osceni e volgari, avrebbe davvero bisogno di qualcosa come la commissione centrale di controllo di Lenin.
A proposito di posizioni politiche particolari, va sottolineato quanto la politica estera di Putin oggi sia chiaramente in continuità con la linea zarista-stalinista. Secondo lui, dopo la rivoluzione sono stati i bolscevichi a rovinare la Russia:
I bolscevichi, per una serie di motivi – possa Dio giudicarli – inclusero vaste porzioni del sud storico della Russia nella Repubblica di Ucraina. Lo fecero senza considerare la composizione etnica della popolazione, e oggi queste aree formano il sudest dell’Ucraina.
A gennaio del 2016 Putin avanzò nuovamente la stessa argomentazione descrivendo il più grande errore di Lenin:
Governare facendosi guidare dalle proprie idee è corretto, ma questo vale solo quando un’idea porta ai giusti risultati, non come fece Lenin. Alla fine la sua idea ha portato alla rovina dell’Unione Sovietica. Ci sono state molte idee di questo tipo, come quella di riconoscere l’autonomia alle regioni. E hanno piazzato una bomba atomica sotto l’edificio chiamato Russia, che prima o poi sarebbe esplosa.
In breve, per Putin Lenin è stato colpevole di aver preso sul serio l’autonomia delle diverse nazioni che componevano l’impero russo, mettendo così in discussione l’egemonia russa. Non c’è da stupirsi se oggi durante le parate militari russe e le celebrazioni pubbliche vediamo ritratti di Stalin, mentre Lenin è stato cancellato. In un vasto sondaggio realizzato da Mosca un paio d’anni fa Stalin è stato votato al terzo posto tra i più grandi russi di tutti i tempi, mentre Lenin non era neppure in classifica. Stalin oggi non è celebrato in quanto comunista, ma in quanto restauratore della grandiosità della Russia dopo la deviazione anti-patriottica di Lenin. Per Lenin, “l’internazionalismo proletario” va di pari passo con una difesa dei diritti delle piccole nazioni contro quelle grandi: per una grande nazione che domina le altre, concedere pieni diritti a quelle più piccole è un indicatore chiave della serietà del suo internazionalismo dichiarato.
Perciò è fondamentale tener presente che l’invasione dell’Ucraina in corso è l’atto finale di una lunga battaglia per eliminare la tradizione leninista in Russia. L’ultima volta che Lenin è finito sulle pagine dei giornali in occidente è stato durante la rivolta in Ucraina del 2014, che rovesciò il presidente filorusso Viktor Janukovyč: nei reportage televisivi sulle proteste di massa a Kiev si vedeva sempre la scena dei manifestanti infuriati che abbattevano le statue di Lenin. Erano attacchi comprensibili perché quei monumenti rappresentavano il simbolo dell’oppressione sovietica, e la Russia di Putin era considerata una prosecuzione della politica sovietica di sottomettere le nazioni non russe. Eppure, c’era una profonda ironia nella scena di quegli ucraini che abbattevano le statue di Lenin come espressione del loro desiderio di affermare la propria sovranità: l’età d’oro dell’identità nazionale ucraina non fu l’epoca preleninista della Russia zarista (quando l’autoaffermazione ucraina fu schiacciata), ma il primo decennio dell’Unione Sovietica, quando gli ucraini definirono pienamente un’identità nazionale. Nel corso degli anni venti del novecento, la politica sovietica dell’indigenizzazione favorì un risveglio della cultura e della lingua ucraine che unito alle misure progressiste – assistenza sanitaria universale, migliori condizioni di lavoro, diritto alla casa, diritti delle donne – contribuì al fiorire dello stato ucraino.
Queste conquiste politiche furono cancellate quando Stalin consolidò il suo potere nei primi anni trenta, colpendo l’Ucraina in modo particolarmente brutale: il tristemente noto holodomor, la carestia terroristica che tra il 1932 e il 1933 uccise milioni di ucraini, e nei due anni del grande terrore del 1936-1937 solo tre dei duecento componenti del comitato centrale della repubblica ucraina sopravvissero. L’indigenizzazione dell’Ucraina, crudelmente cancellata da Stalin, aveva seguìto i princìpi formulati da Lenin in termini piuttosto inequivocabili:
Il proletariato non può non lottare contro il mantenimento forzato delle nazioni oppresse nei confini di uno stato, e questo significa appunto lottare per il diritto di autodeterminazione. Il proletariato deve esigere la libertà di separazione politica delle colonie e delle nazioni oppresse dalla “sua” nazione. Nel caso contrario l’internazionalismo del proletariato resterà un’espressione vuota; tra gli operai della nazione dominante e gli operai della nazione oppressa non sarà possibile né la fiducia né la solidarietà di classe.
Ancora una volta, la colpa di Lenin è aver preso sul serio la questione dell’autonomia delle nazioni di cui si componeva l’impero russo, mettendo in discussione l’egemonia di Mosca. Trockij seguì fedelmente la strada tracciata da Lenin e i due sottotitoli del suo articolo dell’aprile del 1939, “Il problema dell’Ucraina”, lo dicono molto chiaramente: “Per un’Ucraina sovietica libera e indipendente!” e “La costituzione sovietica ammette il diritto all’autodeterminazione”. Trockij porta questo alle sue logiche conclusioni:
“L’indipendenza di un’Ucraina unita significherebbe la separazione dell’Ucraina sovietica dall’Unione Sovietica”, esclameranno in coro gli “amici” del Cremlino. E noi rispondiamo: cosa c’è di tanto terribile? Questo è il vero internazionalismo proletario!
In contrasto con questa posizione, va ricordato che quando, il 21 febbraio 2022, Putin ha annunciato l’attacco all’Ucraina, affermando che questa era una creazione bolscevica, ha dichiarato:
Oggi la “progenie riconoscente” ha abbattuto i monumenti di Lenin in Ucraina. La chiamano decomunistizzazione. Volete la decomunistizzazione? Ottimo, a noi va benissimo. Ma perché fermarsi a metà? Noi siamo pronti a mostrare cosa significherebbe una vera decomunistizzazione per l’Ucraina.
La logica di Putin è chiara: l’Ucraina è stata una creazione di Lenin, quindi una vera decomunistizzazione significa la fine dell’Ucraina. Come dovremmo reagire a questo? Nel suo The west at war: on the self-enclosure of the liberal mind (L’occidente in guerra: la chiusura in se stessa della mente liberale), il filosofo Boris Buden affronta la guerra in Ucraina attraverso una domanda che potrebbe apparire ingenua. Tuttavia, la stessa impressione d’ingenuità è un effetto del trionfo ideologico del liberismo capitalista globale:
Il concetto di rivoluzione non è forse totalmente screditato? Ebbene, questo è uno dei più grandi successi ideologici della mente liberale. Quel che è assente oggi nel sanguinoso dramma dell’Ucraina è l’idea di rivoluzione. O più precisamente ci manca Lenin, una figura che sfida radicalmente la logica binaria che sta dietro lo scontro tra due blocchi identitari normativi. La nostra immaginazione deve rivendicare l’idea di un cambiamento rapido e radicale come condizione per la nostra sopravvivenza.
Buden poi illustra cosa questo potrebbe significare per la guerra in Ucraina:
Quello di cui ha bisogno oggi la Russia non è un colpo di stato che riporti le cose a una presunta normalità. Ha bisogno di una rivoluzione, una rivoluzione leninista con un’autentica violenza che non solo cacci Putin e la sua cerchia dal potere (merita la stessa sorte dello zar Nicola II), ma distrugga anche il suo intero sistema di capitalismo clientelare oligarchico, espropri gli ususpatori criminali e inviti gli oppressi del mondo a unirsi alla battaglia. Però questo è esattamente ciò che fa più paura all’occidente. Il sistema di oligarchia parlamentare che sostiene Putin, con il suo carattere autoritario e violento, non è un’invenzione russa, è il sistema che meglio di tutti serve gli interessi della classe dirigente globale. Ecco perché c’è stata tanta simpatia per Putin tra i circoli di destra di tutto il mondo: se Putin muore qualcun altro porterà avanti la sua bandiera, non solo in Russia, ma in molti altri luoghi del mondo, compreso l’occidente.
E conclude:
Non c’è più tempo per nient’altro. Se non rivendicheremo la visione utopica di un cambiamento rapido e radicale, saremo spacciati.
In altre parole, senza un recupero dell’eredità leninista saremo spacciati. ◆ fdl
Slavoj Žižek è un filosofo e studioso di psicoanalisi sloveno. Il suo ultimo libro pubblicato in italiano è Ucraina, Palestina e altri guai (Ponte alle Grazie 2024). Il titolo originale di questo articolo è “Lenin: 101 years after”.
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Questo articolo è uscito sul numero 1599 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati