Un topo può imparare una nuova canzone? La domanda può sembrare stravagante. Ma anche se gli esseri umani vivono accanto ai topi da almeno 15mila anni, pochi di noi li hanno sentiti cantare, perché lo fanno in frequenze che vanno oltre la gamma percepibile dall’orecchio umano. Da cuccioli, con le loro vocine acute indicano alle madri dove si trovano. Da adulti, cantano in ultrasuoni durante il corteggiamento. Per decenni i ricercatori hanno pensato che le canzoni dei topi fossero istintive e fisse come le melodie di un carillon, e non espressioni mutevoli di singole menti.
Ma nessuno aveva mai controllato se fosse veramente così. Nel 2012 un gruppo di neurobiologi della Duke university, guidato da Erich Jarvis, un neuroscienziato che studia l’apprendimento vocale, ha progettato un esperimento per scoprirlo. I ricercatori hanno assordato chirurgicamente cinque esemplari e registrato le loro canzoni in uno studio a misura di topo, dotato di telecamere a infrarossi e microfoni. Poi hanno confrontato le canzoni dei topi sordi con quelle degli altri topi. Se queste canzoni fossero innate, come si è pensato a lungo, l’alterazione chirurgica non avrebbe fatto nessuna differenza.
Jarvis e i suoi collaboratori hanno rallentato il tempo e cambiato la tonalità delle registrazioni, in modo da poterle ascoltare. Quelli dei topi udenti erano “notevolmente simili ai canti di alcuni uccelli”, ha scritto Jarvis in un articolo del 2013. Erano fatte di sillabe simili a fischi, come quelle dei canarini e dei delfini. Le canzoni dei topi sordi, invece, private del feedback uditivo, si degradavano e diventavano quasi irriconoscibili. Secondo gli scienziati sembravano “urla e schiamazzi”. Non solo le melodie di un topo dipendevano dalla sua capacità di sentire se stesso e gli altri, ma un topo maschio poteva alterare il tono della sua voce per competere con altri maschi per l’attenzione delle femmine, come i ricercatori hanno scoperto in un altro esperimento.
Queste abilità contengono gli indizi per risolvere quello che molti hanno definito “il problema più difficile della scienza”: le origini del linguaggio. Negli esseri umani, l’“apprendimento vocale” è considerato fondamentale per la lingua parlata. I ricercatori avevano già scoperto questa capacità in specie diverse dagli esseri umani, tra cui uccelli canori, colibrì, pappagalli, cetacei come delfini e balene, pinnipedi come le foche, elefanti e pipistrelli. Ma data la secolare convinzione che un profondo abisso separasse il linguaggio umano dalle comunicazioni animali, la maggior parte degli scienziati ha interpretato le capacità di apprendimento vocale di altre specie come estranee alle nostre, evolutivamente divergenti come l’ala di un pipistrello da quella di un’ape. L’apparente assenza di forme intermedie di linguaggio – per esempio, un animale che parla – ha impedito di risolvere empiricamente la questione di come si sia evoluto il linguaggio.
Quando hanno sezionato il cervello dei topi udenti e sordi, i ricercatori della Duke university hanno trovato una versione rudimentale del circuito neurale che consente al prosencefalo degli animali capaci di apprendimento vocale, come gli esseri umani e gli uccelli canori, di controllare direttamente i loro organi fonatori. I topi non sembrano avere la flessibilità vocale degli elefanti. Non possono fare come l’elefante africano di Tsavo, in Kenya, che imitava il rumore dei camion sulla vicina autostrada Nairobi-Mombasa. Né hanno le capacità mimiche delle foche: un esemplare del New England Aquarium sapeva pronunciare frasi in inglese con un perfetto accento del Maine (“Hoover, vieni qui”, diceva. “Dai, dai!”).
Ma le abilità rudimentali dei topi fanno pensare che la capacità fondamentale di usare il linguaggio potrebbe collocarsi su un continuum, come un ponte di terra sommerso può indicare che due continenti oggi separati un tempo erano collegati. Negli ultimi anni una serie di scoperte ha rivelato un ampio paesaggio sonoro non umano: tartarughe che emettono suoni per coordinare i tempi della loro uscita dalle uova; larve di corallo che possono sentire il rumore delle barriere coralline sane; e piante in grado di rilevare lo scrosciare dell’acqua corrente e il masticare degli insetti erbivori. In questa cacofonia i ricercatori hanno riscontrato intenzionalità e significato, l’uso mirato di suoni diversi per trasmettere informazioni. E hanno teorizzato che uno degli aspetti che più ci confondono del linguaggio, la sua struttura interna basata su regole, sia emerso da spinte sociali comuni a una vasta gamma di specie.
A ogni scoperta, il divario cognitivo e morale tra l’umanità e il resto del mondo animale si è ridotto. Per secoli, le espressioni linguistiche dell’Homo sapiens sono state considerate uniche in natura, giustificando il nostro dominio su altre specie e avvolgendo l’evoluzione del linguaggio nel mistero. Oggi gli esperti di linguistica, biologia e scienze cognitive sospettano che le componenti del linguaggio possano essere comuni a molte specie, aprendo una finestra sulla vita interiore degli animali che potrebbe aiutarci a collocare il linguaggio nella loro storia evolutiva, e nella nostra.
Il gene mancante
Per secoli il linguaggio ha segnato “la vera differenza tra uomo e bestia”, come scrisse il filosofo Cartesio nel 1649. Ancora alla fine del novecento archeologi e antropologi ipotizzavano che tra i quarantamila e i cinquantamila anni fa una “rivoluzione umana” avesse interrotto la storia evolutiva, creando un divario incolmabile che separa le capacità cognitive e linguistiche dell’umanità da quelle del resto del mondo animale.
Linguisti e altri esperti hanno rafforzato questa idea. Nel 1959 il linguista del Massachussetts institute of technology Noam Chomsky, che all’epoca aveva trent’anni, scrisse una sferzante critica di 33 pagine al libro del celebre comportamentista B.F. Skinner, secondo cui il linguaggio era solo una forma di “comportamento verbale” (così si intitolava il volume) accessibile a qualsiasi specie sottoposta a un sufficiente condizionamento. Qualcuno la definì “forse la recensione più devastante che sia stata mai scritta”. Tra il 1972 e il 1990 la critica di Chomsky è stata citata più volte del libro di Skinner, che fu un fiasco.
L’idea del linguaggio come superpotere unicamente umano, che ha permesso all’Homo sapiens di scrivere poemi epici e andare sulla Luna, presumeva una biologia unicamente umana. Ma i tentativi di trovare quegli speciali meccanismi biologici – siano essi fisiologici, neurologici o genetici – che si pensava lo rendessero possibile sono tutti falliti.
Un esempio particolarmente interessante è arrivato nel 2001, quando un team guidato dai genetisti Cecilia Lai e Simon Fisher ha scoperto un gene – chiamato Foxp2 – in una famiglia londinese in cui ricorreva l’aprassia infantile, un disturbo che compromette la capacità di coordinare i muscoli necessari per produrre suoni, sillabe e parole in una sequenza intelligibile. Secondo alcuni era stato finalmente trovato il gene che permette agli esseri umani di parlare, ma poi lo stesso gene è stato individuato nei genomi di roditori, uccelli, rettili, pesci e ominidi come i neandertal, la cui versione di Foxp2 è molto simile alla nostra. Anche la ricerca di un’anatomia vocale esclusivamente umana è fallita. In uno studio del 2001 lo scienziato cognitivo Tecumseh Fitch ha indotto capre, cani, cervi e altre specie a vocalizzare mentre si trovavano all’interno di una macchina cineradiografica che filmava a raggi X il movimento delle loro laringi. Ha così scoperto che le specie con laringi diverse da quella umana – la nostra si trova nella gola invece che nella bocca – possono comunque muoverle in modo simile. Il cervo rosso ha la laringe nella stessa posizione degli esseri umani.
Fitch e il biologo evoluzionista Marc Hauser cominciarono a chiedersi se per caso non avessero pensato al linguaggio in modo sbagliato. I linguisti consideravano il linguaggio un’abilità unica, come saper nuotare o cucinare un soufflé: o ce l’hai o non ce l’hai. Ma forse era più simile a un sistema complesso che includeva tratti psicologici, come la capacità di condividere le intenzioni; fisiologici, come il controllo motorio sulle vocalizzazioni e sui gesti; e capacità cognitive, come quella di combinare i segnali secondo regole, molte delle quali potrebbero essere presenti anche in altri animali.
Fitch e Hauser scrissero un articolo che contraddiceva le tesi di Chomsky, e gliene mandarono una bozza. Una sera ricevettero la risposta: Chomsky diceva che non solo era d’accordo, ma che sarebbe stato disposto a firmare il loro prossimo articolo sull’argomento come coautore. Il testo è stato pubblicato sulla rivista Science nel 2002, e da allora è stato citato più di settemila volte.
Il dibattito su quali componenti del linguaggio fossero condivise con altre specie e quali esclusive degli umani è continuato. I temi in discussione erano, tra gli altri, l’intenzionalità del linguaggio, il suo modo di combinare segnali, la sua capacità di riferirsi a concetti esterni e a cose separate nel tempo e nello spazio e il suo potere di generare un numero infinito di espressioni a partire da un numero finito di segnali. Ma la convinzione che il linguaggio fosse un’anomalia evolutiva ha cominciato a svanire. “I biologi hanno pensato che finalmente i linguisti avevano cominciato a ragionare”, ricorda Fitch.
Le prove della continuità tra la comunicazione animale e il linguaggio umano si sono moltiplicate. Nel 2010 il sequenziamento del genoma dei neandertal ha suggerito che non ci siamo discostati significativamente da quel ceppo, come postulava la teoria della “rivoluzione umana”. Al contrario, i geni dei neandertal e quelli di altri antichi ominidi permangono nel genoma umano moderno, a riprova di quanto intimamente fossimo legati. Nel 2014 Jarvis ha scoperto che i circuiti neurali che permettono agli uccelli canori di imparare a produrre nuovi suoni corrispondevano a quelli degli esseri umani e che i relativi geni si sono evoluti in modo simile. Le prove lasciavano “poco spazio al dubbio”, ha osservato Cedric Boeckx, un teorico del linguaggio dell’università di Barcellona, sulla rivista Frontiers in Neuroscience: “Non c’è stato nessun ‘grande balzo in avanti’”.
A mano a mano che la nostra comprensione della natura e dell’origine del linguaggio cambiava, sorgevano fruttuose iniziative interdisciplinari. I colleghi di Chomsky, come il linguista dell’Mit Shigeru Miyagawa, hanno collaborato con primatologi e neuroscienziati per studiare come il linguaggio umano sia correlato al canto degli uccelli e ai richiami dei primati. Sono nati centri interdisciplinari dedicati specificamente all’evoluzione della lingua, come quelli delle università di Zurigo e di Edimburgo. Gli interventi a una conferenza biennale sull’evoluzione del linguaggio, che un tempo erano “puramente teorici”, come ha osservato lo scienziato cognitivo Simon Kirby, sono diventati presentazioni “ricche di dati empirici”.
I delfini imitavano spontaneamente i fischi generati dal computer
Pensieri e parole
Uno dei problemi più spinosi che i ricercatori hanno cercato di affrontare è stato il legame tra pensiero e linguaggio. Filosofi e linguisti hanno a lungo sostenuto che il linguaggio dev’essersi evoluto non per facilitare la comunicazione ma per consentire il pensiero astratto. Le regole grammaticali che lo strutturano, caratteristica comune a tutte le lingue, sono più complesse di quanto sarebbe necessario ai fini della comunicazione. Il linguaggio, si diceva, deve essersi sviluppato per aiutarci a pensare, più o meno nello stesso modo in cui le notazioni matematiche ci permettono di fare calcoli complessi.
Ev Fedorenko, una neuroscienziata cognitiva dell’Mit, ha pensato che fosse “un’idea interessante”, così una decina di anni fa ha deciso di metterla alla prova. Se il linguaggio è il mezzo del pensiero, ragionava, allora formulare un pensiero e comprendere il significato delle parole pronunciate o scritte dovrebbero attivare nel cervello gli stessi circuiti neurali, come due corsi d’acqua alimentati dalla stessa sorgente sotterranea. Precedenti studi di imaging cerebrale avevano dimostrato che i pazienti affetti da grave afasia potevano risolvere problemi matematici, nonostante la loro difficoltà a decifrare o produrre linguaggio, ma non erano riusciti a trovare nel loro cervello distinzioni tra le regioni dedicate al pensiero e quelle dedicate al linguaggio.
Fedorenko sospettava che ciò potesse essere dovuto al fatto che la posizione precisa di queste regioni varia da individuo a individuo. In uno studio del 2011 ha chiesto a dei soggetti sani di fare calcoli e decifrare stralci di linguaggio parlato e scritto mentre osservava come il sangue scorreva verso le zone attivate del loro cervello usando la risonanza magnetica (mri), tenendo conto dei loro circuiti neurali unici nella successiva analisi. I suoi studi hanno dimostrato che pensare e decodificare parole coinvolgono percorsi cerebrali distinti. Linguaggio e pensiero, dice Fedorenko, “in un cervello umano adulto sono davvero separati”.
I bambini preverbali usano molti gesti del repertorio delle scimmie
All’università di Edimburgo, Kirby ha scoperto un processo che potrebbe spiegare come si è evoluta la struttura interna del linguaggio. Questa struttura, in cui elementi semplici come suoni e parole sono disposti in frasi e ordinati gerarchicamente l’uno nell’altro, conferisce al linguaggio la capacità di generare un numero infinito di significati. È una caratteristica fondamentale del linguaggio, come della matematica e della musica, ma le sue origini sono poco chiare. Poiché i bambini intuiscono le regole che governano la struttura linguistica anche senza ricevere istruzioni esplicite, i filosofi e i linguisti hanno sempre sostenuto che doveva essere il risultato di un processo cognitivo unicamente umano. Ma i ricercatori che hanno esaminato i reperti fossili per determinare quando e come si è evoluto quel processo non hanno ottenuto risultati: le prime frasi pronunciate non hanno lasciato nessuna traccia. Kirby ha progettato un esperimento per simulare l’evoluzione del linguaggio nel suo laboratorio. Prima ha inventato dei codici per sostituire il caotico insieme di parole che si ritiene abbia preceduto l’emergere del linguaggio strutturato, usando sequenze casuali di luci colorate o di gesti. Quindi ha chiesto ad alcuni volontari di usarli in varie condizioni, e ha studiato come i codici cambiavano. I soggetti dovevano usare il codice per risolvere compiti comunicativi, oppure passarselo come nel gioco del telefono senza fili. Ha ripetuto l’esperimento centinaia di volte usando parametri diversi e con diversi soggetti, tra cui una colonia di babbuini in un recinto seminaturalistico dotato di computer sui quali potevano scegliere di partecipare ai suoi giochi sperimentali.
Quello che ha scoperto è stato sorprendente: indipendentemente dalla lingua madre dei soggetti o dal fatto che fossero babbuini, studenti universitari o robot, i risultati erano gli stessi. Quando se lo passavano tra loro, il codice diventava più semplice ma anche meno preciso. Ma quando se lo passavano e lo usavano anche per comunicare, il codice assumeva gradualmente un’architettura precisa. Sequenze casuali di luci colorate si trasformavano in sequenze riccamente elaborate. Gesti contorti o pantomime per parole come “chiesa” o “poliziotto” diventavano segnali astratti ed efficienti. “Abbiamo visto emergere spontaneamente le strutture linguistiche che ci aspettavamo”, dice Kirby. Le sue scoperte suggeriscono che il potere mistico del linguaggio – la capacità di trasformare segnali casuali in formule intelligibili – potrebbe essere emerso da un compromesso tra la semplicità, che facilita l’apprendimento, e quella che Kirby chiama “espressività”, necessaria per una comunicazione inequivocabile.
Per Cartesio l’equazione tra linguaggio e pensiero significava che gli animali non umani non avevano alcuna vita mentale. Rompere il legame tra linguaggio e biologia umana non ha solo demistificato il linguaggio, ma ha anche ristabilito la possibilità che gli animali abbiano una mente e che qualunque specie sociale in teoria abbia accesso alle capacità linguistiche.
Pittogrammi acustici
La ricerca delle componenti del linguaggio negli animali non umani si estende ora ai confini del nostro albero filogenetico, comprendendo creature che possono comunicare in modi del tutto sconosciuti.
Recentemente ho incontrato il biofisico Marcelo Magnasco e la psicologa dell’Hunter college Diana Reiss, che studia la cognizione dei delfini. Il laboratorio di Magnasco alla Rockefeller university di New York è una stanza luminosa affacciata sull’East river, con file di vasche gorgoglianti abitate da polpi, di cui sperava di decodificare i misteriosi segnali. La sua curiosità per le capacità cognitive e comunicative dei cefalopodi è nata durante le sue immersioni, mi ha raccontato Magnasco: spesso ha incontrato dei cefalopodi e avuto la netta sensazione che stessero cercando di comunicare con lui. Durante il lockdown per il covid-19, quando ha dovuto interrompere lo studio sulla comunicazione dei delfini con Reiss, Magnasco ha comprato le vasche per i polpi e le ha installate nel suo laboratorio.
Durante la mia visita, i tentacoli grigio-rosa di un polpo aggrappato alla parete di vetro della sua vasca hanno cominciato a lampeggiare di un bianco brillante. Era arrabbiato? Stava cercando di dirci qualcosa? Era consapevole della nostra presenza? Non c’era modo di saperlo, ha detto Magnasco. In passato i tentativi di scoprire capacità linguistiche in altre specie sono falliti anche perché abbiamo ipotizzato che sarebbero state simili alle nostre, mi ha spiegato. Ma in realtà i sistemi di comunicazione di altre specie potrebbero essere davvero molto diversi. Per esempio, una specie in grado di riconoscere gli oggetti attraverso l’ecolocalizzazione, come i cetacei e i pipistrelli, potrebbe comunicare usando pittogrammi acustici, che a noi potrebbero sembrare suoni senza senso. Per comprendere il significato dei segnali degli animali, come gli schiocchi dei delfini o il canto delle balene, gli scienziati avevano bisogno di capire dove cominciavano e finivano le loro componenti, mi ha spiegato Reiss. “In realtà non abbiamo idea di quale sia l’unità minima”, ha detto. Se gli scienziati analizzano i richiami degli animali usando la segmentazione sbagliata, espressioni significative si trasformano in sciocchezze senza senso: “unca nescap pato” invece di “un cane è scappato”.
Un’iniziativa internazionale chiamata Project Ceti, fondata dal biologo David Gruber, spera di aggirare questo problema inserendo le registrazioni degli schiocchi dei capodogli in modelli computerizzati, che potrebbero essere in grado di discernere degli schemi ricorrenti, come ChatGpt è stato in grado di cogliere il vocabolario e la grammatica del linguaggio umano analizzando materiale pubblicamente disponibile. Un altro metodo, dice Reiss, è quello di fornire ai soggetti animali codici artificiali e osservare come li usano.
La ricerca di Reiss sulla cognizione dei delfini è uno dei pochi progetti sulla comunicazione animale che risale agli anni ottanta, quando i fondi stanziati per il settore furono tagliati dopo che un ricercatore di alto livello ritrattò la sua affermazione, molto pubblicizzata, secondo cui uno scimpanzé potrebbe essere addestrato a usare la lingua dei segni per conversare con gli umani. Per uno studio pubblicato nel 1993 Reiss aveva fornito ai tursiopi di una struttura nel nord della California una tastiera subacquea che gli permetteva di scegliere specifici giocattoli, che poi il computer gli consegnava emettendo fischi come una sorta di distributore automatico. I delfini avevano cominciato a imitare spontaneamente i fischi generati dal computer quando usavano il giocattolo corrispondente, come i bambini che lanciano una palla e dicono “palla, palla, palla”, mi ha detto Reiss. “Il loro comportamento era sorprendentemente simile alle prime fasi dell’acquisizione del linguaggio nei bambini”.
I ricercatori speravano di replicare il risultato dotando la vasca di un polpo con una piattaforma interattiva e osservando le reazioni dell’animale. Ma non sembrava che il dispositivo suscitasse l’interesse di quel cefalopode solitario. Per far emergere le sue capacità comunicative forse bisognerebbe che fosse affascinato dagli scienziati quanto loro lo sono da lui.
Arriva il leopardo
Anche se sperimentare con animali intrappolati in gabbie e vasche può rivelare le loro facoltà latenti, per capire quello che comunicano tra loro bisogna spiarli in natura. Gli studi precedenti spesso mettevano sullo stesso piano la comunicazione in generale, in cui gli individui attribuiscono un significato ai segnali inviati da altri individui, e il sistema più specifico, flessibile e aperto del linguaggio. In un famoso studio del 1980, per esempio, i primatologi Robert Seyfarth e Dorothy Cheney avevano usato la tecnica del playback per decodificare i segnali di allarme emessi dai cercopitechi nel parco nazionale di Amboseli, in Kenya. Quando la registrazione dei versi emessi da un cercopiteco che aveva incontrato un leopardo è stata fatta ascoltare ad altri cercopitechi, quelli sono scappati tra gli alberi. La registrazione dei bassi grugniti di un cercopiteco che aveva avvistato un’aquila spingevano gli altri a guardare in alto. La registrazione dei suoni acuti emessi da un cercopiteco che aveva visto un pitone li spingeva a guardare a terra.
All’epoca, il New York Times pubblicò in prima pagina un articolo che annunciava la scoperta di un “rudimentale ‘linguaggio’” dei cercopitechi. Ma molti obiettarono che quei richiami potevano non avere nessuna delle proprietà del linguaggio. Piuttosto che essere messaggi intenzionali per comunicare significati, potevano essere suoni involontari, frutto delle emozioni, come il pianto di un bambino affamato. Queste espressioni involontarie possono trasmettere informazioni a chi le ascolta, ma a differenza delle parole e delle frasi, non consentono di parlare di cose lontane nello spazio e nel tempo. I latrati di un cercopiteco in preda al terrore indotto dal leopardo possono avvisare altri cercopitechi della presenza di un leopardo, ma non permettono di parlare, per esempio, del “leopardo davvero puzzolente che ho visto al burrone ieri mattina”.
L’idea che il linguaggio fosse un’anomalia evolutiva ha cominciato a svanire
Toshitaka Suzuki, un etologo dell’università di Tokyo che si definisce un linguista animale, ha trovato un metodo per distinguere i richiami intenzionali da quelli involontari mentre faceva un bagno. Quando abbiamo parlato su Zoom, mi ha mostrato l’immagine di una nuvola. “Se sentiamo la parola ‘cane’, possiamo vederci un cane”, mi ha fatto notare, mentre guardavo la massa bianca. “Se sentiamo la parola ‘gatto’, possiamo vederci un gatto”. Questo, ha detto, segna la differenza tra una parola e un suono: “Le parole influenzano il modo in cui vediamo gli oggetti, i suoni no”.
Usando il metodo del playback Suzuki ha determinato che le cinciallegre giapponesi, una specie di uccelli canori che vive nelle foreste dell’Asia orientale e che lui studia da più di 15 anni, emettono una vocalizzazione speciale quando incontrano i serpenti. Quando altre cince giapponesi sentono una registrazione di quel suono, che Suzuki ha chiamato “jar jar”, fissano il terreno, come se cercassero un serpente. Per determinare se “jar jar” significava “serpente” nel linguaggio delle cince giapponesi, ha aggiunto un altro elemento ai suoi esperimenti: un bastoncino di 20 centimetri, che trascinava sulla superficie di un albero usando cordicelle nascoste. Di solito gli uccelli lo ignoravano. Nella sua analogia, era una nuvola passeggera. Ma se era accompagnato dalla registrazione del richiamo “jar jar”, il bastoncino sembrava assumere un nuovo significato: gli uccelli gli si avvicinavano, come per capire se era veramente un serpente. Come una parola, il verso “jar jar” aveva cambiato la loro percezione.
Cat Hobaiter, una primatologa dell’università di St. Andrews che lavora con le grandi scimmie, ha sviluppato un metodo altrettanto raffinato. Poiché le grandi scimmie sembrano avere un repertorio relativamente limitato di vocalizzazioni, Hobaiter studia i loro gesti. Per anni, lei e i suoi collaboratori hanno seguito gli scimpanzé della foresta di Budongo e i gorilla di Bwindi, in Uganda, registrando i loro gesti e le reazioni degli altri. “Fondamentalmente, il mio lavoro consiste nell’alzarmi la mattina per incontrare gli scimpanzé quando scendono dall’albero, o i gorilla quando escono dal nido, e passare la giornata con loro”, mi ha detto. Finora, dice, ha registrato circa 15.600 esempi di scambi gestuali tra scimmie.
Per determinare se quei gesti sono involontari o intenzionali, usa un metodo che ha adattato dalla ricerca sui bambini. Cerca segnali che producano quello che lei chiama un “risultato apparentemente soddisfacente”. Il metodo si basa sulla teoria che i segnali involontari continuano anche dopo che gli ascoltatori hanno compreso il messaggio, mentre quelli intenzionali si interrompono appena chi li emette si rende conto che il suo ascoltatore ha compreso il messaggio. È la differenza tra il lamento di un bimbo affamato, che continua anche quando i suoi genitori sono andati a prendere il biberon, spiega Hobaiter, e la mia richiesta di versarmi del caffè, che cessa appena qualcuno prende in mano la caffettiera. Per cercare un modello, lei e i suoi ricercatori hanno esaminato “centinaia di casi, decine di gesti e individui diversi che usano lo stesso gesto in giorni diversi”. Finora l’analisi di 15 anni di scambi videoregistrati ha individuato decine di gesti che producono “risultati apparentemente soddisfacenti”.
Questi gesti possono essere intellegibili anche da noi, sebbene al di sotto del livello di coscienza. Hobaiter ha applicato la sua tecnica a bambini di uno e due anni che non sono ancora in grado di parlare, registrando i loro gesti e il modo in cui influivano sugli altri, “come se fossero piccole scimmie, cosa che fondamentalmente sono”, dice. Poi ha pubblicato su internet brevi videoclip di gesti di scimmie e ha chiesto ai visitatori adulti che non avevano mai trascorso del tempo con le grandi scimmie di indovinare che cosa volevano dire. Così ha scoperto che i bambini in età preverbale usano almeno 40 o 50 gesti del repertorio delle scimmie, e gli adulti hanno indovinato correttamente il significato dei gesti registrati in una percentuale “significativamente più alta di quanto fosse prevedibile” se avessero tirato a indovinare, come hanno raccontato Hobaiter e la sua assistente Kirsty E. Graham in un articolo uscito nel 2023 su Plos Biology.
Le ultime ricerche fanno pensare che non ci sia nulla di speciale nel linguaggio umano. Altre specie usano segnali intenzionali simili a parole proprio come facciamo noi. Alcune, come le cince giapponesi e i garruli bicolore, sono notoriamente capaci di combinare segnali diversi per creare nuovi significati. Molte specie sono sociali e praticano la trasmissione culturale, soddisfacendo ciò che potrebbe essere un prerequisito per un sistema di comunicazione strutturato come il linguaggio. Eppure rimane un fatto indiscutibile. Le specie che usano caratteristiche del linguaggio nelle loro comunicazioni condividono poche evidenti somiglianze geografiche o filogenetiche. E nonostante anni di ricerche, nessuno ha scoperto un sistema di comunicazione con tutte le proprietà del linguaggio in una specie diversa dalla nostra.
Il silenzio è d’oro
Per alcuni scienziati le crescenti prove di continuità cognitiva e linguistica tra esseri umani e animali superano quelle di differenze fondamentali. “Non c’è una distinzione così netta”, ha detto Jarvis in un podcast. Fedorenko è d’accordo. L’idea di un abisso che separa l’uomo dalle bestie è il prodotto di “un elitarismo linguistico”, dice, e di una miope concentrazione su “quanto è diverso il linguaggio da tutto il resto”.
◆ I recenti progressi dell’intelligenza artificiale e della bioacustica hanno spinto diversi scienziati a ipotizzare lo sviluppo di software per “tradurre” il linguaggio degli animali, che in un futuro non troppo lontano ci consentirà di comunicare direttamente con loro, scrive Der Standaard. Alcuni sono convinti che questo potrebbe aumentare la nostra empatia verso le specie non umane, spingendoci ad abbandonare il consumo di carne e altri abusi. Altri sono meno ottimisti: invece che nell’interesse degli animali, una tecnologia simile potrebbe essere usata per facilitare il loro sfruttamento. E non è detto che gli animali abbiano voglia di dialogare con noi: se potessero parlarci, probabilmente ci manderebbero a quel paese.
Ma per altri la mancanza di prove chiare della presenza di tutte le componenti del linguaggio in altre specie è, di fatto, la prova della loro assenza. In un libro sull’evoluzione del linguaggio intitolato Perché solo noi (Bollati Boringhieri 2016), scritto in collaborazione con lo scienziato informatico e linguista computazionale Robert C. Berwick, Chomsky descrive le comunicazioni animali come “radicalmente diverse” dal linguaggio umano.
In un libro del 2018, Seyfarth e Cheney notano la “sorprendente discontinuità” tra l’eloquio umano e non umano. I richiami degli animali possono essere modificabili, possono essere volontari o intenzionali, ma raramente sono combinati secondo regole come le parole umane, e “sembrano trasmettere solo informazioni limitate”, scrivono. Se gli animali avessero qualcosa di simile alla sequenza completa di componenti linguistiche che abbiamo noi, dice Kirby, ormai lo sapremmo. Gli animali con capacità cognitive e sociali simili alle nostre raramente si esprimono sistematicamente come facciamo noi, con segnali per distinguere diverse categorie di significato. “Semplicemente non vediamo quel livello di sistematicità nei metodi di comunicazione di altre specie”, ha detto Kirby in un discorso del 2021.
Questa anomalia evolutiva può sembrare strana se si considera il linguaggio un puro e semplice vantaggio. E se non lo fosse? Anche le abilità più straordinarie possono presentare degli svantaggi. Secondo la popolare ipotesi dell’“autoaddomesticamento” sulle origini del linguaggio, proposta da Kirby e James Thomas in un articolo del 2018 pubblicato su Biology & Philosophy, i toni variabili e le locuzioni fantasiose possono impedire ai membri di una specie di riconoscere i loro simili. Oppure, come altri hanno sottolineato, possono attirare l’attenzione dei predatori.
Questi rischi potrebbero in parte spiegare perché le specie domestiche dei fringuelli bengalesi hanno canti più complessi e sintatticamente ricchi rispetto ai loro parenti selvatici, i passeri striati, come ha scoperto il biopsicologo Kazuo Okanoya nel 2012; perché le volpi e i canidi addomesticati mostrano maggiori capacità di comunicare, almeno con gli umani, rispetto ai lupi e alle volpi selvatiche; e perché gli esseri umani, definiti da alcuni esperti come eredi addomesticati dei loro antenati scimmie e ominidi, sono i più loquaci di tutti.
Un divario persistente tra le nostre capacità e quelle di altre specie, in altre parole, non lascia necessariamente il linguaggio al di fuori dell’evoluzione. Forse, dice Fitch, il linguaggio è una caratteristica unica dell’Homo sapiens, ma non lo è in modo unico: è solo tipico degli esseri umani, come la proboscide lo è per gli elefanti e l’ecolocalizzazione per i pipistrelli.
La ricerca delle origini del linguaggio deve ancora arrivare all’anello di re Salomone, che conferisce magicamente a chi lo indossa il potere di parlare agli animali, o al futuro immaginato in un racconto di Ursula K. Le Guin, in cui i terolinguisti studiano i manoscritti delle formiche, le “scritture cinetiche marine” dei pinguini e i “delicati evanescenti versi dei licheni”. Forse non ci arriveremo mai. Ma in ogni caso ciò che sappiamo oggi ci lega ai nostri parenti animali. Non più persi tra oggetti senza mente, ci siamo ritrovati in un mondo nuovo, animato dalle conversazioni di altri esseri pensanti, anche se imperscrutabili. ◆ bt
◆ Le foto di queste pagine sono tra le finaliste dell’edizione 2023 dei Comedy wildlife photography awards, un concorso creato nel 2015 dai fotografi Paul Joynson-Hicks e Tom Sullam che premia immagini e video di animali selvatici ripresi in pose involontariamente comiche. Ogni anno l’iniziativa sostiene un’organizzazione per la conservazione sostenibile.
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Questo articolo è uscito sul numero 1536 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati